La scuola di Atene

La scuola di Atene

mercoledì 28 febbraio 2018

POESIA E CULTURA NELL'ETÀ DELLE AVANGUARDIE

Il termine “avanguardia” è mutuato dal linguaggio militare; indica la colonna di soldati in avamposto, esploratori che vanno avanti, procedono per preparare la strada all’esercito.
I movimenti artistico-letterari del Novecento che si definiscono Avanguardie hanno questa caratteristica, sono sperimentatori del “nuovo”, si oppongono al passato e alla tradizione con intenti polemici e spesso con lo scopo di scandalizzare e stupire.
Si tratta di movimenti internazionali e interartistici, in cui non esistono barriere tra le arti e, soprattutto condividono finalità, contenuti e tecniche espressive sperimentali, come la disposizione irregolare delle parole sulla pagina, il valore evocativo degli spazi bianchi, in generale, la valorizzazione dell'aspetto grafico del testo, con il ricorso alla tecnica del CALLIGRAMMA: nasce una forma di "poesia visiva".


VERSI A LOU
Riconosciti
Questa adorabile persona sei tu
Sotto il grande cappello da canottiere
Occhio
Naso
La bocca
Ecco l’ovale del tuo viso
Il tuo collo bellissimo
Ecco infine l’immagine non completa del tuo busto adorato visto come attraverso una nuvola
Un po’ più basso è il tuo cuore che batte
(Guillaume Apollinaire, Calligrammes)




Il fulcro tematico principale è costituito dalla crisi della poesia e della sua funzione sociale nella società di massa e nella civiltà industriale e la conseguente condizione marginale dell'artista.

Tra i vari filoni avanguardistici è possibile rintracciare due orientamenti fondamentali:
- espressionistico: prevalente negli anni Dieci, assume forme esasperate, fino alla distruzione della sintassi;
- classicistico: recupera metri e forme tradizionali, si diffonde negli anni Venti e risponde al generale clima di "Ritorno all'ordine" che prelude all'avvento del fascismo (tale istanza è presenta, ad esempio, nei poeti Ermetici).

I principali obiettivi programmatici condivisi dalle avanguardie storiche sono i seguenti:
- opposizione al Naturalismo: all’arte intesa come mimesi e rispecchiamento della realtà, le avanguardie oppongono l’idea di arte percepita come visione soggettiva ed espressione dell’inconscio, sotto l’influsso degli studi freudiani e in linea di continuità con le esperienze del Simbolismo che vengono estremizzate;
- opposizione al Decadentismo e all’Estetismo: all’arte intesa - sull’onda del parnassianesimo - come contemplazione del bello, come esperienza separata e privilegiata, come intuizione pura, le avanguardie propongono l’idea di arte come azione e provocazione. L’arte non è più prodotta da una persona d’eccezione (genio, vate, veggente), ma diventa “arte di gruppo”; l’attività estetica è usata come azione politica ( si pensi alle applicazioni rivoluzionarie e leniniste del Futurismo russo di Majakovskij e alle conseguenze imperialistiche, bellicistiche e militaristiche di supporto al Fascismo che ebbe il Futurismo italiano di Marinetti).

I MOVIMENTI AVANGUARDISTI
DADAISMO
Dada non significa nulla. È solo un suono prodotto della bocca.
(Manifesto Dada del 1918, Tristan Tzara)

Il Dadaismo si fonda sul rifiuto totale di ogni forma di razionalità e di legame con la tradizione, per affermare in modo provocatorio e beffardo, il gusto per il non-senso, la forza espressiva del gioco, l’effetto penetrante dell’accostamento casuale dei suoni, delle parole e delle immagini. Ne è un esempio la ben nota “Gioconda con i baffi” di M. Duchamp.
Rifiuto dell’umanesimo (etico e conoscitivo, rifiuto in blocco della tradizione dell’homo mensura, della ragione/coscienza come paradigma comportamentale e conoscitivo) e rifiuto del bello (come espressione classica e tradizionale di suprema armonia
e equilibrio) sono i cardini dell’estetica dadaista.
Lo stesso nome del movimento esprime il carattere ludico e irrazionale, provocatorio verso i cardini della tradizione culturale borghese. Il fondatore, Tristan Tzara, sceglie per il movimento  il nome “dada”, parola che non significa  niente ed è stata trovata aprendo a caso il vocabolario: è il nuovo gusto per il non-senso.
In ambito poetico, la distruzione di tutti gli aspetti espressivi tradizionali, dal lessico alla sintassi, si lega anche alla sperimentazione della scrittura automatica di André Breton, consistente nella trascrizione del dettato automatico della psiche, un processo che dà luogo alla tecnica del flusso di coscienza.


ESPRESSIONISMO
Si afferma inizialmente come movimento pittorico a partire da 1903. Contesta l’idea di una pittura realistica e fondata su rapporti armoniosi e logici. L’arte espressionistica fa prevalere l’elemento soggettivo capace di trasformare e deformare il reale, con uno stravolgimento esasperato dei dati oggettivi. Ogni singolo elemento è sciolto nell’insieme attraverso relazioni anomale tra le parti e il sovvertimento delle regole spaziali, prospettiche, delle gerarchie e delle proporzioni. La realtà oggettiva non esiste più: esiste solo il modo soggettivo, esaltato, allucinato e visionario con cui la realtà è percepita.
E. Munch, L'urlo

Da un punto di vista letterario, l’Espressionismo si caratterizza come violenta sollecitazione volta a esplorare l’Io più interno (G. Contini).
Spesso la brevità, la concisione estremizzata fino al frammentismo, rendono densa e penetrante l’espressione poetica.
Il lessico è diretto e antiaccademico, i periodi sono secchi e brevi, con frasi verbali e nominali; i termini sono scelti per il loro valore provocatorio.
Il verso libero e senza rime sottolinea la forza di rottura con il passato e con la metrica tradizionale.
Toni espressionistici si riconoscono nei poeti che fanno capo alla rivista LA VOCE e, quindi, nelle poesie di Clemente Rebora, Camillo Sbarbaro e Giuseppe Ungaretti.

Clemente Maria Rèbora (Milano, 6 gennaio 1885 – Stresa, 1º novembre 1957) è stato un presbitero e poeta italiano. Inizia nel 1903 gli studi di medicina a Pavia, interrompendoli però poco dopo per seguire i corsi universitari di lettere presso l'Accademia Scientifico-letteraria di Milano; nel frattempo iniziò anche ad avvicinarsi alla musica. Nel 1907 presta il servizio militare a Milano e nel 1910 si laurea in lettere. Negli anni Dieci insegna in diversi Istituti tecnici e alle scuole serali e collabora a "La Voce". Allo scoppio della prima guerra mondiale, viene richiamato alle armi con il grado di sottotenente e il 17 giugno dello stesso anno combatte sul Podgora.
Subisce un forte trauma cranico a causa di un'esplosione e rimane in stato di shock. Viene ricoverato e tra il 1916 e il 1919 passa da un ospedale militare all'altro finché, nel 1919, viene riformato con la diagnosi di infermità mentale. Nel 1928, durante una conferenza sulle discipline religiose, mentre legge gli Acta Martyrum, ha una crisi religiosa che lo avvicinerà alla fede cattolica. Nel 1929, infatti, prende i sacramenti e nel 1930, dopo aver distrutto tutti i libri e le carte, entra come novizio nel Collegio Rosmini. Pronuncia i voti perpetui nel 1936 e viene ordinato sacerdote a Domodossola, dove dice la sua prima Santa Messa. Continua a scrivere poesie a carattere religioso che vennero pubblicate in gran parte postume.
I temi della sua poesia sono: l'esistenza come caos, città come luogo degradato e ostile, il volontarismo etico, cioè la scelta morale fondata su un"tu devi" che non trova giustificazioni esterne. Tale tensione dei contenuti si traduce in uno stile espressionistico e in una tendenza al frammentismo che concentra nella brevità la massima energia espressiva.

