La scuola di Atene

La scuola di Atene

venerdì 27 novembre 2015

LA CRISI DEL TRECENTO




LA PESTE NERA


LA TESTIMONIANZA DI MARSILIO DA PADOVA, MEDICO E FILOSOFO



LA PESTE NELLA LETTERATURA

TUCIDIDE
Le sofferenze causate dal morbo furono aggravate, soprattutto per quelli venuti da fuori, dall’affollamento determinatosi con il trasferimento in città degli Ateniesi che abitavano in campagna: poiché mancavano case, si viveva in tuguri che in quel periodo dell’anno erano soffocanti, sì che la strage si compiva nel caos più indescrivibile. I moribondi sul punto di spirare erano ammucchiati gli uni sugli altri, altri mezzo morti
si aggiravano per le strade e intorno a tutte le fontane, mossi dalla voglia spasmodica di acqua. I santuari in cui si erano accampati erano pieni di cadaveri, la gente moriva sul posto, poiché nell’infuriare dell’epidemia gli uomini, non sapendo cosa ne sarebbestato di loro, divennero indifferenti alle leggi sacre come pure a quelle profane. Tutte le consuetudini seguite in passato per le esequie furono sconvolte; ciascuno provvedeva
alla sepoltura come poteva. Molti, mancando del necessario, poiché avevano già avuto molti morti, compievano l’opera di sepoltura in modo vergognoso, utilizzando pire che già erano state innalzate per altri cadaveri: alcuni prevenivano chi aveva provveduto ad accatastare la legna e, deposto sulla pira il proprio morto, subito appiccavano il fuoco, altri invece gettavano su una pira – mentre già vi ardeva un altro cadavere – il corpo che avevano portato, e se ne andavano.
 Anche per altri aspetti la peste segnò per la città l’inizio del dilagare della corruzione. Ciò che prima si faceva, ma solo di nascosto, per proprio piacere, ora lo si osava più liberamente: si assisteva a cambiamenti repentini, vi erano ricchi che morivano all’improvviso, e gente, che prima non aveva niente, da un momento all’altro si trovava in possesso delle ricchezze appartenute a quelli, per cui ci si credeva in diritto di abbandonarsi a rapidi piaceri, volti alla soddisfazione dei sensi, ritenendo un bene eff imero sia il proprio
corpo che il proprio denaro. Nessuno era più disposto a perseverare in quello che prima giudicava fosse il bene, perché – pensava – non poteva sapere se non sarebbe morto prima di arrivarci; invece il piacere immediato e il guadagno che potesse procurarlo, quale che fosse la sua provenienza, ecco ciò che divenne bello e utile. La paura degli dèi o le leggi umane non rappresentavano più un freno, da un lato perché ai loro occhi il rispetto degli dèi o l’irriverenza erano ormai la stessa cosa, dal momento che vedevano morire tutti allo stesso modo, dall’altro perché, commesse delle mancanze, nessuno sperava di restare in vita fino al momento della celebrazione del processo e della resa dei conti. La pena sospesa sulle loro teste era molto più seria, e per essa la condanna era già stata pronunciata: era naturale quindi, prima che si abbattesse su di loro, godersi un po’ la vita.
(Tucidide, La Guerra del Peloponneso, 51 -53)Trad. M. Cagnetta)

MANZONI
Per tutto cenci e, più ributtanti de’ cenci, fasce marciose, strame ammorbato, o lenzoli buttati dalle finestre; talvolta corpi, o di persone morte all’improvviso, nella strada, e lasciati lì fin che passasse un carro da portarli via, o cascati da’ carri medesimi, o buttati anch’essi dalle finestre: tanto l’insistere e l’imperversar del disastro aveva insalvatichiti gli animi, e fatto dimenticare ogni cura di pietà, ogni riguardo sociale! Cessato per tutto ogni rumor di botteghe, ogni strepito di carrozze, ogni grido di venditori, ogni chiacchierio di passeggieri, era ben raro che quel silenzio di morte fosse rotto da altro che da rumor di carri funebri, da lamenti di poveri, da rammarichìo d’infermi, da urli di frenetici, da grida di monatti. All’alba, a mezzogiorno, a sera, una campana del duomo dava il segno di recitar certe preci assegnate dall’arcivescovo: a quel tocco rispondevan le campane dell’altre chiese; e allora avreste veduto persone affacciarsi alle finestre, a pregare in comune; avreste sentito un bisbiglio di voci e di gemiti, che spirava una tristezza mista pure di qualche conforto. (...)
Si vedevano gli uomini più qualificati, senza cappa né mantello, parte allora essenzialissima del vestiario civile; senza sottana i preti, e anche de’ religiosi in farsetto; dismessa in somma ogni sorte di vestito che potesse con gli svolazzi toccar qualche cosa, o dare (ciò che si temeva più di tutto il resto) agio agli untori. E fuor di questa cura d’andar succinti e ristretti il più che fosse possibile, negletta e trasandata ogni persona; lunghe le barbe di quelli che usavan portarle, cresciute a quelli che prima costumavan di raderle; lunghe pure e arruffate le capigliature, non sol per quella trascuranza che nasce da un invecchiato abbattimento, ma per esser divenuti sospetti i barbieri, da che era stato preso e condannato, come untor famoso, uno di loro, Giangiacomo Mora: nome che, per un pezzo, conservò una celebrità municipale d’infamia, e ne meriterebbe una ben più diffusa e perenne di pietà. I più tenevano da una mano un bastone, alcuni anche una pistola, per avvertimento minaccioso a chi avesse voluto avvicinarsi troppo; dall’altra pasticche odorose, o (...) spugne inzuppate d’aceti medicati; e se le andavano ogni tanto mettendo al naso, o ce le tenevano di continuo. (...)
I gentiluomini, non solo uscivano senza il solito seguito, ma si vedevano, con una sporta in braccio, andare a comprar le cose necessarie al vitto. Gli amici, quando pur due s’incontrassero per la strada, si salutavan da lontano, con cenni taciti e frettolosi. Ognuno, camminando, aveva molto da fare, per iscansare gli schifosi e mortiferi inciampi di cui il terreno era sparso e, in qualche luogo, anche affatto ingombro: ognuno cercava di stare in mezzo alla strada, per timore d’altro sudiciume, o d’altro più funesto peso che potesse venir giù dalle f inestre; per timore delle polveri venefiche che si diceva essere spesso buttate da quelle su’ passeggieri; per timore delle muraglie, che potevan esser unte. Così l’ignoranza, coraggiosa e guardinga alla rovescia, aggiungeva ora angustie all’angustie, e dava falsi terrori, in compenso de’ ragionevoli e salutari che aveva levati da principio. […] Andò avanti, con in cuore quella solita trista e oscura aspettativa. Arrivato al crocicchio, vide da una parte una moltitudine confusa che s’avanzava, e si fermò lì, per lasciarla passare. Erano ammalati che venivan condotti al lazzeretto; alcuni, spinti a forza, resistevano in vano, in vano gridavano che volevan morire sul loro letto, e rispondevano con inutili imprecazioni alle bestemmie e ai comandi de’ monatti che li guidavano; altri camminavano in silenzio, senza mostrar dolore, né alcun altro sentimento, come insensati; donne co’ bambini in collo; fanciulli spaventati dalle grida, da quegli ordini, da quella compagnia, più che dal pensiero confuso della morte, i quali ad alte strida imploravano la madre e le sue braccia fidate, e la casa loro. Ahi! e forse la madre, che credevano d’aver lasciata addormentata sul suo letto, ci s’era buttata, sorpresa tutt’a un tratto dalla peste; e stava lì senza sentimento, per esser portata sur un carro al lazzeretto, o alla fossa, se il carro veniva più tardi. Forse, o sciagura degna di lacrime ancor più amare! la madre, tutta occupata de’ suoi patimenti, aveva dimenticato ogni cosa, anche i figli, e non aveva più che un pensiero: di morire in pace. Pure, in tanta confusione, si vedeva ancora qualche esempio di fermezza e di pietà: padri, madri, fratelli, figli, consorti, che sostenevano i cari loro, e gli accompagnavano con parole di conforto: né adulti soltanto, ma ragazzetti, ma fanciulline che guidavano i fratellini più teneri; e con giudizio e con compassione da grandi, raccomandavano loro d’essere ubbidienti, gli assicuravano che s’andava in un luogo dove c’era chi avrebbe cura di loro per farli guarire. 
(Manzoni, I promessi sposi, XXXIV)

