La scuola di Atene

La scuola di Atene

venerdì 27 novembre 2015

LA CRISI DEL TRECENTO




LA PESTE NERA


LA TESTIMONIANZA DI MARSILIO DA PADOVA, MEDICO E FILOSOFO



LA PESTE NELLA LETTERATURA

TUCIDIDE
Le sofferenze causate dal morbo furono aggravate, soprattutto per quelli venuti da fuori, dall’affollamento determinatosi con il trasferimento in città degli Ateniesi che abitavano in campagna: poiché mancavano case, si viveva in tuguri che in quel periodo dell’anno erano soffocanti, sì che la strage si compiva nel caos più indescrivibile. I moribondi sul punto di spirare erano ammucchiati gli uni sugli altri, altri mezzo morti
si aggiravano per le strade e intorno a tutte le fontane, mossi dalla voglia spasmodica di acqua. I santuari in cui si erano accampati erano pieni di cadaveri, la gente moriva sul posto, poiché nell’infuriare dell’epidemia gli uomini, non sapendo cosa ne sarebbestato di loro, divennero indifferenti alle leggi sacre come pure a quelle profane. Tutte le consuetudini seguite in passato per le esequie furono sconvolte; ciascuno provvedeva
alla sepoltura come poteva. Molti, mancando del necessario, poiché avevano già avuto molti morti, compievano l’opera di sepoltura in modo vergognoso, utilizzando pire che già erano state innalzate per altri cadaveri: alcuni prevenivano chi aveva provveduto ad accatastare la legna e, deposto sulla pira il proprio morto, subito appiccavano il fuoco, altri invece gettavano su una pira – mentre già vi ardeva un altro cadavere – il corpo che avevano portato, e se ne andavano.
 Anche per altri aspetti la peste segnò per la città l’inizio del dilagare della corruzione. Ciò che prima si faceva, ma solo di nascosto, per proprio piacere, ora lo si osava più liberamente: si assisteva a cambiamenti repentini, vi erano ricchi che morivano all’improvviso, e gente, che prima non aveva niente, da un momento all’altro si trovava in possesso delle ricchezze appartenute a quelli, per cui ci si credeva in diritto di abbandonarsi a rapidi piaceri, volti alla soddisfazione dei sensi, ritenendo un bene eff imero sia il proprio
corpo che il proprio denaro. Nessuno era più disposto a perseverare in quello che prima giudicava fosse il bene, perché – pensava – non poteva sapere se non sarebbe morto prima di arrivarci; invece il piacere immediato e il guadagno che potesse procurarlo, quale che fosse la sua provenienza, ecco ciò che divenne bello e utile. La paura degli dèi o le leggi umane non rappresentavano più un freno, da un lato perché ai loro occhi il rispetto degli dèi o l’irriverenza erano ormai la stessa cosa, dal momento che vedevano morire tutti allo stesso modo, dall’altro perché, commesse delle mancanze, nessuno sperava di restare in vita fino al momento della celebrazione del processo e della resa dei conti. La pena sospesa sulle loro teste era molto più seria, e per essa la condanna era già stata pronunciata: era naturale quindi, prima che si abbattesse su di loro, godersi un po’ la vita.
(Tucidide, La Guerra del Peloponneso, 51 -53)Trad. M. Cagnetta)