Voce di vedetta morta
C’è un corpo in poltiglia
con crespe di faccia, affiorante
sul lezzo dell’aria sbranata.
Frode la terra.
Forsennato non piango:
affar di chi può, e del fango.
Però se ritorni,
tu, uomo, di guerra
a chi ignora non dire;
non dire la cosa, ove l’uomo
e la vita s’intendono ancora.
Ma afferra la donna
una notte, dopo un gorgo di baci,
se tornare potrai;
soffiale che nulla del mondo
redimerà ciò che è perso
di noi, i putrefatti di qui;
stringile il cuore a strozzarla:
e se t’ama, lo capirai nella vita
più tardi, o giammai.
(Clemente Rebora, Voce di vedetta morta, da Poesie varie, 1913-18)

L'occasione della poesia è offerta dal corpo in putrefazione di un soldato (la vedetta). La vita è insensatezza, la guerra lo dimostra, ma l'uomo comune non lo sa e non può capirlo. Il poeta immaginando di parlare a nome di quel morto, invita se stesso e i compagni a cercare nella vita un valore degno di riscattare la morte e la sofferenza. Si tratta di una ricerca difficile e forse solo in condizioni eccezionali si può pervenire a una risposta. comunque la sconvolgente scoperta non va confidata a chi non può capirla per non aver vissuti l'esperienza della guerra e della precarietà dell'esistenza. Forse una tale rivelazione potrà essere fatta solo in una notte d'amore, di massima vitalità. Forse l'amore è il solo riscatto possibile e se è così la vita lo dimostrerà nel suo trascorrere, nel futuro. Non ci sono valori assoluti: la passione, l'amore, l'intesa umana più profonda, tuttavia, lasciano intravedere una possibile speranza di riscatto.

Veglia 
Cima Quattro il 23 dicembre 1915 
  
Un'intera nottata 
buttato vicino 
a un compagno 
massacrato 
con la sua bocca 
digrignata 
volta al plenilunio 
con la congestione 
delle sue mani 
penetrata 
nel mio silenzio 
ho scritto 
lettere piene d'amore 
  
Non sono mai stato 
tanto 
attaccato alla vita 
(G. Ungaretti, da L'allegria)


FUTURISMO
Fondato da Filippo Tommaso Marinetti, il futurismo orienta la propria azione sulla base di programmi precisi espressi nella forma del Manifesto.

Manifesto del futurismo

1-Noi vogliamo cantare l'amor del pericolo, l'abitudine all'energia e alla temerità. 
2-Il coraggio, l'audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia.
3-La letteratura esaltò fino ad oggi l'immobilità penosa, l'estasi ed il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno.
4-Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa (…) un automobile ruggente (…) è più bello della Nike di Samotracia.
5-Noi vogliamo inneggiare all'uomo che tiene il volante, la cui asta attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita.
6-Bisogna che il poeta si prodighi con ardore, sfarzo e magnificenza, per aumentare l'entusiastico fervore degli elementi primordiali.
7-Non vi è più bellezza se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro.
8-Noi siamo sul patrimonio estremo dei secoli!  Poichè abbiamo già creata l'eterna velocità onnipresente.
9-Noi vogliamo glorificare la guerra - sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore 
10-Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d'ogni specie e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria.
11-Noi canteremo (…) le locomotive dall'ampio petto,  il volo scivolante degli areoplani. E' dall'Italia che lanciamo questo manifesto di violenza travolgente e incendiaria col quale fondiamo oggi il Futurismo, perchè vogliamo liberare questo Paese dalla sua fetida cancrena di professori, d’archeologhi, di ciceroni e d’antiquarii (…) Suvvia! Date fuoco agli scaffali delle biblioteche!

(Queste le parole con cui Filippo Tommaso Marinetti fonda il 20 Febbraio 1909 a Parigi il Manifesto futurista.) 

Marinetti tesse le lodi della modernità, della macchina, della tecnica, della città industriale, che assurgono a nuovi criteri di bellezza. I nuovi principi estetici a cui bisogna attenersi sono la velocità, il dinamismo, l’attivismo esasperato delle metropoli, il traffico cittadino, i tram, il nuovo idolo cui l’artista deve guardare è la civiltà industriale.
Nel Manifesto c’è una componente critico-negativa di matrice nietzschiana, volta a distruggere ogni traccia della tradizione, a celebrare la gioia della distruzione, l’amore per la guerra, la velocità, l’aggressività, l’azione violenta, gli atteggiamenti militareschi, virili, eroici, con conseguente disprezzo della donna e del femminismo.
Umberto Boccioni, Carica di lancieri
L’ardore distruttivo verso il passato e l’adesione provocatoria alle forme della civiltà industriale sono espressioni di un preciso programma: creare un’arte produttiva, integrata nei meccanismi economici della nuova società industriale. Il Futurismo rivendica un’idea pratica  e anti-idealistica dell’opera d’arte.
Dietro il culto del nuovo, si nascondono, però, vecchie ideologie di dominio, care al superomismo dannunziano: l’esaltazione irrazionale della temerarietà, dell’aggressività, della violenza, spinte fino alla lode dello schiaffo e del pugno, fino alla difesa della guerra come sola igiene del mondo spianano la strada al militarismo fascista.


IL CREPUSCOLARISMO
In Italia il vero gruppo d’avanguardia che abbia un respiro europeo è il Futurismo. Tuttavia si registrano tendenze avanguardistiche anche nei crepuscolari.
I Crepuscolari raccolgono la lezioni del Pascoli di Myricae, delle “umili tamerici”, della poesia delle piccole cose.
Comune a tutti i crepuscolari è il rifiuto del ruolo tradizionale dell’intellettuale come uomo pubblico, interprete dei destini di un popolo, poeta-vate, guida e maestro di pensiero.
Entra in crisi anche la funzione oracolare della poesia e il mestiere dell’artista è amaramente deriso e ironizzato:
- Sergio Corazzini (in Desolazione del povero poeta sentimentale) scirve: io non sono un poeta./Io non sono che un povero fanciullo che piange;
- Guido Gozzano addirittura arriva a dire (in La signorina Felicita ovvero La Felicità): Io mi vergogno,/sì, mi vergogno d’essere un poeta!
I crepuscolari scelgono come sfondi per la loro poesia ambienti provinciali e dimessi, oggetti umili, le buone cose di pessimo gusto, come le definisce Gozzano ne L’amica di Nonna Speranza, espressione ossimorica che sintetizza nello stesso tempo, il senso di nostalgia del passato irrevocabile  e la consapevolezza del suo anacronismo. Soffitte polverose, ville in declino, camere d’ospedale, mobilio antico e fuori moda: tutto deve suggerire lo stato di emarginazione dell’artista, il suo sradicamento, il suo essere “fuori moda”, fuori tempo.
I brandelli di vita cantati dai crepuscolari, gli oggetti dei loro versi non vengono, però, innalzati trasfigurati in simboli, alla maniera pascoliana, ma sono colti nella loro frantumazione, come espressione di un mondo languente e in irreversibile decadimento, tramonto, crepuscolo.

GUIDO GOZZANO
La poesia di Gozzano ha una forte impronta antidannunziana:
alla vita inimitabile di D'Annunzio si oppone quella di malato di Gozzano, effettivamente malato di tubercolosi e per questo tendente a una vita schiva. Tuttavia nell'immagine di sé come malato, si cela un riferimento sveviano alla metafora della letteratura-malattia che traduce il senso di crisi vissuto dall'intellettuale nella nuova società massificata dominata dalla "salute", cioè dalla produttività dalla forza, dall'energia, dal divertimento.
L'arte è per Gozzano una consolazione privata che lo protegge dal mondo (anche Svevo parla di "letteraturizzazione della vita"), ma non comunica più valori costruttivi, perché riguarda un mondo ormai scomparso che può essere guardato solo con un velo di ironia per la semplicità e la genuinità di un mondo che non tornerà più, scavalcato dall'ipocrisia di una società che sommerge il passato.

10 luglio: Santa Felicita.
I
Signorina Felicita, a quest’ora
scende la sera nel giardino antico
della tua casa. Nel mio cuore amico
scende il ricordo. E ti rivedo ancora,
e Ivrea rivedo e la cerulea Dora
e quel dolce paese che non dico.

Signorina Felicita, è il tuo giorno!
A quest’ora che fai? Tosti il caffè:
e il buon aroma si diffonde intorno?
O cuci i lini e canti e pensi a me,
all’avvocato che non fa ritorno?
E l’avvocato è qui: che pensa a te.