A. CAMUS
Finora la peste aveva fatto molte più vittime nei quartieri esterni, più popolati e meno comodi, che nel centro della città; ma all’improvviso sembrò avvicinarsi e stabilirsi anche nel quartiere degli affari. Gli abitanti accusavano il vento di trasportare i germi infettivi. «Imbroglia le carte» diceva il direttore dell’albergo. Comunque fosse, i quartieri del centro sapevano che il loro turno era venuto sentendosi vibrare tutt’intorno, nella notte, e con frequenza sempre maggiore, la campana delle ambulanze, che faceva risuonare sotto le loro f inestre il richiamo tetro e senza passione della peste. Nel centro stesso della città si ebbe l’idea d’isolare certi quartieri particolarmente colpiti, e di non autorizzare a uscirne che gli uomini i cui servizi fossero indispensabili. Coloro che sino allora vi erano vissuti non poterono fare a meno di considerare questa misura come una vessazione particolarmente diretta contro di loro, e in ogni caso pensavano, per contrasto, agli abitanti degli altri quartieri come a uomini liberi. Questi ultimi, in cambio, nei momenti diff icili trovavano una consolazione nell’immaginare che altri erano ancora meno fortunati di loro. «C’è sempre uno più prigioniero di me», era la frase che riassumeva allora la sola speranza possibile. Press’a poco a quell’epoca ci fu anche una recrudescenza d’incendi, soprattutto nei quartieri eleganti alle porte ovest della città. Assunte informazioni, si trattava di persone tornate dalla quarantena, che impazzite per i lutti e le disgrazie davano fuoco alle loro case nell’illusione di farvi morire la peste. (...)
 Ma la notte era anche in tutti i cuori, e la verità come le leggende che si riportavano a proposito dei seppellimenti non erano fatte per rassicurare i nostri concittadini. Infatti, bisogna ben parlare dei seppellimenti, e il narratore se ne scusa, sensibile al rimprovero che gli si potrebbe fare al riguardo. La sua sola giustif icazione è che vi furono seppellimenti per tutto quel periodo e che, in una certa maniera, egli fu costretto, come furono costretti tutti i suoi concittadini, a preoccuparsi dei seppellimenti. […] Ebbene, quello che caratterizzava, in principio, le nostre cerimonie era la rapidità; tutte le formalità erano state semplificate e generalmente la pompa funeraria era stata soppressa. I malati morivano lontani dalle loro famiglie, le veglie rituali erano state proibite, di modo che chi era morto in serata passava la notte da solo, e chi moriva durante il giorno era sepolto senza indugio. Si avvertiva la famiglia, beninteso, ma, nella maggior parte dei casi, questa non poteva muoversi, essendo in quarantena se era vissuta accanto al malato. Nel caso in cui la famiglia non abitasse col defunto, si presentava all’ora indicata, ossia a quella della partenza per il cimitero, quando il corpo era stato ormai lavato e messo nella bara. (...)
In tal modo, tutto si svolgeva veramente col massimo di rapidità e col minimo di rischi. E di certo, almeno in principio, è chiaro che il naturale sentimento delle famiglie ne fosse urtato. Ma in tempo di peste, sono considerazioni di cui non è possibile tener conto: tutto era sacrificato all’efficacia. Del resto, se in principio il morale della popolazione aveva sofferto di tali pratiche – il desiderio di esser seppelliti decentemente essendo più diffuso di quanto non si creda – un po’ più avanti, per fortuna, il problema del vettovagliamento diventò delicato e l’interesse degli abitanti deviò verso preoccupazioni più immediate. Assorbite dalle code da fare, dai passi e dalle formalità da compiere se volevano mangiare, le persone non ebbero più il tempo di pensare alla maniera con cui si moriva intorno a loro e con cui un giorno sarebbero morte; e le difficoltà materiali, che dovevano essere un male, si rivelarono, in seguito, un beneficio. Tutto sarebbe andato per il meglio se, come abbiamo veduto, il contagio non si fosse esteso. (...)
 In fondo al cimitero, in un terreno nudo, coperto da lentischi, si erano scavate due immense fosse; c’era la fossa degli uomini e quella delle donne. Da questo punto di vista, l’amministrazione rispettava le convenienze e soltanto molto più tardi, per forza di cose, quest’ultimo pudore scomparve, e si seppellì alla rinfusa, gli uni sulle altre, uomini e donne, trascurando la decenza. Per fortuna, quest’ultima confusione contraddistinse unicamente i momenti estremi del flagello. Nel periodo di cui ci occupiamo la separazione delle fosse esisteva, e la prefettura ci teneva molto. In fondo a ognuna un grosso strato di calce viva fumava e bolliva. Sugli orli della buca una montagnola della stessa calce lasciava scoppiare le sue bolle all’aria aperta. Quando i viaggi dell’ambulanza erano terminati, si portavano le barelle in corteo, si lasciavano scivolare nel fondo, press’a poco gli uni accanto agli altri, i corpi spogliati e leggermente contorti; li si coprivano di calce viva, poi di terra, ma sino a una certa altezza soltanto, allo scopo di preparare il posto ai futuri ospiti. Il giorno dopo i parenti erano invitati a f irmare in un registro, il che segnava la differenza più importante che ci può essere tra gli uomini e, ad esempio, i cani: il controllo era sempre possibile.
(A. CAMUS, La peste, Trad. B. Dal Fabbro) 

