La scuola di Atene

La scuola di Atene

martedì 13 febbraio 2018

LUIGI PIRANDELLO

LUIGI PIRANDELLO

IO SONO DUNQUE FIGLIO DEL CAOS
... Io dunque son figlio del Caos; e non allegoricamente, ma in giusta realtà, perché son nato in una nostra campagna, che trovasi presso ad un intricato bosco, denominato, in forma dialettale, Càvusu dagli abitanti di Girgenti. Colà la mia famiglia si era rifugiata dal terribile colera del 1867, che infierí fortemente nella Sicilia. Quella campagna, però, porta scritto l'appellativo di Lina, messo da mio padre in ricordo della prima figlia appena nata e che è maggiore di me di un anno; ma nessuno si è adattato al nuovo nome, e quella campagna continua, per i piú, a chiamarsi Càvusu, corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo greco Káos.
Questo Frammento fu dettato da Luigi Pirandello a Monte Cavo, nell'estate 1893, all'amico Pio Spezi, e da questi dopo moltissimi anni pubblicato nella Nuova Antologia (fascicolo del 16 giugno 1933).
http://www.classicitaliani.it/pirandel/frammenti_autobiografici.htm



IL CONTRASTO CON IL PROFESSORE
Ebbi un contrasto con l’insegnante di Lingua e letteratura latina, il professore Occioni, mentre mi aveva preso a benvolere il professor Monaci, docente di Filologia romanza. Costui, che aveva compreso il mio carattere tenace, per quanto possa parer bizzarro, mi consigliò di terminare l’università in Germania e troncare così ogni spiacevole occasione di urto con il detto professore, che era anche preside della facoltà di Lettere. Mi decisi pertanto di recarmi nella dotta Germania e scelsi la Università di Bonn.
Luigi Pirandello, Frammento d’autobiografia,1893.
(http://www.penclubitalia.it/c/105416/18233/un-contrasto-con-il-professore-lo-indusse-a-trasferirsi-da-roma-a-bonn.html)


LA MALATTIA DELLA MOGLIE
Mio caro Ugo,
non so che dire!
La lunga lettera dell’Albertini, sì, cortesissima, rispettosissima, è vero, ma è stato per me in questo momento, Ugo mio, un vero colpo di grazia!
Ti dico il perché… ma già forse da un pezzo ti sarà arrivata agli orecchi la notizia delle mie immeritamente sciagurate condizioni familiari. Non è vero? Ho la moglie, caro Ugo, da cinque anni pazza. E la pazzia di mia moglie sono io – il che ti dimostra senz’altro che è una vera pazzia – io, io che ho sempre vissuto per la mia famiglia, esclusivamente, e per il mio lavoro, esiliato del tutto dal consorzio umano, per non dare a lei, alla sua pazzia, il minimo pretesto d’adombrarsi. Ma non è giovato a nulla, purtroppo; perché nulla può giovare! I medici hanno dichiarato che è una forma irrimediabile di paranoja, del resto ereditaria nella sua famiglia.
Non ti darei l’afflizione di sentire direttamente da me queste notizie, mio vecchio amico, se la disgrazia che mi capita adesso con l’Albertini non avesse qualche attinenza con essa.
Intenderai facilmente, che per quanto io guadagni lavorando in queste condizioni, per quanto ella, mia moglie, abbia di suo un discreto reddito, non c’è denaro che basti: tutto quello che entra è subito ingojato, divorato dal disordine che regna in casa da sovrano assoluto e con in capo il berretto a sonagli della follia.
Ora è qua con me; ma lunedì, proprio lunedì venturo partirà di nuovo per la Sicilia: ha già i bauli pronti, e mi toccherà andarla a lasciare a Girgenti con uno dei figliuoli.
M’arriva a buon punto, come vedi, questo rifiuto del romanzo, su cui contavo per far fronte a bisogni gravi e urgenti
(Luigi Pirandello, lettera a Ugo Ojetti, 10 aprile 1914)
(https://nephelais.wordpress.com/2012/11/05/la-pazzia-di-mia-moglie-sono-io/)


PIRANDELLO, IL TEATRO E L'AMORE PER MARTA ABBA

Scrivimi, fatti viva, ho tutta la mia vita in Te, la mia arte sei Tu; senza il Tuo respiro muore
(Pirandello a M. Abba, Lettera da Parigi, 1931)