Pensa i bei giorni d’un autunno addietro,
Vill’Amarena a sommo dell’ascesa
coi suoi ciliegi e con la sua Marchesa
dannata, e l'orto dal profumo tetro
di busso e i cocci innumeri di vetro
sulla cinta vetusta, alla difesa....
(...)
VI
Tu m’hai amato. Nei begli occhi fermi
luceva una blandizie femminina;
tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina;
e più d’ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!

Unire la mia sorte alla tua sorte
per sempre, nella casa centenaria!
Ah! Con te, forse, piccola consorte
vivace, trasparente come l’aria,
rinnegherei la fede letteraria
che fa la vita simile alla morte....

Oh! questa vita sterile, di sogno!
Meglio la vita ruvida concreta
del buon mercante inteso alla moneta,
meglio andare sferzati dal bisogno,
ma vivere di vita! Io mi vergogno,
sì, mi vergogno d’essere un poeta!

Tu non fai versi. Tagli le camicie
per tuo padre. Hai fatta la seconda
classe, t’han detto che la Terra è tonda,
ma tu non credi.... E non mediti Nietzsche....
Mi piaci. Mi faresti più felice
d’un’intellettuale gemebonda....

Tu ignori questo male che s’apprende
in noi. Tu vivi i tuoi giorni modesti,
tutta beata nelle tue faccende.
Mi piaci. Penso che leggendo questi
miei versi tuoi, non mi comprenderesti,
ed a me piace chi non mi comprende.

Ed io non voglio più essere io!
Non più l’esteta gelido, il sofista,
ma vivere nel tuo borgo natio,
ma vivere alla piccola conquista
mercanteggiando placido, in oblio
come tuo padre, come il farmacista....

Ed io non voglio più essere io!
(Guido Gozzano, La signorina Felicita ovvero La Felicità da I colloqui))


Il poemetto di Gozzano La signorina Felicita ovvero La Felicità descrive l'incontro tra il poeta e una giovane donna di provincia che vive in una villa (Villa Amarena), presso Torino, con il padre. Il componimento trae spunto dall'onomastico (10 luglio: Santa Felicita) della ragazza che nella sua semplice ingenuità e mancanza di cultura, incarna un ideale di vita sano, lontano dalle astrazioni intellettuali del poeta. Il legame tra i due però si interrompe, per ragioni di opportunità (i pettegolezzi del paese) e il poeta parte per un viaggio di cui lui stesso ignora la destinazione. Il loro addio ha il sapore dei grandi copioni tipici del Romanticismo, ma è filtrato da un velo ironico: gli innamorati romantici che lasciavano le loro donne partivano per le guerre risorgimentali, Gozzano invece parte per un viaggio senza meta (Dove andrò? Non so...): anche in questo caso si può parlare di un abbassamento di toni e modelli, in linea con la degradazione del ruolo intellettuale.
Il tema centrale, dunque, del poemetto è la vergogna d'essere un poeta, la consapevolezza dell'inutilità della letteratura, l'inconsistenza della poesia in una società che ormai può fare a meno di lei.

Se D'Annunzio converte la marginalità dell'artista in mito autopropulsivo e superomistico e Pascoli rilancia la funzione armonizzante della poesia come alternativa alla lotta di classe, ribadendo la centralità del poeta come mediatore di valori; se, ancora, gli inetti di Svevo e Pirandello si propongono come acuti osservatori della società e delle sue disfunzioni, trasformando la letteratura in un osservatorio privilegiato, i Crepuscolari si abbandonano solo al lamento per la perdita irreversibile della sacralità dell'arte e per la marginalità della funzione intellettuale nella società di massa.


I VOCIANI
A Firenze, fondata da Giuseppe Prezzolini, nasce la rivista «La Voce», (1908) con l’ambizione di consentire agli intellettuali di inserirsi nel dibattito civile e sociale del paese, favorire un’apertura della cultura italiana a nuovi fermenti ideologici. L’obiettivo è saldare politica e cultura, restituire serietà morale e civile all’arte dopo gli eccessi dannunziani, contribuire al rinnovamento morale del Paese.
Sul piano letterario, caduta la fiducia nell’idea positivistica del mondo come successione ordinata di cose, di pensieri, di azioni, spiegabili razionalmente, per i vociani viene meno la possibilità di rappresentare il mondo in forma organica e razionale e si fa strada la scelta del frammento: il mondo, la realtà, le esperienze si condensano in brevi liriche che colgano attimi, grumi di emozioni, immagini immediate, visioni episodiche e epifaniche.
Guidata poi da Giuseppe De Robertis (a partire dal 1914) la rivista fiorentina  si orienta in senso umanistico-letterario: è la fase della «Voce bianca», così denominata dal colore della copertina. I vociani abbandonano la loro vocazione impegnata e  rivendicano, all’opposto, il primato delle lettere: fallisce il progetto iniziale di saldare politica e cultura e si afferma il valore puramente lirico dell’espressione artistica.
La realtà è percepita come assurda e inspiegabile, contraddittoria e indecifrabile, perciò i vociani circoscrivono la loro arte alla sola dimensione interiore, l’unica nota per esperienza diretta. Da qui scaturisce il loro tormentato autobiografismo, il gusto per lo scavo esasperato  nell’interiorità, attraverso versi-frammento che danno voce a rapide e fulminee intuizioni, le sole possibili forme di conoscenza a-razionale, nell’assurdità del mondo.
Da un punto di vista stilistico, i cardini del vocianesimo  si sintetizzano nei seguenti aspetti: 
- frammentismo
-  autobiografismo
- analogismo spinto
- espressionismo (come si è notato a proposito dello stile di Rebora e del primo Ungaretti).
Si collegano all’esperienza vociana poeti come Sbarbaro, Rebora, Dino Campana e Ungaretti.

CAMILLO SBARBARO
Originario di santa Margherita Ligure, trascorre una vita appartata lontano dagli ambienti letterari. Partecipa alla Prima guerra mondiale e al ritorno vive dando lezioni di latino e greco.
Nelle sue poesie la condizione del poeta non è quella del vate, ma quella degradata dell'anonimato, dell'uomo immerso nella società di massa.
I temi ricorrenti nei suoi testi sono l'inerzia vitale e lo sdoppiamento tra il desiderio di vitalità e la consapevolezza della sua irrealizzabilità determinata dal "deserto" cittadino che impedisce di entrare in relazione con le persone e di costruire con loro rapporti autentici. Le cose esistono nella loro nuda "datità", tutto è degradato a oggetto.

Taci, anima stanca di godere (Camillo Sbarbaro)  
Taci, anima stanca di godere
e di soffrire (all’uno e all’altro vai
rassegnata).
Nessuna voce tua odo se ascolto:
non di rimpianto per la miserabile
giovinezza, non d’ira o di speranza,
e neppure di tedio.
                 Giaci come
il corpo, ammutolita, tutta piena
d’una rassegnazione disperata.
Non ci stupiremmo,
non è vero, mia anima, se il cuore
si fermasse, sospeso se ci fosse 
il fiato…
               Invece camminiamo. 
Camminiamo io e te come sonnambuli.
E gli alberi son alberi, le case 
sono case, le donne
che passano son donne, e tutto è quello
che è, soltanto quel che è.
La vicenda di gioia e di dolore 
non ci tocca. Perduto ha la voce 
la sirena del mondo, e il mondo è un grande 
deserto.
           Nel deserto 
io guardo con asciutti occhi me stesso.  
(C. Sbarbaro, Taci, anima stanca di godere, da Pianissimo, 1914)