mercoledì 25 novembre 2015

BOCCACCIO

Fin da quando ero nel seno materno
ho avuto per natura la vocazione alla poesia e,
per quel che posso giudicare, sono nato soltanto per questo. Ricordo, infatti, che mio padre, fin dall'infanzia,
indirizzò tutti i suoi sforzi per fare di me un commerciante;
e dopo avermi fatto imparare l'aritmetica, mi affidò,
non ancora adolescente, in qualità di apprendista,
ad un grande commerciante,
presso il quale per sei anni non feci altro che sprecare  inutilmente un tempo non più recuperabile.
(...) E non un capriccio improvviso,
ma un'originaria inclinazione del mio spirito,
lo faceva tendere con tutte le forze alla poesia.
(G. Boccaccio, Genealogiae deorum gentilium)




ELEGIA DI MADONNA FIAMMETTA, cap. V      
D. G. Rossetti, "Visione di Fiammetta"

"A cosí fatta vita e a piggiore m’ha la fortuna lasciata consolazione cosí piccola, come udite; né intendiate consolazione che me di dolore privi, sí come l'altre suole: essa solamente alcuna volta gli occhi toglie dal lagrimare senza piú prestarmi de’ suoi beni. Seguitando adunque le mie fatiche, dico che, con ciò sia cosa che io per addietro tra l'altre giovini della mia città di bellezze ornatissima, quasi niuna festa solea, che alli divini templi si facesse, lasciare, né alcuna bella senza me ne reputavano li cittadini; le quali feste vegnendo, a quelle mi solevano sollecitare le serve mie, e ancora esse, l'antico ordine osservando, apparecchiati li nobili vestimenti, alcuna volta mi dicono:
“O donna, adórnati; venuta è la solennità di cotale tempio, la quale te sola aspetta per compimento.
Ohimè! che egli mi torna a mente che io alcuna volta a loro furiosa rivolta, non altramente che l'addentato cinghiaro alla turba de cani, a loro rispondeva turbata, e con voce d'ogni dolcezza vòta, già dissi:
“Via, vilissima parte della nostra casa, fate lontani da me questi ornamenti: brieve roba basta a coprire gli sconsolati membri, né piú alcuno tempio né festa per voi a me si ricordi, se la mia grazia v'è cara.
Oh, quante volte già, come io udii, furono quelli da molti nobili visitati, li quali piú per vedermi, che per divozione alcuna venuti, non veggendomi, turbati si tornavano indietro, nulla dicendo senza me valere quella festa! Ma come che io cosí le rifiuti, pure alcuna volta, in compagnia delle mie nobili compagne, me le conviene costretta vedere, con le quali io semplicemente e di feriali vestimenti vestita vi vado, e quivi non i solenni luoghi, come già feci, cerco, ma, rifiutando li già voluti onori, umile, ne piú bassi luoghi tra le donne m'assetto; e quivi diverse cose, ora dall'una ora dall'altra ascoltando con doglia nascosa quanto io piú posso, passo quello tempo che  io vi dimoro. Ohimè! quante volte già m’ho io udito dire  assai d'appresso:
“Oh, quale maraviglia è questa! Questa donna, singulare ornamento della nostra città, cosí rimessa e umile è divenuta? Qual divino spirito l’ha spirata? Ove le nobili robe? Ove gli altieri portamenti? Ove le mirabili bellezze si sono fuggite?
Alle quali parole, se licito mi fosse stato, avrei volontieri risposto: “Tutte queste cose, con molte altre piú care, se ne portò Panfilo dipartendosi”.
Quivi ancora dalle donne intorniata, e da diverse domande trafitta, a tutte con infinto viso mi conviene satisfare. L'una con cotali voci mi stimola:
“O Fiammetta, senza fine di te me e l'altre donne fai maravigliare, ignorando quale sia stata sí súbita la cagione che le preziose robe hai lasciate e li cari ornamenti, e l’altre cose dicevoli alla tua giovine etade; tu, ancora fanciulla, in sí fatto abito andare non dovresti. Non pensi tu che, lasciandolo ora, per innanzi ripigliar nol potrai? Usa gli anni secondo la loro qualità. Questo abito di tanta onestade da te preso non ti falla per innanzi. Vedi qui qualunque di noi, piú di te attempate, ornate con maestra mano, e d'artificiali drappi e onorevoli vestite, e cosí tu similemente dovresti essere ornata.
A costei e a piú altre aspettanti le mie parole rendo io con umile voce cotale risposta:
“Donne, o per piacere a Dio o agli uomini si viene a questi templi. Se per piacere a Dio ci si viene, l'anima ornata di virtú basta, né forza fa, se il corpo di cilicio fosse vestito; se per piacere agli uomini ci si viene, con ciò sia cosa che la maggior parte, da falso parere adombrati per le cose esteriori giudichino quelle dentro, confesso che gli ornamenti usati e da voi e da me per addietro, si richieggiono. Ma io di ciò non ho cura, anzi, dolente delle passate vanità, volonterosa d'ammendare nel cospetto d'Iddio, mi rendo quanto posso dispetta agli occhi vostri.
E quinci le lagrime dall’intrinseca verità cacciate per forza fuori mi bagnano il mesto viso, e con tacita voce cosí con meco medesima dico:
“O Iddio, veditore de’ nostri cuori, le non vere parole dette da me non m'imputare in peccato. Come tu vedi, non volontà d'ingannare, ma necessità di ricoprire le mie angoscie a quelle mi strigne, anzi piuttosto merito me ne rendi, considerando che'l malvagio essemplo levando, alle tue creature il do buono: egli m'è grandissima pena il mentire, e con faticoso animo la sostengo, ma piú non posso”.
Oh quante volte, o donne, ho io per questa iniquità pietose laude ricevute, dicendo le circustanti donne me divotissima giovine di vanissima ritornata! Certo, io intesi piú volte di molte essere oppinione, me di tanta amicizia essere congiunta con Dominedio, che niuna grazia a lui da me dimandata, negata sarebbe; e piú volte ancora dalle sante persone per santa fui visitata, non conoscendo esse quel che nell'animo nascondea il tristo viso, e quanto li miei disiderii .fossero lontani alle mie parole. O ingannevole mondo, quanto possono in te gl’infinti visi piú che li giusti animi, se l'opere sono occulte! Io, piú peccatrice che altra, dolente per li miei disonesti amori, però che quelli velo sotto oneste parole, sono reputata santa; ma conoscelo Iddio, che, se senza pericolo essere potesse, io con vera voce di me sgannerei ogni ingannata persona, né celerei la cagione che trista mi tiene; ma non si puote."