MANZONI
Per tutto cenci e, più ributtanti de’ cenci, fasce marciose, strame ammorbato, o lenzoli buttati dalle finestre; talvolta corpi, o di persone morte all’improvviso, nella strada, e lasciati lì fin che passasse un carro da portarli via, o cascati da’ carri medesimi, o buttati anch’essi dalle finestre: tanto l’insistere e l’imperversar del disastro aveva insalvatichiti gli animi, e fatto dimenticare ogni cura di pietà, ogni riguardo sociale! Cessato per tutto ogni rumor di botteghe, ogni strepito di carrozze, ogni grido di venditori, ogni chiacchierio di passeggieri, era ben raro che quel silenzio di morte fosse rotto da altro che da rumor di carri funebri, da lamenti di poveri, da rammarichìo d’infermi, da urli di frenetici, da grida di monatti. All’alba, a mezzogiorno, a sera, una campana del duomo dava il segno di recitar certe preci assegnate dall’arcivescovo: a quel tocco rispondevan le campane dell’altre chiese; e allora avreste veduto persone affacciarsi alle finestre, a pregare in comune; avreste sentito un bisbiglio di voci e di gemiti, che spirava una tristezza mista pure di qualche conforto. (...)
Si vedevano gli uomini più qualificati, senza cappa né mantello, parte allora essenzialissima del vestiario civile; senza sottana i preti, e anche de’ religiosi in farsetto; dismessa in somma ogni sorte di vestito che potesse con gli svolazzi toccar qualche cosa, o dare (ciò che si temeva più di tutto il resto) agio agli untori. E fuor di questa cura d’andar succinti e ristretti il più che fosse possibile, negletta e trasandata ogni persona; lunghe le barbe di quelli che usavan portarle, cresciute a quelli che prima costumavan di raderle; lunghe pure e arruffate le capigliature, non sol per quella trascuranza che nasce da un invecchiato abbattimento, ma per esser divenuti sospetti i barbieri, da che era stato preso e condannato, come untor famoso, uno di loro, Giangiacomo Mora: nome che, per un pezzo, conservò una celebrità municipale d’infamia, e ne meriterebbe una ben più diffusa e perenne di pietà. I più tenevano da una mano un bastone, alcuni anche una pistola, per avvertimento minaccioso a chi avesse voluto avvicinarsi troppo; dall’altra pasticche odorose, o (...) spugne inzuppate d’aceti medicati; e se le andavano ogni tanto mettendo al naso, o ce le tenevano di continuo. (...)
I gentiluomini, non solo uscivano senza il solito seguito, ma si vedevano, con una sporta in braccio, andare a comprar le cose necessarie al vitto. Gli amici, quando pur due s’incontrassero per la strada, si salutavan da lontano, con cenni taciti e frettolosi. Ognuno, camminando, aveva molto da fare, per iscansare gli schifosi e mortiferi inciampi di cui il terreno era sparso e, in qualche luogo, anche affatto ingombro: ognuno cercava di stare in mezzo alla strada, per timore d’altro sudiciume, o d’altro più funesto peso che potesse venir giù dalle f inestre; per timore delle polveri venefiche che si diceva essere spesso buttate da quelle su’ passeggieri; per timore delle muraglie, che potevan esser unte. Così l’ignoranza, coraggiosa e guardinga alla rovescia, aggiungeva ora angustie all’angustie, e dava falsi terrori, in compenso de’ ragionevoli e salutari che aveva levati da principio. […] Andò avanti, con in cuore quella solita trista e oscura aspettativa. Arrivato al crocicchio, vide da una parte una moltitudine confusa che s’avanzava, e si fermò lì, per lasciarla passare. Erano ammalati che venivan condotti al lazzeretto; alcuni, spinti a forza, resistevano in vano, in vano gridavano che volevan morire sul loro letto, e rispondevano con inutili imprecazioni alle bestemmie e ai comandi de’ monatti che li guidavano; altri camminavano in silenzio, senza mostrar dolore, né alcun altro sentimento, come insensati; donne co’ bambini in collo; fanciulli spaventati dalle grida, da quegli ordini, da quella compagnia, più che dal pensiero confuso della morte, i quali ad alte strida imploravano la madre e le sue braccia fidate, e la casa loro. Ahi! e forse la madre, che credevano d’aver lasciata addormentata sul suo letto, ci s’era buttata, sorpresa tutt’a un tratto dalla peste; e stava lì senza sentimento, per esser portata sur un carro al lazzeretto, o alla fossa, se il carro veniva più tardi. Forse, o sciagura degna di lacrime ancor più amare! la madre, tutta occupata de’ suoi patimenti, aveva dimenticato ogni cosa, anche i figli, e non aveva più che un pensiero: di morire in pace. Pure, in tanta confusione, si vedeva ancora qualche esempio di fermezza e di pietà: padri, madri, fratelli, figli, consorti, che sostenevano i cari loro, e gli accompagnavano con parole di conforto: né adulti soltanto, ma ragazzetti, ma fanciulline che guidavano i fratellini più teneri; e con giudizio e con compassione da grandi, raccomandavano loro d’essere ubbidienti, gli assicuravano che s’andava in un luogo dove c’era chi avrebbe cura di loro per farli guarire. 
(Manzoni, I promessi sposi, XXXIV)