Sbarbaro registra una condizione di inerzia, di assenza di vitalità: il soggetto lirico si presenta come fantoccio o sonnambulo, immagini che traducono una  condizione di alienazione, reificazione e assenza di punti di riferimento.
Il poeta si vede vivere, diventa spettatore di se stesso, rassegnandosi alla scissione dell’io.
La dimensione sociale entro cui si svolge la vicenda esistenziale è la città, espressionisticamente deformata come deserto, non luogo, dimensione in cui è impossibile costruire relazioni umane fondate sul contatto concreto.
La città è il luogo dell’insignificanza: le cose esistono in se stesse, nella loro materialità, nella loro neutralità oggettiva, senza alcun significato oltre quello della loro stessa esistenza: anche l’individuo è cosa tra le cose, frammento privo di senso che rimanda solo a se stesso.
A questa condizione non c’è rimedio: il mondo, persa ogni attrattiva, si è desertificato e può essere guardato solo con occhi asciutti, con rassegnazione disperata. Si tratta di un lessico di matrice leopardiana e verghiana che non lascia spazio a orizzonti di speranza


martedì 13 febbraio 2018

LUIGI PIRANDELLO

LUIGI PIRANDELLO

IO SONO DUNQUE FIGLIO DEL CAOS
... Io dunque son figlio del Caos; e non allegoricamente, ma in giusta realtà, perché son nato in una nostra campagna, che trovasi presso ad un intricato bosco, denominato, in forma dialettale, Càvusu dagli abitanti di Girgenti. Colà la mia famiglia si era rifugiata dal terribile colera del 1867, che infierí fortemente nella Sicilia. Quella campagna, però, porta scritto l'appellativo di Lina, messo da mio padre in ricordo della prima figlia appena nata e che è maggiore di me di un anno; ma nessuno si è adattato al nuovo nome, e quella campagna continua, per i piú, a chiamarsi Càvusu, corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo greco Káos.
Questo Frammento fu dettato da Luigi Pirandello a Monte Cavo, nell'estate 1893, all'amico Pio Spezi, e da questi dopo moltissimi anni pubblicato nella Nuova Antologia (fascicolo del 16 giugno 1933).
http://www.classicitaliani.it/pirandel/frammenti_autobiografici.htm



IL CONTRASTO CON IL PROFESSORE
Ebbi un contrasto con l’insegnante di Lingua e letteratura latina, il professore Occioni, mentre mi aveva preso a benvolere il professor Monaci, docente di Filologia romanza. Costui, che aveva compreso il mio carattere tenace, per quanto possa parer bizzarro, mi consigliò di terminare l’università in Germania e troncare così ogni spiacevole occasione di urto con il detto professore, che era anche preside della facoltà di Lettere. Mi decisi pertanto di recarmi nella dotta Germania e scelsi la Università di Bonn.
Luigi Pirandello, Frammento d’autobiografia,1893.
(http://www.penclubitalia.it/c/105416/18233/un-contrasto-con-il-professore-lo-indusse-a-trasferirsi-da-roma-a-bonn.html)


LA MALATTIA DELLA MOGLIE
Mio caro Ugo,
non so che dire!
La lunga lettera dell’Albertini, sì, cortesissima, rispettosissima, è vero, ma è stato per me in questo momento, Ugo mio, un vero colpo di grazia!
Ti dico il perché… ma già forse da un pezzo ti sarà arrivata agli orecchi la notizia delle mie immeritamente sciagurate condizioni familiari. Non è vero? Ho la moglie, caro Ugo, da cinque anni pazza. E la pazzia di mia moglie sono io – il che ti dimostra senz’altro che è una vera pazzia – io, io che ho sempre vissuto per la mia famiglia, esclusivamente, e per il mio lavoro, esiliato del tutto dal consorzio umano, per non dare a lei, alla sua pazzia, il minimo pretesto d’adombrarsi. Ma non è giovato a nulla, purtroppo; perché nulla può giovare! I medici hanno dichiarato che è una forma irrimediabile di paranoja, del resto ereditaria nella sua famiglia.
Non ti darei l’afflizione di sentire direttamente da me queste notizie, mio vecchio amico, se la disgrazia che mi capita adesso con l’Albertini non avesse qualche attinenza con essa.
Intenderai facilmente, che per quanto io guadagni lavorando in queste condizioni, per quanto ella, mia moglie, abbia di suo un discreto reddito, non c’è denaro che basti: tutto quello che entra è subito ingojato, divorato dal disordine che regna in casa da sovrano assoluto e con in capo il berretto a sonagli della follia.
Ora è qua con me; ma lunedì, proprio lunedì venturo partirà di nuovo per la Sicilia: ha già i bauli pronti, e mi toccherà andarla a lasciare a Girgenti con uno dei figliuoli.
M’arriva a buon punto, come vedi, questo rifiuto del romanzo, su cui contavo per far fronte a bisogni gravi e urgenti
(Luigi Pirandello, lettera a Ugo Ojetti, 10 aprile 1914)
(https://nephelais.wordpress.com/2012/11/05/la-pazzia-di-mia-moglie-sono-io/)


PIRANDELLO, IL TEATRO E L'AMORE PER MARTA ABBA

Scrivimi, fatti viva, ho tutta la mia vita in Te, la mia arte sei Tu; senza il Tuo respiro muore
(Pirandello a M. Abba, Lettera da Parigi, 1931)

Io sono Te, come Tu mi vuoi; e se Tu non mi vuoi più, io – per me stesso – non sono più nulla, e vivere non m’è più possibile. (...). La vita è fatta di momenti…
(Pirandello, Lettera da Berlino, 1930)

… qui lontano, resterò a vivere fino all’ultimo respiro./Addio, Marta mia! E sentiti sempre, tutta, nel bene senza fine che Ti vuole il Tuo/ Maestro.
(Pirandello, Lettera da Roma, 7.X.1936)
http://www.portaleletterario.net/notizie/arte-e-cultura/457/luigi-pirandello-e-marta-abba-il-coraggio-della-pena-in-amore
http://www.corrierepl.it/2016/08/02/marta-abba-e-luigi-pirandello-una-storia-damore-che-resta-senza-rivelazione/


PIRANDELLO E LA GUERRA: IL FIGLIO STEFANO PRIGIONIERO DEGLI AUSTRIACI
Sto tentando col Vaticano uno scambio ad personam, ma e' molto difficile.
(Pirandello, Lettera al padre, agosto 1918)
(http://www1.adnkronos.com/Archivio/AdnAgenzia/1997/02/24/Altro/PIRANDELLO-PER-IL-FIGLIO-SOLDATO-CHIESE-AIUTO-AL-VATICANO_122800.php)


PIRANDELLO E L'ADESIONE AL FASCISMO
Non può non essere benedetto Mussolini, da uno che ha sempre sentito questa immanente tragedia della vita, la quale per consistere in qualche modo ha bisogno d'una forma; ma subito, nella forma in cui consiste, sente la morte; perché dovendo e volendo di continuo muoversi e mutare, in ogni forma si vede come imprigionata, e vi urge dentro e vi tempesta e la logora e alla fine ne evade: Mussolini che così chiaramente mostra di sentire questa doppia e tragica necessità della forma e del movimento, e che con tanta potenza vuole che il movimento trovi in una forma ordinata il suo freno, e che la forma non sia mai vuota, idolo vano, ma dentro accolga pulsante e fremente la vita, per modo che essa ne sia di momento in momento ricreata e pronta sempre all'atto che la affermi a se stessa e la imponga agli altri.
Il moto rivoluzionario da Lui iniziato con la marcia su Roma e ora tutti i modi del suo nuovo governo mi sembrano, in politica, l'attuazione propria e necessaria di questa concezione della vita.
(Pirandello, Dichiarazione pubblicata in "L'idea Nazionale", 1923)
http://online.scuola.zanichelli.it/letterautori-files/volume-3/pdf-online/laboratorio-tema_fascismo.pdf

Pirandello nel 1924, subito dopo il delitto Matteotti, si era iscritto al partito fascista, e questo gli servì per ottenere appoggi da parte del regime. La sua adesione al fascismo ebbe, però, caratteri ambigui e difficilmente definibili. Da un lato il suo conservatorismo sociale lo spingeva a vedere nel fascismo una garanzia di ordine; dall'altra, il suo spirito antiborghese lo induceva a scoprirvi l'affermazione di una genuina energia vitale che spazzava via le forme fasulle e soffocanti della vita sociale dell'Italia postunitaria. Ben presto, però dovette rendersi conto, col suo acuto senso critico,  del carattere di vuota esteriorità del regime, della retorica pomposa dei suoi riti ufficiali e, pur evitando ogni forma di rottura o anche solo di dissenso, accentuò il suo distacco, che celava un sottile disprezzo. D'altronde la critica corrosiva delle istituzioni sociali e delle maschere da esse imposte, che era propria della visione pirandelliana, non poteva certo risparmiare il regime, che della falsità del meccanismo sociale era un esempio macroscopico.
(AA.VV., Dal testo alla storia, dalla storia al testo, Paravia, 2002)


PIRANDELLO E LA CRITICA AL FASCISMO: I GIGANTI DELLA MONTAGNA
È l'ultimo dei miti teatrali. Pirandello ne iniziò la stesura tra il '30 e il '31; il primo atto, con il titolo I fantasmi, fu pubblicato nel dicembre del '31 sulla Nuova Antologia, il secondo atto nel novembre del '34 sulla rivista Quadrante. Pirandello non riuscì a scriver per esteso il terzo atto che fu tracciato schematicamente, su indicazione del padre morente, dal figlio Stefano. La prima rappresentazione si ebbe nel giugno del '37 nel giardino di Boboli a Firenze.