Il Decameron: il piacere di raccontare storie

sabato 31 ottobre 2015

LA TRADUZIONE, LE TRADUZIONI: tradurre è tradire?

La traduzione è questione di negoziazione, tra traduttore, lettore, e autore originario (ovvero il testo che ci ha lasciato come unica testimonianza delle sue intenzioni). (...)
La conclamata "fedeltà" delle traduzioni non è un criterio che porta all'unica traduzione accettabile. (...)
La fedeltà è piuttosto (...) l'impegno a identificare quello che per noi è il senso profondo del testo, e la capacità di negoziare a ogni istante la soluzione che ci pare più giusta.
Se consultate qualsiasi dizionario vedrete che tra i sinonimi di "fedeltà" non c'è la parola esattezza. Ci sono piuttosto "lealtà", "onestà", "rispetto" ...
(U. Eco Dire quasi la stessa cosa)

Catullo: Odi et amo

http://nonquidsedquomodo.altervista.org/latino/programma-di-3/369-catullo-85-odi-et-amo


Orazio
http://nonquidsedquomodo.altervista.org/latino/programma-di-5/1292-orazio-tu-ne-quaesieris

... carpe diem, quam minimum credula postero.
(Odi I,11)

a)  Domenico Cappellina (1901)
... godi tu del dì presente, né ti attendere quel di domani.

b) Italo Lana - Arnaldo Fellin
... cogli l’oggi, nient’affatto fiduciosa nel domani.

c) Ezio Cetrangolo (1968)
... godi il presente, e il resto appena credilo.

d) Ennio Mandruzzato (1985)
     ... cogli la giornata, non credere al domani.

e) Mario Ramous (1988)
    ... goditi il presente e non credere al futuro.

f)  Luca Canali (1991)
... afferra l’oggi, credi al domani quanto meno puoi.

g) Alfonso Traina (1993)
... cogli ogni giorno che viene, senza farti illusioni sul domani.


Marziale

Epigrammi I, 57

Il giusto mezzo
 Qualem, Flacce, velim quaeris nolimve puellam?
 Nolo nimis facilem difficilemque nimis.
 Illud quod medium est atque inter utrumque probamus:
 nec volo quod cruciat, nec volo quod satiat.

a) Vuoi sapere che tipo di ragazza
mi piace, Flacco? Una non troppo facile
e neanche troppo difficile, il giusto
mezzo tra questo e quello. Non desidero
una lunga tortura ma nemmeno
la sazietà immediata.
(Cesare Vivaldi)

b) Che ragazza mi piace, chiedi, Flacco?
Né facile la voglio, né difficile.
qualcosa di mediano andrebbe bene:
che non mi metta in croce e non mi saturi.

SCHEDA DI ANALISI CONTRASTIVA
  1. Redigi una valutazione globale delle differenze riscontrabili tra i due testi, originale e traduzione, confrontando eventuali diversità semantiche, ideologiche, pragmatiche e stilistiche.
  2. Fornisci una valutazione della traduzione (scorrevole, semplice, chiara, convenzionale, complessa, elegante, ecc.).
  3. Ti sembra che il traduttore abbia compiuto alcune inferenze, trasmesse nella sua versione sotto forma di informazioni integrative o alternative?
  4. Ti pare invece che abbia eliminato alcuni termini dell'originale, considerandoli irrilevanti ai fini espressivi e comunicativi del testo tradotto?
  1. Nella traduzione sono esplicitati alcuni coesori testuali non rilevabili nell'originale? Ti sembra che questi siano stati introdotti allo scopo di facilitare la decodificazione? In caso affermativo ti sembra che tale maggiore esplicitazione di tratti di coerenza conferisca un eccesso di ridondanza fastidiosa e superflua?
  2. Rileva l'eventuale disseminazione del significante nel testo originale. Si tratta di un procedimento poetico grazie al quale alcuni suoni che caratterizzano la parola-chiave vengono replicati in altre parole della composizione.

  1. Tale disseminazione del significante è riscontrabile anche nel testo tradotto?
  2. Ritieni che il traduttore abbia prestato più attenzione alla traduzione delle parole o alla interpretazione delle idee rappresentate nell'originale?
  3. Le funzioni comunicative e le intonazioni del testo originale hanno un corrispettivo adeguato nella traduzione?
  4. L'impressione generale ricevuta dalla lettura della traduzione è di naturalezza o di artificiosità? Argomenta la tua risposta.

giovedì 29 ottobre 2015

DALLA RES PUBLICA ALL'IMPERO

Cesare: l'ascesa e il successo




LA COSTRUZIONE DEL NEMICO


La religiosità dei Galli
Natio est omnis Gallorum admodum dedita religionibus, atque ob eam causam qui sunt adfecti gravioribus morbis quique in proeliis periculisque versantur aut pro victimis homines immolant aut se immolaturos vovent, administrisque ad ea sacrificia druidibus utuntur, quod, pro vita hominis nisi hominis vita reddatur, non posse deorum immortalium numen placari arbitrantur, publiceque eiusdem generis habent instituta sacrificia. Alii immani magnitudine simulacra habent, quorum contexta viminibus membra vivis hominibus complent; quibus succensis, circumventi flamma examinantur homines. Supplicia eorum qui in furto aut in latrocinio aut aliqua noxia sint comprehensi, gratiora dis immortalibus esse arbitrantur; sed cum eius generis copia deficit, etiam ad innocentium supplicia descendunt.

IL DISCORSO DI CRITOGNATO
http://online.scuola.zanichelli.it/candidisoles-files/testi/6393_Candidi-Soles_Cesare_Testo-07.pdf


Cesare: la guerra civile



Cesare: Farsalo, la campagna d'Egitto, la catastrofe per Pompeo



Le Idi di Marzo del 44 a.C.: la morte di Cesare




CLEOPATRA



AUGUSTO




In consulatu sexto et septimo, postquam bella civilia exstinxeram per consensum universorum potitus rerum omnium, rem publicam ex mea potestate in senatus populique Romani arbitrium transtuli. Quo pro merito meo senatus consulto Augustus appellatus sum et laureis postes aedium mearum vestiti publice coronaque civica super ianuam meam fixa est et clupeus aureus in curia Iulia positus, quem mihi senatum populumque Romanum dare virtutis clementiaeque iustitiae et pietatis causa testatum est per eius clupei inscriptionem. Post id tempus auctoritate omnibus praestiti, potestatis autem nihilo amplius habui quam ceteri qui mihi quoque in magistratu conlegae fuerunt. 
(Res gestae Divi Augusti, 34)