A. CAMUS
Finora la peste aveva fatto molte più vittime nei quartieri esterni, più popolati e meno comodi, che nel centro della città; ma all’improvviso sembrò avvicinarsi e stabilirsi anche nel quartiere degli affari. Gli abitanti accusavano il vento di trasportare i germi infettivi. «Imbroglia le carte» diceva il direttore dell’albergo. Comunque fosse, i quartieri del centro sapevano che il loro turno era venuto sentendosi vibrare tutt’intorno, nella notte, e con frequenza sempre maggiore, la campana delle ambulanze, che faceva risuonare sotto le loro f inestre il richiamo tetro e senza passione della peste. Nel centro stesso della città si ebbe l’idea d’isolare certi quartieri particolarmente colpiti, e di non autorizzare a uscirne che gli uomini i cui servizi fossero indispensabili. Coloro che sino allora vi erano vissuti non poterono fare a meno di considerare questa misura come una vessazione particolarmente diretta contro di loro, e in ogni caso pensavano, per contrasto, agli abitanti degli altri quartieri come a uomini liberi. Questi ultimi, in cambio, nei momenti diff icili trovavano una consolazione nell’immaginare che altri erano ancora meno fortunati di loro. «C’è sempre uno più prigioniero di me», era la frase che riassumeva allora la sola speranza possibile. Press’a poco a quell’epoca ci fu anche una recrudescenza d’incendi, soprattutto nei quartieri eleganti alle porte ovest della città. Assunte informazioni, si trattava di persone tornate dalla quarantena, che impazzite per i lutti e le disgrazie davano fuoco alle loro case nell’illusione di farvi morire la peste. (...)
 Ma la notte era anche in tutti i cuori, e la verità come le leggende che si riportavano a proposito dei seppellimenti non erano fatte per rassicurare i nostri concittadini. Infatti, bisogna ben parlare dei seppellimenti, e il narratore se ne scusa, sensibile al rimprovero che gli si potrebbe fare al riguardo. La sua sola giustif icazione è che vi furono seppellimenti per tutto quel periodo e che, in una certa maniera, egli fu costretto, come furono costretti tutti i suoi concittadini, a preoccuparsi dei seppellimenti. […] Ebbene, quello che caratterizzava, in principio, le nostre cerimonie era la rapidità; tutte le formalità erano state semplificate e generalmente la pompa funeraria era stata soppressa. I malati morivano lontani dalle loro famiglie, le veglie rituali erano state proibite, di modo che chi era morto in serata passava la notte da solo, e chi moriva durante il giorno era sepolto senza indugio. Si avvertiva la famiglia, beninteso, ma, nella maggior parte dei casi, questa non poteva muoversi, essendo in quarantena se era vissuta accanto al malato. Nel caso in cui la famiglia non abitasse col defunto, si presentava all’ora indicata, ossia a quella della partenza per il cimitero, quando il corpo era stato ormai lavato e messo nella bara. (...)
In tal modo, tutto si svolgeva veramente col massimo di rapidità e col minimo di rischi. E di certo, almeno in principio, è chiaro che il naturale sentimento delle famiglie ne fosse urtato. Ma in tempo di peste, sono considerazioni di cui non è possibile tener conto: tutto era sacrificato all’efficacia. Del resto, se in principio il morale della popolazione aveva sofferto di tali pratiche – il desiderio di esser seppelliti decentemente essendo più diffuso di quanto non si creda – un po’ più avanti, per fortuna, il problema del vettovagliamento diventò delicato e l’interesse degli abitanti deviò verso preoccupazioni più immediate. Assorbite dalle code da fare, dai passi e dalle formalità da compiere se volevano mangiare, le persone non ebbero più il tempo di pensare alla maniera con cui si moriva intorno a loro e con cui un giorno sarebbero morte; e le difficoltà materiali, che dovevano essere un male, si rivelarono, in seguito, un beneficio. Tutto sarebbe andato per il meglio se, come abbiamo veduto, il contagio non si fosse esteso. (...)
 In fondo al cimitero, in un terreno nudo, coperto da lentischi, si erano scavate due immense fosse; c’era la fossa degli uomini e quella delle donne. Da questo punto di vista, l’amministrazione rispettava le convenienze e soltanto molto più tardi, per forza di cose, quest’ultimo pudore scomparve, e si seppellì alla rinfusa, gli uni sulle altre, uomini e donne, trascurando la decenza. Per fortuna, quest’ultima confusione contraddistinse unicamente i momenti estremi del flagello. Nel periodo di cui ci occupiamo la separazione delle fosse esisteva, e la prefettura ci teneva molto. In fondo a ognuna un grosso strato di calce viva fumava e bolliva. Sugli orli della buca una montagnola della stessa calce lasciava scoppiare le sue bolle all’aria aperta. Quando i viaggi dell’ambulanza erano terminati, si portavano le barelle in corteo, si lasciavano scivolare nel fondo, press’a poco gli uni accanto agli altri, i corpi spogliati e leggermente contorti; li si coprivano di calce viva, poi di terra, ma sino a una certa altezza soltanto, allo scopo di preparare il posto ai futuri ospiti. Il giorno dopo i parenti erano invitati a f irmare in un registro, il che segnava la differenza più importante che ci può essere tra gli uomini e, ad esempio, i cani: il controllo era sempre possibile.
(A. CAMUS, La peste, Trad. B. Dal Fabbro) 