TRAMA DELL'OPERA
Una compagnia di attori, guidata dalla contessa Ilse, ha deciso di recitare un'unica grande opera La favola del figlio cambiato, e, non trovando accoglienza favorevole presso i comuni teatri, si reca alla villa degli Scalognati; si tratta di una strana villa animata da singolari prodigi, il cui regista è una specie di mago, Cotrone. Tutto può realizzarsi in questa particolare dimora; basta solo avere l'energia di una innocente convinzione: «Siamo qua come agli orli della vita, Contessa. Gli orli, a un comando, si distaccano, entra l'invisibile: vaporano i fantasmi. È cosa naturale. Avviene, ciò che di solito nel sogno. Io lo faccio avvenire anche nella veglia. Ecco tutto. I sogni, la musica, la preghiera, l'amore... Tutto l'infinito che è negli uomini, lei lo troverà dentro e intorno a questa villa». Con queste parole Cotrone invita Ilse a rimanere lì, a recitare per gli ospiti di quell'incantata dimora.
Ilse, però, non accetta; vuole, infatti, che l'opera incida, magari anche con conflittualità, su chi ascolta. Cotrone propone allora ad Ilse di portare la sua Favola tra i giganti della montagna, potenti signori continuamente occupati in grandiose opere: costoro potrebbero inserire la rappresentazione nei festeggiamenti per un importante matrimonio. Ma i giganti, che hanno completamente abdicato alle ragioni dell'interiorità e dello spirito per correlare la loro esistenza solo a una dimensione materiale, non accettano la proposta, non hanno tempo per l'arte. Quello che possono fare è predisporre che la rappresentazione si allestisca per il popolo. Ilse recita la Favola dinanzi ai servi dei Giganti, durante un banchetto nuziale. Risulta chiara la critica di Pirandello allo svilimento dell'arte a mero intrattenimento in una società materialistica, del tutto disinteressata alla bellezza. Ilse, pur consapevole del pericolo di portare un'opera così ricca di sensibilità verso chi è avvolto dalla volgarità, accetta. Il popolo, non certo abituato a questo tipo di spettacolo, apostrofa rozzamente Ilse e gli attori e alla fine li sbrana; e nell'epilogo, attraverso l'uccisione di Ilse, si consuma la tragedia della morte dell'arte nella società moderna.

Nei servi dei Giganti Pirandello adombrerebbe i gerarchi fascisti e nella sorte di Ilse il proprio destino di affannosa ricerca di appoggio e sostegno per il suo teatro presso lo Stato. Nelle figura di Ilse e del mago Cotrone si proietta un dilemma che dovette lacerare lo scrittore negli ultimi anni della sua vita: continuare l'attività teatrale, facendo i conti con la sordità del pubblico alla poesia e lottando per ottenere sostegno dallo Stato, quindi cercando un compromesso tra le ragioni dell'arte e quelle del potere e dell'economia, o rinunciare al rapporto con il pubblico, chiudersi nella sfera autosufficiente della pura creazione poetica (come fa il mago Cotrone). La sorte di Ilse suggerisce che Pirandello, stanco e disilluso, propendesse per la seconda soluzione.

COTRONE Signori miei, a proposito della colpa che lui ora dà alle parole della sua parte, ecco: l'alba è vicina,e io vi promisi jersera che vi avrei comunicato l'idea che m'è venuta per voi: dove potreste andare a rappresentar la vostra «Favola del figlio cambiato»; se proprio non volete rimanere qua con noi. Dunque sappiate che si celebra oggi, con una festa di nozze colossale, l'unione delle due famiglie dette dei giganti della montagna.
IL CONTE (piccolino e perciò smarrito, alzando un braccio) Giganti?
COTRONE Non propriamente giganti, signor Conte,sono detti così, perché gente d'alta e potente corporatura, che stanno sulla montagna che c'è vicina. Io vi propongo di presentarvi a loro. Noi v'accompagneremo. Bisognerà saperli prendere. L'opera a cui si sono messi lassù, l'esercizio continuo della forza, il coraggio che han dovuto farsi contro tutti i rischi e pericoli d'una immane impresa, scavi e fondazioni, deduzioni d'acque per bacini montani, fabbriche, strade, colture agricole, non han soltanto sviluppato enormemente i loro muscoli, li hanno resi naturalmente anche duri di mente e un po' bestiali. Gonfiati dalla vittoria offrono però facilmente il manico per cui prenderli: l'orgoglio: lisciato a dovere, fa presto a diventar tenero e malleabile. 
(Pirandello, I giganti della montagna, atto III)


IL VITALISMO E IL CONTRASTO "VITA"/"FORMA"
http://www.digila.it/public/iisbenini/transfert/Bernazzani/5B%20SIA/Materiale/CD_163La%20forma%20e%20la%20vita.pdf

L'uomo ha bisogno di autoinganni: deve credere che la vita abbia senso e perciò organizza l'esistenza secondo convenzioni, riti, istituzioni, credenze, abitudini, doveri. Gli autoinganni individuali e sociali danno stabilità e costituiscono la "forma" dell'esistenza: essa è data dagli ideali che ci poniamo, dalle leggi civili, dal meccanismo stesso della vita associata. La "forma", tuttavia, blocca la spinta anarchica delle pulsioni vitali, essa cristallizza e paralizza la "vita". Quest'ultima è una forza profonda e oscura che fermenta sotto la "forma" e che tuttavia saltuariamente esplode, erompe in attimi di sospensione del controllo razionale dell'esistenza:  la scoperta del senso delle cose ha i caratteri della rivelazione (o dell’epifania).
Il soggetto costretto a vivere nella "forma"non è più una persona integra, compatta, fondata sulla corrispondenza armonica tra desideri e realizzazione, passione e ragione; ma si riduce a maschera o a personaggio che recita la parte che la società vuole da lui (la parte di impiegato, marito, padre) e che egli stesso si impone attraverso i propri ideali morali. Tutti gli uomini sono maschere o personaggi, perché tutti recitano un parte.
Il personaggio ha davanti a sé due strade: o sceglie l'incoscienza, l'ipocrisia, l'adeguamento passivo alle "forme", oppure vive consapevolmente, amaramente, la scissione tra "forma" e "vita". Nel primo caso sarà solo un maschera, nel secondo diventa una maschera nuda, dolorosamente consapevole degli autoinganni propri e altrui, ma impotente a risolvere la contraddizione che pure individua: più che vivere si guarda vivere. Chi si guarda vivere si pone fuori dall'esperienza vitale; condannato all'estraneità, compatisce gli altri e se stesso.


LA VITA COME ENORME PUPAZZATA
http://www.digila.it/public/iisbenini/transfert/Bernazzani/5B%20SIA/Materiale/CD_163La%20forma%20e%20la%20vita.pdf


LA DIFFERENZA TRA UMORISMO E COMICITÀ:
L'ESEMPIO DELLA VECCHIA IMBELLETTATA
http://www.digila.it/public/iisbenini/transfert/Bernazzani/5B%20SIA/Materiale/CD_164La%20differenza%20tra%20umorismo%20e%20comicit%C3%A0.pdf

Oltre che sulla visione della società e delle relazione umane, il vitalismo pirandelliano produce conseguenze sul piano gnoseologico. Se la realtà è magmatica, non si può fissare in moduli e schemi onnicomprensivi e assoluti. Al contrario, le prospettive possibili sono infinite e tutte equivalenti: ognuno ha la sua verità, che nasce dal suo modo soggettivo di vedere le cose. Ne deriva una profonda incomunicabilità tra gli uomini. La realtà non è più una totalità organica, ma si sfalda in una miriade di frammenti che non hanno un senso complessivo. Anche l'io si frantuma in una serie di frammenti incoerenti.
L'umorismo è l'arte moderna per eccellenza, perché è l'unica in grado di cogliere l'aspetto di un mondo non più ordinato, ma frantumato, in cui non vi sono più punti di riferimento fissi, ma solo ambiguità e contraddizioni. L'umorismo registra le discrasie che caratterizzano la realtà, il rapporto del soggetto con il mondo e la società, le contraddizioni dell'individuo con se stesso.