Io sono Te, come Tu mi vuoi; e se Tu non mi vuoi più, io – per me stesso – non sono più nulla, e vivere non m’è più possibile. (...). La vita è fatta di momenti…
(Pirandello, Lettera da Berlino, 1930)

… qui lontano, resterò a vivere fino all’ultimo respiro./Addio, Marta mia! E sentiti sempre, tutta, nel bene senza fine che Ti vuole il Tuo/ Maestro.
(Pirandello, Lettera da Roma, 7.X.1936)
http://www.portaleletterario.net/notizie/arte-e-cultura/457/luigi-pirandello-e-marta-abba-il-coraggio-della-pena-in-amore
http://www.corrierepl.it/2016/08/02/marta-abba-e-luigi-pirandello-una-storia-damore-che-resta-senza-rivelazione/


PIRANDELLO E LA GUERRA: IL FIGLIO STEFANO PRIGIONIERO DEGLI AUSTRIACI
Sto tentando col Vaticano uno scambio ad personam, ma e' molto difficile.
(Pirandello, Lettera al padre, agosto 1918)
(http://www1.adnkronos.com/Archivio/AdnAgenzia/1997/02/24/Altro/PIRANDELLO-PER-IL-FIGLIO-SOLDATO-CHIESE-AIUTO-AL-VATICANO_122800.php)


PIRANDELLO E L'ADESIONE AL FASCISMO
Non può non essere benedetto Mussolini, da uno che ha sempre sentito questa immanente tragedia della vita, la quale per consistere in qualche modo ha bisogno d'una forma; ma subito, nella forma in cui consiste, sente la morte; perché dovendo e volendo di continuo muoversi e mutare, in ogni forma si vede come imprigionata, e vi urge dentro e vi tempesta e la logora e alla fine ne evade: Mussolini che così chiaramente mostra di sentire questa doppia e tragica necessità della forma e del movimento, e che con tanta potenza vuole che il movimento trovi in una forma ordinata il suo freno, e che la forma non sia mai vuota, idolo vano, ma dentro accolga pulsante e fremente la vita, per modo che essa ne sia di momento in momento ricreata e pronta sempre all'atto che la affermi a se stessa e la imponga agli altri.
Il moto rivoluzionario da Lui iniziato con la marcia su Roma e ora tutti i modi del suo nuovo governo mi sembrano, in politica, l'attuazione propria e necessaria di questa concezione della vita.
(Pirandello, Dichiarazione pubblicata in "L'idea Nazionale", 1923)
http://online.scuola.zanichelli.it/letterautori-files/volume-3/pdf-online/laboratorio-tema_fascismo.pdf

Pirandello nel 1924, subito dopo il delitto Matteotti, si era iscritto al partito fascista, e questo gli servì per ottenere appoggi da parte del regime. La sua adesione al fascismo ebbe, però, caratteri ambigui e difficilmente definibili. Da un lato il suo conservatorismo sociale lo spingeva a vedere nel fascismo una garanzia di ordine; dall'altra, il suo spirito antiborghese lo induceva a scoprirvi l'affermazione di una genuina energia vitale che spazzava via le forme fasulle e soffocanti della vita sociale dell'Italia postunitaria. Ben presto, però dovette rendersi conto, col suo acuto senso critico,  del carattere di vuota esteriorità del regime, della retorica pomposa dei suoi riti ufficiali e, pur evitando ogni forma di rottura o anche solo di dissenso, accentuò il suo distacco, che celava un sottile disprezzo. D'altronde la critica corrosiva delle istituzioni sociali e delle maschere da esse imposte, che era propria della visione pirandelliana, non poteva certo risparmiare il regime, che della falsità del meccanismo sociale era un esempio macroscopico.
(AA.VV., Dal testo alla storia, dalla storia al testo, Paravia, 2002)


PIRANDELLO E LA CRITICA AL FASCISMO: I GIGANTI DELLA MONTAGNA
È l'ultimo dei miti teatrali. Pirandello ne iniziò la stesura tra il '30 e il '31; il primo atto, con il titolo I fantasmi, fu pubblicato nel dicembre del '31 sulla Nuova Antologia, il secondo atto nel novembre del '34 sulla rivista Quadrante. Pirandello non riuscì a scriver per esteso il terzo atto che fu tracciato schematicamente, su indicazione del padre morente, dal figlio Stefano. La prima rappresentazione si ebbe nel giugno del '37 nel giardino di Boboli a Firenze.