"Dopo che, uccisi Bruto e Cassio, lo stato restò disarmato e, con la disfatta di Pompeo in Sicilia, l'emarginazione di Lepido e l'uccisione di Antonio, non rimase a capo delle forze cesariane se non Cesare Ottaviano, costui, deposto il nome di triumviro, si presentò come console, pago della tribunicia potestà a difesa della plebe. Quando ebbe adescato i soldati con donativi, con distribuzione di grano il popolo, e tutti con la dolcezza della pace, cominciò passo dopo passo la sua ascesa, cominciò a concentrare su di sé le competenze del senato, dei magistrati, delle leggi, senza opposizione alcuna: gli avversari più decisi erano scomparsi o sui campi di battaglia o nelle proscrizioni, mentre gli altri nobili, quanto più pronti a servire, tanto più salivano di ricchezza o in cariche pubbliche, e, divenuti più potenti col nuovo regime, preferivano la sicurezza del presente ai rischi del passato. Né si opponevano a quello stato di cose le province: era a loro sospetto il governo del senato e del popolo, per la rivalità dei potenti, l'avidità dei magistrati e le insufficienti garanzie fornite dalle leggi, stravolte dalla violenza, dagli intrighi e, infine, dalla corruzione."
(Tacito, Annales, I, 2,1)

"L'ordinamento dello stato peraltro non fu quello di un regno o di una dittatura, ma si resse sul nome e sull'autorità di un principe. (...)
A ciò si opponeva che l'amore per il padre e l'emergenza dello stato erano serviti come puro pretesto; che aveva, invece, per sete di dominio, mobilitato con distribuzioni di denaro, i veterani, e, ancor giovane e semplice cittadino, si era allestito un esercito."
(Tacito, Annales, I, 9,5 - 10,1)

Si quis matrifamilias aut praetextato praetextataeve comitem abduxisse(t) sive quis eum eamve adversus bonos mores appellasse(t) adsectatusve esse(t) dicetur (adtemptata pudicitia).
(Editto De adtemptata pudicitia)


TITO LIVIO E LA PREFAZIONE AGLI AB URBE CONDITA LIBRI


TACITO: RITRATTO DI TIBERIO 


SVETONIO: RITRATTO DI CALIGOLA

50 Caligola aveva la statura alta, il colore livido, il corpo mal proporzionato, il collo e le gambe estremamente gracili, gli occhi infossati e le tempie scavate, la fronte larga e torva, i capelli radi e
mancanti alla sommità della testa, il resto del corpo villoso. Per queste ragioni, quando passava, era un delitto, punibile con la morte, guardarlo da lontano o dall'alto o semplicemente pronunciare, per un motivo qualsiasi, la parola capre.
Quanto al volto, per natura orribile e ripugnante, si sforzava di renderlo ancora più brutto studiando davanti allo specchio tutti gli atteggiamenti della fisionomia capaci di ispirare terrore e paura. La sua salute non fu ben equilibrata né fisicamente né psichicamente. Soggetto ad attacchi di epilessia durante la sua infanzia, divenuto adolescente, era abbastanza resistente alle fatiche, ma qualche volta, colto da un'improvvisa debolezza, poteva a mala pena camminare, stare in piedi, riprendersi e sostenersi. Lui stesso si era accorto del suo disordine mentale e più di una volta progettò di ritirarsi per snebbiarsi il cervello.
Si crede che sua moglie Cesonia gli fece bere un filtro d'amore, ma che ciò lo rese pazzo.
Soffriva soprattutto di insonnia e non riusciva a dormire più di tre ore per notte e nemmeno in tranquillità, perché era turbato da visioni strane. Una volta, tra le altre, gli sembrò di trovarsi a colloquio con lo spettro del mare. Così, generalmente, per buona parte della notte, stanco di vegliare o di stare sdraiato, ora si metteva seduto sul suo letto, ora vagava per gli immensi portici, attendendo e invocando il giorno.
(De vita Caesarum, 4,50)



NERONE: L'INCENDIO DI ROMA


L'INCENDIO DI ROMA: ALBERTO ANGELA
http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-b803a288-e6fd-4340-8fc1-980bbf294986.html

Fu Nerone a volere l'incendio di Roma ?   (Tacito, Annales, Liber  XV, 38 ) 

38. Si verificò poi un disastro, non si sa se accidentale o per dolo dell'imperatore - gli storici infatti tramandano le due versioni - comunque il più grave ed atroce toccato alla città a causa di un incendio. Iniziò nella parte del circo contigua ai colli Palatino e Celio, dove il fuoco, scoppiato nelle botteghe piene di merci infiammabili, subito divampò, alimentato dal vento, e avvolse il circo in tutta la sua lunghezza. Non c'erano palazzi con recinti e protezioni o templi circondati da muri o altro che facesse da ostacolo. L'incendio invase, nella sua furia, dapprima il piano, poi risalì sulle alture per scendere ancora verso il basso, superando, nella devastazione, qualsiasi soccorso, per la fulmineità del flagello e perché vi si prestavano la città e i vicoli stretti e tortuosi e l'esistenza di enormi isolati, di cui era fatta la vecchia Roma. Si aggiungano le grida di donne atterrite, i vecchi smarriti e i bambini, e chi badava a sé e chi pensava agli altri e trascinava gli invalidi o li aspettava; e chi si precipita e chi indugia, in un intralcio generale. Spesso, mentre si guardavano alle spalle, erano investiti dal fuoco sui fianchi e di fronte, o, se alcuno riusciva a scampare in luoghi vicini, li trovava anch'essi in preda alle fiamme, e anche i posti che credevano lontani risultavano immersi nella stessa rovina. Nell'impossibilità, infine, di sapere da cosa fuggire e dove muovere, si riversano per le vie e si buttano sfiniti nei campi. Alcuni, per aver perso tutti i beni, senza più nulla per campare neanche un giorno, altri, per amore dei loro cari rimasti intrappolati nel fuoco, pur potendo salvarsi, preferirono morire. Nessuno osava lottare contro le fiamme per le ripetute minacce di molti che impedivano di spegnerle, e perché altri appiccavano apertamente il fuoco, gridando che questo era l'ordine ricevuto, sia per potere rapinare con maggiore libertà, sia che quell'ordine fosse reale.