mercoledì 25 novembre 2015

BOCCACCIO

Fin da quando ero nel seno materno
ho avuto per natura la vocazione alla poesia e,
per quel che posso giudicare, sono nato soltanto per questo. Ricordo, infatti, che mio padre, fin dall'infanzia,
indirizzò tutti i suoi sforzi per fare di me un commerciante;
e dopo avermi fatto imparare l'aritmetica, mi affidò,
non ancora adolescente, in qualità di apprendista,
ad un grande commerciante,
presso il quale per sei anni non feci altro che sprecare  inutilmente un tempo non più recuperabile.
(...) E non un capriccio improvviso,
ma un'originaria inclinazione del mio spirito,
lo faceva tendere con tutte le forze alla poesia.
(G. Boccaccio, Genealogiae deorum gentilium)




ELEGIA DI MADONNA FIAMMETTA, cap. V      
D. G. Rossetti, "Visione di Fiammetta"

"A cosí fatta vita e a piggiore m’ha la fortuna lasciata consolazione cosí piccola, come udite; né intendiate consolazione che me di dolore privi, sí come l'altre suole: essa solamente alcuna volta gli occhi toglie dal lagrimare senza piú prestarmi de’ suoi beni. Seguitando adunque le mie fatiche, dico che, con ciò sia cosa che io per addietro tra l'altre giovini della mia città di bellezze ornatissima, quasi niuna festa solea, che alli divini templi si facesse, lasciare, né alcuna bella senza me ne reputavano li cittadini; le quali feste vegnendo, a quelle mi solevano sollecitare le serve mie, e ancora esse, l'antico ordine osservando, apparecchiati li nobili vestimenti, alcuna volta mi dicono:
“O donna, adórnati; venuta è la solennità di cotale tempio, la quale te sola aspetta per compimento.
Ohimè! che egli mi torna a mente che io alcuna volta a loro furiosa rivolta, non altramente che l'addentato cinghiaro alla turba de cani, a loro rispondeva turbata, e con voce d'ogni dolcezza vòta, già dissi:
“Via, vilissima parte della nostra casa, fate lontani da me questi ornamenti: brieve roba basta a coprire gli sconsolati membri, né piú alcuno tempio né festa per voi a me si ricordi, se la mia grazia v'è cara.
Oh, quante volte già, come io udii, furono quelli da molti nobili visitati, li quali piú per vedermi, che per divozione alcuna venuti, non veggendomi, turbati si tornavano indietro, nulla dicendo senza me valere quella festa! Ma come che io cosí le rifiuti, pure alcuna volta, in compagnia delle mie nobili compagne, me le conviene costretta vedere, con le quali io semplicemente e di feriali vestimenti vestita vi vado, e quivi non i solenni luoghi, come già feci, cerco, ma, rifiutando li già voluti onori, umile, ne piú bassi luoghi tra le donne m'assetto; e quivi diverse cose, ora dall'una ora dall'altra ascoltando con doglia nascosa quanto io piú posso, passo quello tempo che  io vi dimoro. Ohimè! quante volte già m’ho io udito dire  assai d'appresso:
“Oh, quale maraviglia è questa! Questa donna, singulare ornamento della nostra città, cosí rimessa e umile è divenuta? Qual divino spirito l’ha spirata? Ove le nobili robe? Ove gli altieri portamenti? Ove le mirabili bellezze si sono fuggite?