I VECCHI E I GIOVANI (1909-1913)
Don Ippolito Laurentano se ne sta arroccato, fedele ai Borboni malgrado la vittoria dei garibaldini e l'avvenuta unità d'Italia, nel suo feudo di Colimbètra, nell'estrema Sicilia. Vedovo, dispone di una pittoresca milizia privata composta da venticinque uomini. Rappresenta il retaggio di un’aristocrazia feudale, chisa nella gelosa salvaguardia dei propri privilegi.
Il fratello del principe, don Cosmo, vive appartato a Valsanìa, il cervello "sconvolto" dai libri di filosofia, scetticamente convinto della vanità del tutto. Si tratta di un alter ego di Pirandello, di un uomo che, più che viverla, la vita la contempla e la seziona cercando di comprenderne moventi e significati. Per le questioni pratiche che concernono la conduzione delle sue terre, don Cosmo si serve di Mauro Mortara, un vecchio garibaldino fedele agli ideali del Risorgimento.
È Mauro Mortara una delle figure centrali del romanzo, una sorta di avventuroso personaggio, rotto a tutte le esperienze, circondato dai suoi tre cani mastini, grande viaggiatore ora dedito alle cure della campagna, ma soprattutto rude e genuino patriota, a disagio nella nuova società postrisorgimentale.
La sorella di don Ippolito e di don Cosmo, donna Caterina Laurentano, è vedova di un eroe della patria, morto nella battaglia di Milazzo: Stefano Auriti. Caterina vive lontana dai parenti e rifiuta con nobiltà e ostinazione gli aiuti economici che le offre generosamente il fratello principe.
Flaminio Salvo è un borghese che si è arricchito con le solfare. Imprenditore privo di scrupoli, egli è disposto a servirsi di tutte le astuzie e di tutti gli intrighi della politica, pur di accrescere il suo potere e i suoi averi. Tuttavia l'esistenza di Flaminio Salvo, come quella di tutti, non è priva di problemi: la vita privata gli è fonte di grandi amarezze, causate almeno in parte dalla distruttività del suo stesso carattere: gli è morto un figlio bambino, la moglie è pazza, mentre la figlia, Dianella, è una creatura molto intelligente e delicata, la cui fragilità psichica la rende inadatta ad affrontare gli urti della vita. Per migliorare ulteriormente la sua posizione economica e sociale, il Salvo propone in moglie a don Ippolito la propria sorella, Adelaide.
Il matrimonio ha luogo, ma è troppa la differenza di sensibilità e di cultura tra i due, che presto vedono naufragare la propria unione fra incomprensioni, noia e disgusto. Adelaide è una gaffeur vacua e sempliciona, poco adatta al carattere raffinato e ombroso del principe.
Intanto il figlio di donna Caterina, Roberto Auriti, dopo una brillante carriera politica nel partito di governo, viene poco onorevolmente coinvolto nello scandalo finanziario della Banca Romana, mandando in frantumi le speranze di quanti speravano dall'unità nazionale e dalle nuove generazioni subentranti, l'avvento di una classe dirigente che sapesse completare il lavoro degli artefici del Risorgimento. Roberto Auriti viene arrestato e la mamma, donna Caterina, per lo strazio ne muore.
La Sicilia è, nel romanzo, teatro delle prime rivolte proletarie e dell'ascesa del movimento socialista. Quella operaia è tuttavia una ribellione ancora immatura e poco consapevole e anziché a un miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori porta ad atroci fatti di sangue.
Membro del Comitato centrale dei Fasci è Lando Laurentano, figlio del principe Ippolito, esponente di spicco di quella che è la nuova generazione, la possibile nuova classe dirigente. Anch'egli è uno sconfitto: sorta di superuomo ambizioso e romantico, pur non condividendo le degenerazioni sanguinarie del movimento è costretto, per sfuggire alla cattura, all'esilio.
Vittima simbolo della disfatta di ideali e di progettualità della nuova società italiana e della deriva violenta assunta dall'anelito di emancipazione delle classi popolari sarà Mauro Mortara, ucciso per sbaglio dalle pallottole dei soldati, mentre intendeva aiutarli a sedare la rivolta.
Mauro Mortara si associa, infatti,  alle truppe dell’esercito italiano inviato in Sicilia per reprimere il movimento popolare dei Fasci, ma viene ammazzato dai soldati regolari tra gli altri contadini insorti. Quando i soldati scoprono sul suo petto insanguinato le quattro medaglie dell’impresa garibaldina, il narratore si chiede polemicamente “Chi avevano ucciso?”, ponendo così il lettore di fronte al dramma
-         - della fine del Risorgimento e dei suoi ideali;
-      - dell’estraneità alla nuova Italia di coloro che pure avevano combattuto per la sua edificazione (Mauro Mortara, garibaldino, eppure schierato contro i Fasci popolari);
-         -  della ferocia e dell’assurdità della repressione militare nell’isola.

Ai giovani siciliani rimane poco margine di manovra: lo sentiamo nel pensiero di Lando Laurentano, figlio del principe e impegnato nella causa socialista.
La gioventù? Che poteva la gioventù, se l'avara paurosa prepotente gelosia dei vecchi la schiacciava così, col peso della più vile prudenza e di tante umiliazioni e vergogne? Se toccava a lei l'espiazione rabbiosa, nel silenzio, di tutti gli errori e le transazioni indegne, la macerazione d'ogni orgoglio e lo spettacolo di tante brutture? Ecco come l'opera dei vecchi qua, ora, nel bel mezzo d'Italia, a Roma, sprofondava in una cloaca; mentre su, nel settentrione, s'irretiva in una coalizione spudorata di loschi interessi; e giù, nella bassa Italia, nelle isole, vaneggiava apposta sospesa, perché vi durassero l'inerzia, la miseria e l'ignoranza e ne venisse al Parlamento il branco dei deputati a formar le maggioranze anonime e supine! Soltanto, in Sicilia forse, or ora, la gioventù sacrificata potrebbe dare un crollo a questa oltracotante oppressione dei vecchi, e prendersi finalmente uno sfogo, e affermarsi vittoriosa!
L'esito della ribellione è però la repressione: nelle parole di Cosmo Laurentano, zio di Lando che accoglie quest'ultimo nella sua fuga, troviamo la chiave della filosofia pirandelliana:
- Passerà, - diceva poco dopo don Cosmo, con gli angoli della bocca contratti in giù, la fronte increspata come da onde di pensieri ricacciati indietro dal riflusso della sua sconsolata saggezza, e con quegli occhi che pareva allontanassero e disperdessero nella vanità del tempo tutte le contingenze amare e fastidiose della vita.
- Passerà, cari miei… passerà… [...]
- Così tutte le cose… - sospirò don Cosmo, mettendosi a passeggiare per la sala; e seguitò, fermandosi di tratto in tratto: - Una sola cosa è triste, cari miei: aver capito il giuoco! Dico il giuoco di questo demoniaccio beffardo che ciascuno di noi ha dentro e che si spassa a rappresentarci di fuori, come realtà, ciò che poco dopo egli stesso ci scopre come una nostra illusione, deridendoci degli affanni che per essa ci siamo dati, e deridendoci anche, come avviene a me, del non averci saputo illudere, poiché fuori di queste illusioni non c'è più altra realtà… E dunque, non vi lagnate! Affannatevi e tormentatevi, senza pensare che tutto questo non conclude. Se non conclude, è segno che non deve concludere, e che è vano dunque cercare una conclusione. Bisogna vivere, cioè illudersi; lasciar giocare in noi il demoniaccio beffardo, finché non si sarà stancato; e pensare che tutto questo passerà… passerà…
Romanzo storico che ritrae la crisi dell'Italia postunitaria e il crollo delle speranze  e dei valori risorgimentali, I vecchi e i giovani, pubblicato nel 1913, è ispirato a fatti di cronaca realmente accaduti (scandalo della Banca Romana; Fasci siciliani) e a una linea narrativa che va da Verga a De Roberto.