TRAMA DELL'OPERA
Una compagnia di attori, guidata dalla contessa Ilse, ha deciso di recitare un'unica grande opera La favola del figlio cambiato, e, non trovando accoglienza favorevole presso i comuni teatri, si reca alla villa degli Scalognati; si tratta di una strana villa animata da singolari prodigi, il cui regista è una specie di mago, Cotrone. Tutto può realizzarsi in questa particolare dimora; basta solo avere l'energia di una innocente convinzione: «Siamo qua come agli orli della vita, Contessa. Gli orli, a un comando, si distaccano, entra l'invisibile: vaporano i fantasmi. È cosa naturale. Avviene, ciò che di solito nel sogno. Io lo faccio avvenire anche nella veglia. Ecco tutto. I sogni, la musica, la preghiera, l'amore... Tutto l'infinito che è negli uomini, lei lo troverà dentro e intorno a questa villa». Con queste parole Cotrone invita Ilse a rimanere lì, a recitare per gli ospiti di quell'incantata dimora.
Ilse, però, non accetta; vuole, infatti, che l'opera incida, magari anche con conflittualità, su chi ascolta. Cotrone propone allora ad Ilse di portare la sua Favola tra i giganti della montagna, potenti signori continuamente occupati in grandiose opere: costoro potrebbero inserire la rappresentazione nei festeggiamenti per un importante matrimonio. Ma i giganti, che hanno completamente abdicato alle ragioni dell'interiorità e dello spirito per correlare la loro esistenza solo a una dimensione materiale, non accettano la proposta, non hanno tempo per l'arte. Quello che possono fare è predisporre che la rappresentazione si allestisca per il popolo. Ilse recita la Favola dinanzi ai servi dei Giganti, durante un banchetto nuziale. Risulta chiara la critica di Pirandello allo svilimento dell'arte a mero intrattenimento in una società materialistica, del tutto disinteressata alla bellezza. Ilse, pur consapevole del pericolo di portare un'opera così ricca di sensibilità verso chi è avvolto dalla volgarità, accetta. Il popolo, non certo abituato a questo tipo di spettacolo, apostrofa rozzamente Ilse e gli attori e alla fine li sbrana; e nell'epilogo, attraverso l'uccisione di Ilse, si consuma la tragedia della morte dell'arte nella società moderna.

Nei servi dei Giganti Pirandello adombrerebbe i gerarchi fascisti e nella sorte di Ilse il proprio destino di affannosa ricerca di appoggio e sostegno per il suo teatro presso lo Stato. Nelle figura di Ilse e del mago Cotrone si proietta un dilemma che dovette lacerare lo scrittore negli ultimi anni della sua vita: continuare l'attività teatrale, facendo i conti con la sordità del pubblico alla poesia e lottando per ottenere sostegno dallo Stato, quindi cercando un compromesso tra le ragioni dell'arte e quelle del potere e dell'economia, o rinunciare al rapporto con il pubblico, chiudersi nella sfera autosufficiente della pura creazione poetica (come fa il mago Cotrone). La sorte di Ilse suggerisce che Pirandello, stanco e disilluso, propendesse per la seconda soluzione.

COTRONE Signori miei, a proposito della colpa che lui ora dà alle parole della sua parte, ecco: l'alba è vicina,e io vi promisi jersera che vi avrei comunicato l'idea che m'è venuta per voi: dove potreste andare a rappresentar la vostra «Favola del figlio cambiato»; se proprio non volete rimanere qua con noi. Dunque sappiate che si celebra oggi, con una festa di nozze colossale, l'unione delle due famiglie dette dei giganti della montagna.
IL CONTE (piccolino e perciò smarrito, alzando un braccio) Giganti?
COTRONE Non propriamente giganti, signor Conte,sono detti così, perché gente d'alta e potente corporatura, che stanno sulla montagna che c'è vicina. Io vi propongo di presentarvi a loro. Noi v'accompagneremo. Bisognerà saperli prendere. L'opera a cui si sono messi lassù, l'esercizio continuo della forza, il coraggio che han dovuto farsi contro tutti i rischi e pericoli d'una immane impresa, scavi e fondazioni, deduzioni d'acque per bacini montani, fabbriche, strade, colture agricole, non han soltanto sviluppato enormemente i loro muscoli, li hanno resi naturalmente anche duri di mente e un po' bestiali. Gonfiati dalla vittoria offrono però facilmente il manico per cui prenderli: l'orgoglio: lisciato a dovere, fa presto a diventar tenero e malleabile. 
(Pirandello, I giganti della montagna, atto III)