Alle quali parole, se licito mi fosse stato, avrei volontieri risposto: “Tutte queste cose, con molte altre piú care, se ne portò Panfilo dipartendosi”.
Quivi ancora dalle donne intorniata, e da diverse domande trafitta, a tutte con infinto viso mi conviene satisfare. L'una con cotali voci mi stimola:
“O Fiammetta, senza fine di te me e l'altre donne fai maravigliare, ignorando quale sia stata sí súbita la cagione che le preziose robe hai lasciate e li cari ornamenti, e l’altre cose dicevoli alla tua giovine etade; tu, ancora fanciulla, in sí fatto abito andare non dovresti. Non pensi tu che, lasciandolo ora, per innanzi ripigliar nol potrai? Usa gli anni secondo la loro qualità. Questo abito di tanta onestade da te preso non ti falla per innanzi. Vedi qui qualunque di noi, piú di te attempate, ornate con maestra mano, e d'artificiali drappi e onorevoli vestite, e cosí tu similemente dovresti essere ornata.
A costei e a piú altre aspettanti le mie parole rendo io con umile voce cotale risposta:
“Donne, o per piacere a Dio o agli uomini si viene a questi templi. Se per piacere a Dio ci si viene, l'anima ornata di virtú basta, né forza fa, se il corpo di cilicio fosse vestito; se per piacere agli uomini ci si viene, con ciò sia cosa che la maggior parte, da falso parere adombrati per le cose esteriori giudichino quelle dentro, confesso che gli ornamenti usati e da voi e da me per addietro, si richieggiono. Ma io di ciò non ho cura, anzi, dolente delle passate vanità, volonterosa d'ammendare nel cospetto d'Iddio, mi rendo quanto posso dispetta agli occhi vostri.
E quinci le lagrime dall’intrinseca verità cacciate per forza fuori mi bagnano il mesto viso, e con tacita voce cosí con meco medesima dico:
“O Iddio, veditore de’ nostri cuori, le non vere parole dette da me non m'imputare in peccato. Come tu vedi, non volontà d'ingannare, ma necessità di ricoprire le mie angoscie a quelle mi strigne, anzi piuttosto merito me ne rendi, considerando che'l malvagio essemplo levando, alle tue creature il do buono: egli m'è grandissima pena il mentire, e con faticoso animo la sostengo, ma piú non posso”.
Oh quante volte, o donne, ho io per questa iniquità pietose laude ricevute, dicendo le circustanti donne me divotissima giovine di vanissima ritornata! Certo, io intesi piú volte di molte essere oppinione, me di tanta amicizia essere congiunta con Dominedio, che niuna grazia a lui da me dimandata, negata sarebbe; e piú volte ancora dalle sante persone per santa fui visitata, non conoscendo esse quel che nell'animo nascondea il tristo viso, e quanto li miei disiderii .fossero lontani alle mie parole. O ingannevole mondo, quanto possono in te gl’infinti visi piú che li giusti animi, se l'opere sono occulte! Io, piú peccatrice che altra, dolente per li miei disonesti amori, però che quelli velo sotto oneste parole, sono reputata santa; ma conoscelo Iddio, che, se senza pericolo essere potesse, io con vera voce di me sgannerei ogni ingannata persona, né celerei la cagione che trista mi tiene; ma non si puote."



Il Decameron: il piacere di raccontare storie