Nerone canta la presa di Troia mentre Roma brucia (Tacito, Annales, Liber XV, 39 )
39. Nerone, allora ad Anzio, rientrò a Roma solo quando il fuoco si stava avvicinando alla residenza, che aveva edificato per congiungere il Palazzo coi giardini di Mecenate. Non si poté peraltro impedire che fossero inghiottiti dal fuoco il Palazzo, la residenza e quanto la circondava. Per prestare soccorso al popolo, che vagava senza più una dimora, aprì il Campo di Marte, i monumenti di Agrippa e i suoi giardini, e fece sorgere baracche provvisorie, per dare ricetto a questa massa di gente bisognosa di tutto. Da Ostia e dai comuni vicini vennero beni di prima necessità e il prezzo del frumento fu abbassato fino a tre sesterzi per moggio. Provvedimenti che, per quanto intesi a conquistare il popolo, non ebbero l'effetto voluto, perché era circolata la voce che, nel momento in cui Roma era in preda alle fiamme, Nerone fosse salito sul palcoscenico del Palazzo a cantare la caduta di Troia, raffigurando in quell'antica sciagura il disastro attuale.


La persecuzione dei Cristiani (Tacito, Annales, Liber XV, 44)
Perciò, per far cessare tale diceria, Nerone si inventò dei colpevoli e sottomise a pene raffinatissime coloro che la plebaglia, detestandoli a causa delle loro nefandezze, denominava cristiani. Origine di questo nome era Cristo, il quale sotto l'impero di Tiberio era stato condannato al supplizio dal procuratore Ponzio Pilato; e, momentaneamente sopita, questa esiziale superstizione di nuovo si diffondeva, non solo per la Giudea, focolare di quel morbo, ma anche a Roma, dove da ogni parte confluisce e viene tenuto in onore tutto ciò che vi è di turpe e di vergognoso. Perciò, da principio vennero arrestati coloro che confessavano, quindi, dietro denuncia di questi, fu condannata una ingente moltitudine, non tanto per l’accusa dell'incendio, quanto per odio del genere umano. Inoltre, a quelli che andavano a morire si aggiungevano beffe: coperti di pelli ferine, perivano dilaniati dai cani, o venivano crocifissi oppure arsi vivi in guisa di torce, per servire da illuminazione notturna al calare della notte. Nerone aveva offerto i suoi giardini e celebrava giochi circensi, mescolato alla plebe in veste d’auriga o ritto sul cocchio. Perciò, benché si trattasse di rei, meritevoli di pene severissime, nasceva un senso di pietà, in quanto venivano uccisi non per il bene comune, ma per la ferocia di un solo uomo.”

LA MORTE DI SENECA
http://www.filosofico.net/Antologia_file/AntologiaT/tacito1.htm


LEX DE IMPERIO VESPASIANI
http://hubmiur.pubblica.istruzione.it/alfresco/d/d/workspace/SpacesStore/f681de33-ebfb-4dee-ab74-a0ef083df4fb/prof.ssa_elena_tassi-la_lex_de_imperio_vespasiani1.pdf

http://online.scuola.zanichelli.it/lineamentidistoria-files/Vol_2/PDF_testimoni/LdS2_LexdeImperio.pdf

http://www.treccani.it/scuola/lezioni/in_aula/storia/vespasiano/mori_vespasiano.html


LA COLONNA TRAIANA



MARCO AURELIO: L'IMPERATORE FILOSOFO




LA COLONNA AURELIANA



mercoledì 28 ottobre 2015

PASOLINI

Pasolini: il mito
http://www.leparoleelecose.it/?p=23962

PASOLINI: VITA E OPERE
http://www.raistoria.rai.it/articoli/muore-pier-paolo-pasolini/23081/default.aspx

MORTE DI PASOLINI
http://youtu.be/BnQL1q3SNtM

O. Fallaci, "E' stato un massacro!"
http://www.pierpaolopasolini.eu/processi_pelosi_massacro.htm

Per colpa della  verità si può anche morire? La risposta è affermativa. Ma altra è l’ulteriore domanda a cui si dovrebbe rispondere: per quale verità Pasolini potrebbe essere stato ucciso? Due le possibili ipotesi, fra loro, del resto, intimamente connesse: innanzitutto, quella sugli attentati che insanguinavano l’Italia e sulla corruzione della classe politica italiana, tanto ch’egli reclamava un “processo” a carico di ministri e politici; ma anche quella sulla morte di Enrico Mattei, momento culminante, almeno nel romanzo incompiuto Petrolio, di un complotto alla cui testa riteneva si collocasse Eugenio Cefis, personaggio dissimulato in Petrolio, sotto il nome di Troya.
Presidente dell’Eni nella seconda metà degli anni Sessanta e quindi a capo della Montedison dal maggio 1971, Cefis aveva usato la sua preminente posizione in campo economico e finanziario, delegatagli dai politici, per organizzare un centro di potere che si avvaleva, in maniera sempre più aggressiva, delle disponibilità del gruppo da lui gestito per annettere a sé uomini, gruppi e mezzi nei diversi settori della vita nazionale. Il “sistema” da lui posto in essere era divenuto progressivamente un vero e proprio potentato, che sfruttando le risorse imprenditoriali pubbliche condizionava pesantemente la stampa, usava illecitamente i servizi segreti dello Stato a scopo d’informazione, praticava l’intimidazione e il ricatto, compiva manovre finanziarie spregiudicate oltre i limiti della legalità, corrompeva politici, stabiliva alleanze con ministri, partiti e correnti.
Il “sistema Cefis” cominciò a declinare, come tale, dalla metà degli anni Settanta fino all’uscita di scena del suo organizzatore nel 1977. Allo stesso tempo, si andava sviluppando il “sistema P2”. Vi sono fra i due “sistemi”elementi di continuità e non pochi sono i punti di contatto tra le due fasi della vita politica italiana, nelle quali hanno avuto un peso rilevante raggruppamenti palesi ed occulti operanti nell’illegalitàSi è parlato della Loggia P2 come di un’organizzazione per delinquere interna alla classe dirigente, e la sua posta in gioco sarebbe stato il potere e il suo esercizio illegittimo e occulto con l’uso di ricatti, di rapine su larga scala, di attività eversive e di giganteschi imbrogli finanziari fino al ricorso alla eliminazione fisica.
Forse, sarà stato un caso che Pier Paolo Pasolini abbia trovato la morte proprio sul finire del 1975. Non si può trascurare il fatto, però, ch’egli avesse affermato di sapere i nomi dei responsabili della “serie di «golpe» istituitasi a sistema di protezione del potere, col suo orrendo corredo di stragi e attentati alle istituzioni, in combutta con servizi segreti stranieri, vecchi generali, per tenere in piedi, di riserva, l’organizzazione di un potenziale colpo di Stato, vecchi fascisti “ideatori di golpe”, giovani neo-fascisti “autori materiali delle prime stragi”, “«ignoti» autori materiali delle stragi più recenti, criminali mafiosi e comuni. Certo, aveva anche affermato di sapere senza averne le prove, ma aveva spiegato di sapere perché era un intellettuale, i cui strumenti del mestiere sono il “cerca(re) di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace”, ed altresì il “…coordina(re) fatti anche lontani, …rimette(re) insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, …ristabili(re) la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero”.