IL VITALISMO E IL CONTRASTO "VITA"/"FORMA"
http://www.digila.it/public/iisbenini/transfert/Bernazzani/5B%20SIA/Materiale/CD_163La%20forma%20e%20la%20vita.pdf

L'uomo ha bisogno di autoinganni: deve credere che la vita abbia senso e perciò organizza l'esistenza secondo convenzioni, riti, istituzioni, credenze, abitudini, doveri. Gli autoinganni individuali e sociali danno stabilità e costituiscono la "forma" dell'esistenza: essa è data dagli ideali che ci poniamo, dalle leggi civili, dal meccanismo stesso della vita associata. La "forma", tuttavia, blocca la spinta anarchica delle pulsioni vitali, essa cristallizza e paralizza la "vita". Quest'ultima è una forza profonda e oscura che fermenta sotto la "forma" e che tuttavia saltuariamente esplode, erompe in attimi di sospensione del controllo razionale dell'esistenza:  la scoperta del senso delle cose ha i caratteri della rivelazione (o dell’epifania).
Il soggetto costretto a vivere nella "forma"non è più una persona integra, compatta, fondata sulla corrispondenza armonica tra desideri e realizzazione, passione e ragione; ma si riduce a maschera o a personaggio che recita la parte che la società vuole da lui (la parte di impiegato, marito, padre) e che egli stesso si impone attraverso i propri ideali morali. Tutti gli uomini sono maschere o personaggi, perché tutti recitano un parte.
Il personaggio ha davanti a sé due strade: o sceglie l'incoscienza, l'ipocrisia, l'adeguamento passivo alle "forme", oppure vive consapevolmente, amaramente, la scissione tra "forma" e "vita". Nel primo caso sarà solo un maschera, nel secondo diventa una maschera nuda, dolorosamente consapevole degli autoinganni propri e altrui, ma impotente a risolvere la contraddizione che pure individua: più che vivere si guarda vivere. Chi si guarda vivere si pone fuori dall'esperienza vitale; condannato all'estraneità, compatisce gli altri e se stesso.


LA VITA COME ENORME PUPAZZATA
http://www.digila.it/public/iisbenini/transfert/Bernazzani/5B%20SIA/Materiale/CD_163La%20forma%20e%20la%20vita.pdf


LA DIFFERENZA TRA UMORISMO E COMICITÀ:
L'ESEMPIO DELLA VECCHIA IMBELLETTATA
http://www.digila.it/public/iisbenini/transfert/Bernazzani/5B%20SIA/Materiale/CD_164La%20differenza%20tra%20umorismo%20e%20comicit%C3%A0.pdf

Oltre che sulla visione della società e delle relazione umane, il vitalismo pirandelliano produce conseguenze sul piano gnoseologico. Se la realtà è magmatica, non si può fissare in moduli e schemi onnicomprensivi e assoluti. Al contrario, le prospettive possibili sono infinite e tutte equivalenti: ognuno ha la sua verità, che nasce dal suo modo soggettivo di vedere le cose. Ne deriva una profonda incomunicabilità tra gli uomini. La realtà non è più una totalità organica, ma si sfalda in una miriade di frammenti che non hanno un senso complessivo. Anche l'io si frantuma in una serie di frammenti incoerenti.
L'umorismo è l'arte moderna per eccellenza, perché è l'unica in grado di cogliere l'aspetto di un mondo non più ordinato, ma frantumato, in cui non vi sono più punti di riferimento fissi, ma solo ambiguità e contraddizioni. L'umorismo registra le discrasie che caratterizzano la realtà, il rapporto del soggetto con il mondo e la società, le contraddizioni dell'individuo con se stesso.