IL FU MATTIA PASCAL (1904)

MALEDETTO SIA COPERNICO!
http://www.filosofico.net/Antologia_file/AntologiaP/Pirandello_04.htm

LO STRAPPO NEL CIELO DI CARTA
http://www.edatlas.it/documents/16bfa704-f805-49b7-bfe3-87b6b71bd9ab

LA LANTERNINOSOFIA
http://www.filosofico.net/Antologia_file/AntologiaP/Pirandello_02.htm

IL TEMA DEL DOPPIO
https://letteredidattica.deascuola.it/letteratura/risorse/biblioteca-01database-brani/lombra-di-adriano-meis/

PIRANDELLO E VON CHAMISSO: L'UOMO E LA SUA OMBRA
http://www.repubblica.it/speciale/2004/biblioteca/intro/vonchamisso.html

EXCIPIT DEL ROMANZO IL FU MATTIA PASCAL
Ho messo circa sei mesi a scrivere questa mia strana storia, ajutato da lui. Di quanto è scritto qui egli serberà il segreto, come se l’avesse saputo sotto il sigillo della confessione. Abbiamo discusso a lungo insieme su i casi miei, e spesso io gli ho dichiarato di non saper vedere che frutto se ne possa cavare.
– Intanto, questo, – egli mi dice: – che fuori della legge e fuori di quelle particolarità, liete o tristi che sieno, per cui noi siamo noi, caro signor Pascal, non è possibile vivere.
Ma io gli faccio osservare che non sono affatto rientrato né nella legge, né nelle mie particolarità. Mia moglie è moglie di Pomino, e io non saprei proprio dire ch’io mi sia.
Nel cimitero di Miragno, su la fossa di quel povero ignoto che s’uccise alla Stìa, c’è ancora la lapide dettata da Lodoletta:
COLPITO DA AVVERSI FATI
MATTIA PASCAL
BIBLIOTECARIO
CVOR GENEROSO ANIMA APERTA
QVI VOLONTARIO
RIPOSA
LA PIETÀ DEI CONCITTADINI
QVESTA LAPIDE POSE
Io vi ho portato la corona di fiori promessa e ogni tanto mi reco a vedermi morto e sepolto là. Qualche curioso mi segue da lontano; poi, al ritorno, s’accompagna con me, sorride, e – considerando la mia condizione – mi domanda:
– Ma voi, insomma, si può sapere chi siete?
Mi stringo nelle spalle, socchiudo gli occhi e gli rispondo:
– Eh, caro mio… Io sono il fu Mattia Pascal.


I VECCHI E I GIOVANI (ed. definitiva1913)
 – Così tutte le cose… – sospirò don Cosmo, mettendosi a passeggiare per la sala; e seguitò, fermandosi di tratto in tratto: – Una sola cosa è triste, cari miei: aver capito il giuoco! Dico il giuoco di questo demoniaccio beffardo che ciascuno di noi ha dentro e che si spassa a rappresentarci di fuori, come realtà, ciò che poco dopo egli stesso ci scopre come una nostra illusione, deridendoci degli affanni che per essa ci siamo dati, e deridendoci anche, come avviene a me, del non averci saputo illudere, poiché fuori di queste illusioni non c’è più altra realtà… E dunque, non vi lagnate! Affannatevi e tormentatevi, senza pensare che tutto questo non conclude. Se non conclude, è segno che non deve concludere, e che è vano dunque cercare una conclusione. Bisogna vivere, cioè illudersi; lasciar giocare in noi il demoniaccio beffardo, finché non si sarà stancato; e pensare che tutto questo passerà… passerà…
Guardò in giro alla tavola e mostrò a Lando i suoi compagni già addormentati.
 – Anzi, vedi? è già passato…
E lo lasciò lì solo, innanzi alla tavola.
Lando mirò i penosi atteggiamenti sguajati, le comiche acconciature, le facce disfatte dalla stanchezza de’ suoi amici, e invidiò il loro sonno e ne provò sdegno allo stesso tempo. Avevano potuto scherzare; ora potevano dormire, dimentichi che dei disordini provocati dalle loro predicazioni a una gente oppressa da tante iniquità ma ancor sorda e cieca, s’avvaleva ora il Governo per calpestare ancora una volta quella terra, che sola, senza patti, con impeto generoso s’era data all’Italia e in premio non ne aveva avuto altro che la miseria e l’abbandono. Potevano dormire, quei suoi amici, dimentichi del sangue di tante vittime, dimentichi dei compagni caduti in mano della polizia, i quali certo, domani, sarebbero stati condannati dai tribunali militari. (...)
Don Cosmo non disse più nulla. Nella tetraggine, solenne e come sospesa, della notte ancora inquieta, rimase a udire il fragore del mare sotto le frane di Valsanìa e l’abbajare più o men remoto dei cani; poi, con una mano sul capo calvo, si affisò ad alcune stelle, chiodi del mistero com’egli le chiamava, apparse in una cala di cielo, tra le nuvole squarciate.


I QUADERNI DI SERAFINO GUBBIO OPERATORE
(ed. definitiva 1925)

Incipit del romanzo: Studio la gente...
http://www.classicitaliani.it/pirandel/romanzi/Pirandello_Quaderni_Serafino.htm

SILENZIO DI COSA
http://xoomer.virgilio.it/micheleruele/CD_166.pdf


UNO NESSUNO E CENTOMILA (ed. definitiva 1926)
http://online.scuola.zanichelli.it/letterautori-files/volume-3/pdf-online/32-pirandello.pdf

GLI SCRITTORI DI COSE E GLI SCRITTORI DI PAROLE
Discorso di Pirandello alla Reale Accademia d'Italia
(3 dicembre 1931)
È bene, è giusto, per il senso e il valore che io annetto alla cosa, che il nuovo Governo d'Italia riconosca la gloria e onori la virtú nuda e forte dell'arte di uno scrittore come Giovanni Verga.
Due tipi umani, che forse ogni popolo esprime dal suo ceppo: i costruttori e i riadattatori, gli spiriti necessarii e gli esseri di lusso, gli uni dotati d'uno «stile di cose», gli altri d'uno «stile di parole»; due grandi famiglie o categorie di uomini che vivono contemporanei in seno a ogni nazione, sono in Italia, forse piú che altrove, ben distinte e facilmente individuabili. (...)
Lungo tutto il cammino della nostra letteratura corrono ben distinte e quasi parallele queste due categorie di scrittori e possiamo seguirle, accanto e opposte, dalle origini ai nostri giorni: Dante e Petrarca; Machiavelli e Guicciardini; l'Ariosto e il Tasso; il Manzoni e il Monti; Verga e D'Annunzio.
Se pensiamo che Dante muore in esilio e il Petrarca è incoronato in Campidoglio, che Machiavelli finisce com'egli stesso si descrive in una lettera famosa; che l'Ariosto è fatto di poeta «cavallaro», mentre solo la follía toglie i beneficii della fortuna al Tasso, che tuttavia alla fine è proposto anche lui al sommo onore dell'incoronazione in Campidoglio; se pensiamo che da una delusione è accolto il primo apparire dei Promessi Sposi e che il Leopardi passa di vita quasi ignorato, quando si sa a quali venturosi onori pervenne il Monti, dobbiamo convenire che in questa nostra Italia d'immaginazioni storiche, di prodigiosa ricchezza in dolcissime e forti e piene sonorità verbali e di bellezze formali purissime e di magnificenze naturali, in questa nostra Italia miracolo di sensi e di valori ha piú diritto di cittadinanza chi sa dire piú parole che cose; dobbiamo convenire che può riuscire perfino crudele, troppo difficile, insopportabile, lo sforzo lucido che deve durare chi voglia esprimere nudamente delineando le dure sagome delle cose da dire: cose e non parole, cose prepotenti che esigano da noi un assoluto rispetto per la loro nuda verginità.
Ma a chi sa durar questo sforzo - passano gli anni, passano anche i secoli - si ritorna. A Dante, sempre, si ritorna. Si ritorna a Machiavelli. Si ritorna all'Ariosto. Si ritorna al Leopardi e al Manzoni. E si ritorna a Giovanni Verga. (...)
Dove non c'è la cosa, ma le parole che la dicono, dove vogliamo esser noi per come la diciamo, c'è, non la creazione, ma la letteratura, e anche, letterariamente, non l'arte ma l'avventura, una bella avventura, che si vuol vivere scrivendola, o che si vuol vivere per scriverla.