IL CASO MATTEI
Presidente dell’ENI, muore nel 1962 in un misterioso incidente aereo a Bescapé, in provincia di Pavia: l’aereo sarebbe esploso in volo. Secondo alcuni, il mandante dell'omicidio di Mattei era stato il suo ex braccio destro all'ENI Eugenio Cefis, che pochi mesi prima era stato costretto alle dimissioni dallo stesso Mattei quando questi si sarebbe reso conto che Cefis era manovrato dalla CIA.[49] Pochi giorni dopo l'attentato Cefis fu reintegrato nell'ENI come vicepresidente e successivamente ne divenne presidente stesso. Cefis non fu mai incriminato ufficialmente.
Il mistero della fine di Mattei si complicò dopo la sua morte e arrivò a coinvolgere anche alcune delle persone che ebbero a che fare con Mattei e con l'inchiesta sull'incidente: esse morirono in circostanze misteriose.
Il caso più noto è certamente quello del giornalista Mauro De Mauro, il quale si era mostrato assai disponibile a fornire a Francesco Rosi, autore del noto film dei primi anni settanta su Enrico Mattei, materiale (probabilmente nastri magnetici audio) ritenuto di estremo interesse per la ricostruzione dei fatti che il regista andava raccogliendo come base documentale per la sceneggiatura. Pochissimo prima dell'incontro previsto con Rosi, De Mauro scomparve nel nulla. Ufficialmente considerato un delitto di mafia, il caso De Mauro è riemerso in tempi recenti a seguito delle dichiarazioni di un pentito, Tommaso Buscetta, il quale lo poneva in collegamento con la morte di Mattei.
Per combinazione, la maggior parte degli investigatori che si occuparono della scomparsa di De Mauro, tanto della Polizia quanto dei Carabinieri, effettivamente morirono a loro volta assassinati dalla mafia; il più famoso fra loro era il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, nel frattempo divenuto prefetto di Palermo, e la stessa fine toccò al vicequestore Boris Giuliano, capo della Squadra Mobile della stessa città.
Curiosamente, una delle ultime opere di Pier Paolo Pasolini fu un romanzo dal titolo Petrolio. Lo stesso Pasolini si interessò molto alla figura di Mattei e al mistero della sua morte. Anche Pasolini morì in circostanza poco chiare.

SITOGRAFIA
1) http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/11/08/pier-paolo-pasolini-di-quale-verita-e-morto-veramente/2199913/
2) https://it.wikipedia.org/wiki/Enrico_Mattei#L.27incidente_aereo_e_la_morte




"Le ceneri di Gramsci" è una poesia di Pier Paolo Pasolini, contenuta nella raccolta omonima pubblicata nel 1957.  Il testo è diviso in sei parti. 



Pasolini sulla tomba di Gramsci


Il poeta si trova davanti alla tomba di Antonio Gramsci, politico e pensatore comunista, presso il cimitero degli inglesi a Roma, e dialoga con le sue spoglie, descrivendo un maggio autunnale, che sembra rappresentare il silenzio del presente, "il grigiore del mondo",così lontano dalle speranze del passato, quando il giovane Gramsci "delineava l'ideale che illumina". Da questo primo confronto nascono le riflessioni di Pasolini sulla sua vita e sulla società italiana contemporanea. Emerge il tema pasoliniano del cambiamento della società, avvertito drammaticamente dallo scrittore, che, sempre rivolgendosi a Gramsci, ricorda il mondo rurale, che sta ormai scomparendo. Pasolini rintraccia i tratti di questo mondo in quello proletario e povero delle borgate, quartieri popolari e periferici di Roma, da cui si sente attratto. Il poeta ammira la vita proletaria per "la sua allegria", per "la sua natura", non "la  millenaria sua lotta". A Pasolini il popolo non interessa nella sua lotta di classe e nella sua coscienza di classe, ma nelle sue espressioni più autentiche e vitali, e quindi più sincere.
L’amore per il mondo proletario, destinato a scomparire, risucchiato dalla società dei consumi, è evidente nella malinconica descrizione finale del quartiere operaio Testaccio: gli operai tornano nelle loro case, si accendono rari lumi, i giovani gridano, "fischiano", "giocano" nelle piazze. E Pasolini, osservatore di questo mondo e non partecipe della spensieratezza dei ragazzi, ne constata l’inevitabile declino. La società dei consumi, imponendo nuovi valori e un nuovo linguaggio, è la causa della fine di questo mondo, dal momento che ha omologato i costumi degli italiani, eliminando i tratti più originali del mondo popolare.




(...)      Manca poco alla cena;

brillano i rari autobus del quartiere,
con grappoli d'operai agli sportelli,
e gruppi di militari vanno, senza fretta,

verso il monte (...) nell'ombra (...)

e, non lontano, tra casette
abusive ai margini del monte, o in mezzo

a palazzi, quasi a mondi, dei ragazzi leggeri
come stracci giocano alla brezza
non più fredda, primaverile; ardenti

di sventatezza giovanile la romanesca
loro sera di maggio scuri adolescenti
fischiano pei marciapiedi, nella festa

vespertina (...).

È un brusio la vita, e questi persi
in essa, la perdono serenamente
se il cuore ne hanno pieno: a godersi

eccoli, miseri, la sera: e potente
in essi, inermi, per essi, il mito
rinasce … Ma io, con il cuore cosciente,

di chi soltanto nella storia ha vita,
potrò mai più con pura passione operare,
se so che la nostra storia è finita?
da Pasolini, Le ceneri di Gramsci, VI

http://www.corriere.it/cultura/eventi/2011/secolo-poesia/notizie/pasolini-al-principe_f5e630a8-56f7-11e1-a6d2-3f65acf5f759.shtml


PASOLINI REGISTA

http://www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it/molteniblog/che-cosa-sono-le-nuvole-unanalisi-di-daniele-gallo/


Che cosa sono le nuvole?

Iago Cosa senti dentro di te? Concentrati bene. Cosa senti?
Otello Sì sì, si sente qualcosa che c'è!
Iago Quella è la verità. Ma, ssh! Non bisogna nominarla, perché appena la nomini, non c'è più.