I VECCHI E I GIOVANI (1909-1913)
Don Ippolito Laurentano se ne sta arroccato, fedele ai Borboni malgrado la vittoria dei garibaldini e l'avvenuta unità d'Italia, nel suo feudo di Colimbètra, nell'estrema Sicilia. Vedovo, dispone di una pittoresca milizia privata composta da venticinque uomini. Rappresenta il retaggio di un’aristocrazia feudale, chisa nella gelosa salvaguardia dei propri privilegi.
Il fratello del principe, don Cosmo, vive appartato a Valsanìa, il cervello "sconvolto" dai libri di filosofia, scetticamente convinto della vanità del tutto. Si tratta di un alter ego di Pirandello, di un uomo che, più che viverla, la vita la contempla e la seziona cercando di comprenderne moventi e significati. Per le questioni pratiche che concernono la conduzione delle sue terre, don Cosmo si serve di Mauro Mortara, un vecchio garibaldino fedele agli ideali del Risorgimento.
È Mauro Mortara una delle figure centrali del romanzo, una sorta di avventuroso personaggio, rotto a tutte le esperienze, circondato dai suoi tre cani mastini, grande viaggiatore ora dedito alle cure della campagna, ma soprattutto rude e genuino patriota, a disagio nella nuova società postrisorgimentale.
La sorella di don Ippolito e di don Cosmo, donna Caterina Laurentano, è vedova di un eroe della patria, morto nella battaglia di Milazzo: Stefano Auriti. Caterina vive lontana dai parenti e rifiuta con nobiltà e ostinazione gli aiuti economici che le offre generosamente il fratello principe.
Flaminio Salvo è un borghese che si è arricchito con le solfare. Imprenditore privo di scrupoli, egli è disposto a servirsi di tutte le astuzie e di tutti gli intrighi della politica, pur di accrescere il suo potere e i suoi averi. Tuttavia l'esistenza di Flaminio Salvo, come quella di tutti, non è priva di problemi: la vita privata gli è fonte di grandi amarezze, causate almeno in parte dalla distruttività del suo stesso carattere: gli è morto un figlio bambino, la moglie è pazza, mentre la figlia, Dianella, è una creatura molto intelligente e delicata, la cui fragilità psichica la rende inadatta ad affrontare gli urti della vita. Per migliorare ulteriormente la sua posizione economica e sociale, il Salvo propone in moglie a don Ippolito la propria sorella, Adelaide.
Il matrimonio ha luogo, ma è troppa la differenza di sensibilità e di cultura tra i due, che presto vedono naufragare la propria unione fra incomprensioni, noia e disgusto. Adelaide è una gaffeur vacua e sempliciona, poco adatta al carattere raffinato e ombroso del principe.
Intanto il figlio di donna Caterina, Roberto Auriti, dopo una brillante carriera politica nel partito di governo, viene poco onorevolmente coinvolto nello scandalo finanziario della Banca Romana, mandando in frantumi le speranze di quanti speravano dall'unità nazionale e dalle nuove generazioni subentranti, l'avvento di una classe dirigente che sapesse completare il lavoro degli artefici del Risorgimento. Roberto Auriti viene arrestato e la mamma, donna Caterina, per lo strazio ne muore.
La Sicilia è, nel romanzo, teatro delle prime rivolte proletarie e dell'ascesa del movimento socialista. Quella operaia è tuttavia una ribellione ancora immatura e poco consapevole e anziché a un miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori porta ad atroci fatti di sangue.
Membro del Comitato centrale dei Fasci è Lando Laurentano, figlio del principe Ippolito, esponente di spicco di quella che è la nuova generazione, la possibile nuova classe dirigente. Anch'egli è uno sconfitto: sorta di superuomo ambizioso e romantico, pur non condividendo le degenerazioni sanguinarie del movimento è costretto, per sfuggire alla cattura, all'esilio.
Vittima simbolo della disfatta di ideali e di progettualità della nuova società italiana e della deriva violenta assunta dall'anelito di emancipazione delle classi popolari sarà Mauro Mortara, ucciso per sbaglio dalle pallottole dei soldati, mentre intendeva aiutarli a sedare la rivolta.
Mauro Mortara si associa, infatti,  alle truppe dell’esercito italiano inviato in Sicilia per reprimere il movimento popolare dei Fasci, ma viene ammazzato dai soldati regolari tra gli altri contadini insorti. Quando i soldati scoprono sul suo petto insanguinato le quattro medaglie dell’impresa garibaldina, il narratore si chiede polemicamente “Chi avevano ucciso?”, ponendo così il lettore di fronte al dramma
-         - della fine del Risorgimento e dei suoi ideali;
-      - dell’estraneità alla nuova Italia di coloro che pure avevano combattuto per la sua edificazione (Mauro Mortara, garibaldino, eppure schierato contro i Fasci popolari);
-         -  della ferocia e dell’assurdità della repressione militare nell’isola.