PIRANDELLO E IL TEATRO
ENRICO IV
Antefatto del dramma "Enrico IV"
Durante una cavalcata in costume, vent’anni prima rispetto ai tempi in cui si svolge la pièce teatrale, uno dei cavalieri che aveva scelto di impersonare Enrico IV, imperatore di Germania, disarcionato dal cavallo cade e batte la testa, quando si riprende è convinto di essere realmente il personaggio storico che stava impersonando, cioè Enrico IV.
Nel momento in cui inizia la tragedia sono passati vent’anni da quell’episodio, durante questo ventennio il protagonista ha vissuto isolato dalla società, circondato da attori che, assecondando la sua follia di credersi Re Enrico IV, interpretano il ruolo di servitori e consiglieri vestiti da cortigiani, creando intorno a lui l’ambientazione di una corte reale.
Il dramma si apre con in scena il gruppo di questi personaggi intenti a discutere del loro ruolo di attori e della scena che si apprestano a recitare.
E’ attesa la visita di cinque persone che hanno chiesto di essere ricevuti in udienza da Enrico IV:
Matilde di Spina, la donna di cui Enrico IV, fin dall’epoca della cavalcata in maschera, è innamorato;
il barone Belcredirivale in amore del protagonista;
Frida, figlia di Matilde e di Belcredi;
il fidanzato di Frida, il Marchese Carlo di Nolli, nipote di Enrico IV;
lo psichiatra Dionisio Genoni.
I cinque si sono messi in mente di risolvere la follia di Enrico IV attraverso uno stratagemma.
Lo psichiatra è convinto che per farlo guarire si potrebbe provare a ricostruire la stessa scena di vent'anni prima ma al posto di Matilde far recitare la figlia che è esattamente uguale alla madre da giovane. La vista della ragazza dovrebbe farlo tornare indietro nel tempo provocando uno shock tale, da fargli tornare la ragione. 
In realtà egli da molti anni ha riacquistato la ragione ma ha continuato a simulare di essere pazzo sia per prendersi gioco di tutti sia perché, scoperto che Belcredi lo ha fatto cadere intenzionalmente per rubargli l'amore di Matilde, preferisce immedesimarsi nella sua maschera per non voler vedere la realtà dolorosa della vita.
La messinscena ha un risvolto tragico infatti egli alla vista di Frida, uguale identica alla Matilde di vent’anni prima, pensa per un momento di essere pazzo davvero, rivela in maniera confusa il ruolo di finto pazzo interpretato negli ultimi anni, tenta di abbracciare Frida e alla reazione di Belcredi, che non vuole che Enrico IV abbracci la figlia, sguaina la spada e colpisce Belcredi ferendolo a morte.
Per sfuggire alle conseguenze del suo gesto egli decide quindi di fingersi pazzo per sempre, la sua finta pazzia diventa così la sua condizione definitiva, la sua condanna e la sua liberazione allo stesso tempo, egli sarà Enrico IV per tutta la vita.

Tematica della pazzia
La pazzia è un tema su cui Pirandello ha incentrato diverse sue opere. La malattia mentale ha fatto parte della vita di Pirandello e lo ha colpito profondamente in quanto la moglie soffriva di una patologia psichica e più volte venne ricoverata in strutture per le cure psichiatriche.
Nel dramma "Enrico IV" la follia rappresenta un rifugio rispetto alla sofferenza dell'esistere ed il protagonista la adotta, prima inconsciamente e poi coscientemente, quando nonostante sia guarito continua a millantare di essere pazzo, per poter sfuggire alla realtà che lo circonda.

L'alienazione mentale è un mezzo per opporre alla penosa molteplicità della realtà, la stabilità immaginaria costruita attraverso la pazzia.

L’Enrico IV venne rappresentato per la prima volta, al teatro Manzoni di Milano nel 1922 e riscosse un notevole successo.
Appartiene alla fase teatrale di Pirandello detta del teatro nel teatro in cui la finzione viene proposta come reale. Nel caso del dramma "Enrico IV" la pazzia determina il crearsi di una realtà diversa, una realtà teatrale, una finzione, che è reale tanto quanto la realtà concreta. Le classiche antinomie pirandelliane ne costituiscono la struttura: vita/forma, ragione/pazzia, verità/finzione.
Il personaggio di Enrico IV passa da uno stato di follia vera iniziale ad una follia simulata per l’impossibilità di rientrare in una realtà in cui non si riconosce più.
La follia non è vista da Pirandello in un’accezione negativa ma rappresenta un rifugio e lo strumento attraverso cui l’uomo può sfuggire all’angoscia esistenziale e al dramma del vivere che caratterizza la condizione umana.
Il protagonista per tutta la pièce viene sempre designato come Enrico IV, e mai si viene a conoscere e viene indicato il suo vero nome.


Enrico IV, Monologo, Atto Secondo

Codesto vostro sgomento, perché ora, di nuovo, vi sto sembrando pazzo! – Eppure, perdio, lo sapete! Mi credete; lo avete creduto fino ad ora che sono pazzo! – è vero o no? Ma lo vedete? Lo sentite che può diventare anche terrore, codesto sgomento, come per qualche cosa che vi faccia mancare il terreno sotto i piedi e vi tolga l’aria dal respirare?

Per forza, signori miei! Perché trovarsi davanti a un pazzo che significa? Trovarsi davanti a uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto avete costruito in voi, attorno a voi, la logica, la logica di tutte le vostre costruzioni! – Eh, che volete? Costruiscono senza logica, beati loro, i pazzi! O con una logica che vola come una piuma! Volubili! Volubili! Oggi così e domani chi sa come! – Voi vi tenete forte, ed essi non si tengono più. Volubili! Volubili! – Voi dite “questo non può essere!” – e per loro può essere tutto. – Ma voi dite che non è vero. E perché? Perché non par vero a te, a te, a te. (Indica tre di loro) e centomila altri. Eh, cari miei! Bisognerebbe vedere poi che cosa invece par vero a questi centomila altri che non sono detti pazzi, e che spettacolo dànno dei loro accordi, fiori di logica!

Io so che a me, bambino, appariva vera la luna nel pozzo. E quante cose mi parevano vere! E credevo a tutte quelle che mi dicevano gli altri, ed ero beato! Perché guai, guai se non vi tenete più forte a ciò che vi par vero oggi, a ciò che vi parrà vero domani, anche se sia l’opposto di ciò che vi pareva vero ieri! Guai se vi affondaste come me a considerare questa cosa orribile, che fa veramente impazzire: che se siete accanto a un altro, e gli guardate gli occhi – come io guardavo un giorno certi occhi – potete figurarvi come un mendico davanti a una porta in cui non potrà mai entrare: chi vi entra, non sarete mai voi, col vostro mondo dentro, come lo vedete e lo toccate; ma uno ignoto a voi, come quell’altro nel suo mondo impenetrabile vi vede e vi tocca…




SEI PERSONAGGI IN CERCA D'AUTORE (1921)
Riflessioni
https://centauraumanista.wordpress.com/2017/04/25/sei-personaggi-in-cerca-dautore-di-pirandello-il-trionfo-del-metateatro/

Trama
https://it.wikipedia.org/wiki/Sei_personaggi_in_cerca_d%27autore

Scena finale
http://www.softwareparadiso.it/studio/letteratura/Sei%20personaggi%20in%20cerca%20d%27autore/Sei%20personaggi_finale.html

Il teatro "grottesco"
http://www.treccani.it/vocabolario/grottesco/