La storia è una rivisitazione dell'Otello, recitato da un gruppo di marionette (TotòFranco FranchiCiccio IngrassiaNinetto DavoliLaura BettiAdriana Asti), che sulla scena interpretano i ruoli shakespeariani ma che dietro le quinte si pongono delle domande sul perché fanno ciò che fanno. La rappresentazione è interrotta dal pubblico che, nel momento più drammatico, l'omicidio di Desdemona (Laura Betti) da parte di Otello (Ninetto Davoli), irrompe sulla scena e, disapprovando i comportamenti di lui e di Iago (Totò), li fa a pezzi. Il monnezzaro (Domenico Modugno) getta cantando le due marionette in una discarica, dove i due fantocci rimangono incantati a guardare le nuvole e notano la "straziante, meravigliosa bellezza del creato". Il cortometraggio prende il titolo proprio da questa scena finale.
Questo episodio è l'ultima pellicola cinematografica in cui appare Totò ed è l'ultimo film girato dall'artista.
Excipit del film
Otello: Iiih! E che so' quelle?  
Jago: Quelle sono... sono le nuvole...
Otello: E che so' ste nuvole? 
Iago: Mah!
Otello: Quanto so' belle, quanto so' belle... quanto so' belle...
Jago:  Ah, straziante meravigliosa bellezza del creato!


Avion Travel, Cosa sono le nuvole: testo di P.P.Pasolini 

.... il derubato che sorride
ruba qualcosa al ladro
ma il derubato che piange
ruba qualcosa a se stesso
perciò io vi dico
finché sorriderò 

tu non sarai perduta...



MESSAGGIO AI GIOVANI

Non lasciarti tentare dai campioni dell'infelicità,
della mutria cretina, della serietà ignorante. Sii allegro.
(...)
Essi ti insegnano a non splendere. E tu splendi,
invece, Gennariello.
(Pasolini, da Lettere luterane)


Penso che sia necessario educare le nuove generazioni al valore della sconfitta. Alla sua gestione. All'umanità che ne scaturisce. A costruire un'identità capace di avvertire una comunanza di destino, dove si può fallire e ricominciare senza che il valore e la dignità ne siano intaccati. A non divenire uno sgomitatore sociale, non passare sul corpo degli altri per arrivare primo. In questo mondo di vincitori volgari e disonesti, di prevaricatori falsi e opportunisti, della gente che conta, che occupa il potere, che scippa il presente, figuriamoci il futuro, a tutti i nevrotici del successo, dell'apparire, del diventare. A questa antropologia del vincente preferisco di gran lunga chi perde. È un esercizio che mi riesce bene. E mi riconcilia con il mio sacro poco. Ma io sono un uomo che preferisce perdere piuttosto che vincere con modi sleali e spietati. Grave colpa da parte mia, lo so! E il bello è che ho la sfacciataggine di difendere tale colpa, di considerarla quasi una virtù(da un'intervista del 1961 al settimanale Vie nuove)

POESIA DELLA TRADIZIONE (da Trasumanar e organuizzar)
Oh generazione sfortunata!
Cosa succederà domani, se tale classe dirigente -
quando furono alle prime armi
non conobbero la poesia della tradizione
ne fecero un’esperienza infelice perché senza
sorriso realistico gli fu inaccessibile
e anche per quel poco che la conobbero,
dovevano dimostrare
di voler conoscerla sì ma con distacco, fuori dal gioco.
Oh generazione sfortunata!
che nell’inverno del ‘70 usasti cappotti e scialli fantasiosi
e fosti viziata
chi ti insegnò a non sentirti inferiore -
rimuovesti le tue incertezze divinamente infantili -
chi non è aggressivo è nemico del popolo! Ah!
I libri, i vecchi libri passarono sotto i tuoi occhi
come oggetti di un vecchio nemico
sentisti l’obbligo di non cedere
davanti alla bellezza nata da ingiustizie dimenticate
fosti in fondo votata ai buoni sentimenti
da cui ti difendevi come dalla bellezza
con l’odio razziale contro la passione;
venisti al mondo, che è grande eppure così semplice,
e vi trovasti chi rideva della tradizione,
e tu prendesti alla lettera tale ironia fintamente ribalda,
erigendo barriere giovanili contro la classe dominante del passato
la gioventù passa presto; oh generazione sfortunata,
arriverai alla mezza età e poi alla vecchiaia
senza aver goduto ciò che avevi diritto di godere
e che non si gode senza ansia e umiltà
e così capirai di aver servito il mondo
contro cui con zelo «portasti avanti la lotta»:
era esso che voleva gettar discredito sopra la storia - la sua;
era esso che voleva far piazza pulita del passato - il suo;
oh generazione sfortunata, e tu obbedisti disobbedendo!
Era quel mondo a chiedere ai suoi nuovi figli di aiutarlo
a contraddirsi, per continuare;
vi troverete vecchi senza l’amore per i libri e la vita:
perfetti abitanti di quel mondo rinnovato
attraverso le sue reazioni e repressioni, sì, sì, è vero,
ma sopratutto attraverso voi, che vi siete ribellati
proprio come esso voleva, Automa in quanto Tutto;
non vi si riempirono gli occhi di lacrime
contro un Battistero con caporioni e garzoni
intenti di stagione in stagione
né lacrime aveste per un’ottava del Cinquecento,
né lacrime (intellettuali, dovute alla pura ragione)
non conosceste o non riconosceste i tabernacoli degli antenati
né le sedi dei padri padroni, dipinte da
-e tutte le altre sublimi cose
non vi farà trasalire (con quelle lacrime brucianti)
il verso di un anonimo poeta simbolista morto nel
la lotta di classe vi cullò e vi impedì di piangere:
irrigiditi contro tutto ciò che non sapesse di buoni sentimenti
e di aggressività disperata
passaste una giovinezza
e, se eravate intellettuali,
non voleste dunque esserlo fino in fondo,
mentre questo era poi fra i tanti il vostro dovere,
e perché compiste questo tradimento?
per amore dell’operaio: ma nessuno chiede a un operaio
di non essere operaio fino in fondo
gli operai non piansero davanti ai capolavori
ma non perpetrarono tradimenti che portano al ricatto
e quindi all’infelicità
oh sfortunata generazione
piangerai, ma di lacrime senza vita
perché forse non saprai neanche riandare
a ciò che non avendo avuto non hai neanche perduto:
povera generazione calvinista come alle origini della borghesia
fanciullescamente pragmatica, puerilmente attiva
tu hai cercato salvezza nell’organizzazione
(che non può altro produrre che altra organizzazione)
e hai passato i giorni della gioventù
parlando il linguaggio della democrazia burocratica
non uscendo mai della ripetizione delle formule,
ché organizzar significar per verba non si poria,
ma per formule sì,
ti troverai a usare l’autorità paterna in balia del potere
imparlabile che ti ha voluta contro il potere,
generazione sfortunata!
Io invecchiando vidi le vostre teste piene di dolore
dove vorticava un’idea confusa, un’assoluta certezza,
una presunzione di eroi destinati a non morire -
oh ragazzi sfortunati, che avete visto a portata di mano
una meravigliosa vittoria che non esisteva!

(Pasolini, La poesia della tradizione, da Trasumanar e organizzar)