Ai giovani siciliani rimane poco margine di manovra: lo sentiamo nel pensiero di Lando Laurentano, figlio del principe e impegnato nella causa socialista.
La gioventù? Che poteva la gioventù, se l'avara paurosa prepotente gelosia dei vecchi la schiacciava così, col peso della più vile prudenza e di tante umiliazioni e vergogne? Se toccava a lei l'espiazione rabbiosa, nel silenzio, di tutti gli errori e le transazioni indegne, la macerazione d'ogni orgoglio e lo spettacolo di tante brutture? Ecco come l'opera dei vecchi qua, ora, nel bel mezzo d'Italia, a Roma, sprofondava in una cloaca; mentre su, nel settentrione, s'irretiva in una coalizione spudorata di loschi interessi; e giù, nella bassa Italia, nelle isole, vaneggiava apposta sospesa, perché vi durassero l'inerzia, la miseria e l'ignoranza e ne venisse al Parlamento il branco dei deputati a formar le maggioranze anonime e supine! Soltanto, in Sicilia forse, or ora, la gioventù sacrificata potrebbe dare un crollo a questa oltracotante oppressione dei vecchi, e prendersi finalmente uno sfogo, e affermarsi vittoriosa!
L'esito della ribellione è però la repressione: nelle parole di Cosmo Laurentano, zio di Lando che accoglie quest'ultimo nella sua fuga, troviamo la chiave della filosofia pirandelliana:
- Passerà, - diceva poco dopo don Cosmo, con gli angoli della bocca contratti in giù, la fronte increspata come da onde di pensieri ricacciati indietro dal riflusso della sua sconsolata saggezza, e con quegli occhi che pareva allontanassero e disperdessero nella vanità del tempo tutte le contingenze amare e fastidiose della vita.
- Passerà, cari miei… passerà… [...]
- Così tutte le cose… - sospirò don Cosmo, mettendosi a passeggiare per la sala; e seguitò, fermandosi di tratto in tratto: - Una sola cosa è triste, cari miei: aver capito il giuoco! Dico il giuoco di questo demoniaccio beffardo che ciascuno di noi ha dentro e che si spassa a rappresentarci di fuori, come realtà, ciò che poco dopo egli stesso ci scopre come una nostra illusione, deridendoci degli affanni che per essa ci siamo dati, e deridendoci anche, come avviene a me, del non averci saputo illudere, poiché fuori di queste illusioni non c'è più altra realtà… E dunque, non vi lagnate! Affannatevi e tormentatevi, senza pensare che tutto questo non conclude. Se non conclude, è segno che non deve concludere, e che è vano dunque cercare una conclusione. Bisogna vivere, cioè illudersi; lasciar giocare in noi il demoniaccio beffardo, finché non si sarà stancato; e pensare che tutto questo passerà… passerà…
Romanzo storico che ritrae la crisi dell'Italia postunitaria e il crollo delle speranze  e dei valori risorgimentali, I vecchi e i giovani, pubblicato nel 1913, è ispirato a fatti di cronaca realmente accaduti (scandalo della Banca Romana; Fasci siciliani) e a una linea narrativa che va da Verga a De Roberto.


IL FU MATTIA PASCAL (1904)

MALEDETTO SIA COPERNICO!
http://www.filosofico.net/Antologia_file/AntologiaP/Pirandello_04.htm

LO STRAPPO NEL CIELO DI CARTA
http://www.edatlas.it/documents/16bfa704-f805-49b7-bfe3-87b6b71bd9ab

LA LANTERNINOSOFIA
http://www.filosofico.net/Antologia_file/AntologiaP/Pirandello_02.htm

IL TEMA DEL DOPPIO
https://letteredidattica.deascuola.it/letteratura/risorse/biblioteca-01database-brani/lombra-di-adriano-meis/

PIRANDELLO E VON CHAMISSO: L'UOMO E LA SUA OMBRA
http://www.repubblica.it/speciale/2004/biblioteca/intro/vonchamisso.html

EXCIPIT DEL ROMANZO IL FU MATTIA PASCAL
Ho messo circa sei mesi a scrivere questa mia strana storia, ajutato da lui. Di quanto è scritto qui egli serberà il segreto, come se l’avesse saputo sotto il sigillo della confessione. Abbiamo discusso a lungo insieme su i casi miei, e spesso io gli ho dichiarato di non saper vedere che frutto se ne possa cavare.
– Intanto, questo, – egli mi dice: – che fuori della legge e fuori di quelle particolarità, liete o tristi che sieno, per cui noi siamo noi, caro signor Pascal, non è possibile vivere.
Ma io gli faccio osservare che non sono affatto rientrato né nella legge, né nelle mie particolarità. Mia moglie è moglie di Pomino, e io non saprei proprio dire ch’io mi sia.
Nel cimitero di Miragno, su la fossa di quel povero ignoto che s’uccise alla Stìa, c’è ancora la lapide dettata da Lodoletta:
COLPITO DA AVVERSI FATI
MATTIA PASCAL
BIBLIOTECARIO
CVOR GENEROSO ANIMA APERTA
QVI VOLONTARIO
RIPOSA
LA PIETÀ DEI CONCITTADINI
QVESTA LAPIDE POSE
Io vi ho portato la corona di fiori promessa e ogni tanto mi reco a vedermi morto e sepolto là. Qualche curioso mi segue da lontano; poi, al ritorno, s’accompagna con me, sorride, e – considerando la mia condizione – mi domanda:
– Ma voi, insomma, si può sapere chi siete?
Mi stringo nelle spalle, socchiudo gli occhi e gli rispondo:
– Eh, caro mio… Io sono il fu Mattia Pascal.


I VECCHI E I GIOVANI (ed. definitiva1913)
 – Così tutte le cose… – sospirò don Cosmo, mettendosi a passeggiare per la sala; e seguitò, fermandosi di tratto in tratto: – Una sola cosa è triste, cari miei: aver capito il giuoco! Dico il giuoco di questo demoniaccio beffardo che ciascuno di noi ha dentro e che si spassa a rappresentarci di fuori, come realtà, ciò che poco dopo egli stesso ci scopre come una nostra illusione, deridendoci degli affanni che per essa ci siamo dati, e deridendoci anche, come avviene a me, del non averci saputo illudere, poiché fuori di queste illusioni non c’è più altra realtà… E dunque, non vi lagnate! Affannatevi e tormentatevi, senza pensare che tutto questo non conclude. Se non conclude, è segno che non deve concludere, e che è vano dunque cercare una conclusione. Bisogna vivere, cioè illudersi; lasciar giocare in noi il demoniaccio beffardo, finché non si sarà stancato; e pensare che tutto questo passerà… passerà…
Guardò in giro alla tavola e mostrò a Lando i suoi compagni già addormentati.
 – Anzi, vedi? è già passato…
E lo lasciò lì solo, innanzi alla tavola.
Lando mirò i penosi atteggiamenti sguajati, le comiche acconciature, le facce disfatte dalla stanchezza de’ suoi amici, e invidiò il loro sonno e ne provò sdegno allo stesso tempo. Avevano potuto scherzare; ora potevano dormire, dimentichi che dei disordini provocati dalle loro predicazioni a una gente oppressa da tante iniquità ma ancor sorda e cieca, s’avvaleva ora il Governo per calpestare ancora una volta quella terra, che sola, senza patti, con impeto generoso s’era data all’Italia e in premio non ne aveva avuto altro che la miseria e l’abbandono. Potevano dormire, quei suoi amici, dimentichi del sangue di tante vittime, dimentichi dei compagni caduti in mano della polizia, i quali certo, domani, sarebbero stati condannati dai tribunali militari. (...)
Don Cosmo non disse più nulla. Nella tetraggine, solenne e come sospesa, della notte ancora inquieta, rimase a udire il fragore del mare sotto le frane di Valsanìa e l’abbajare più o men remoto dei cani; poi, con una mano sul capo calvo, si affisò ad alcune stelle, chiodi del mistero com’egli le chiamava, apparse in una cala di cielo, tra le nuvole squarciate.


I QUADERNI DI SERAFINO GUBBIO OPERATORE
(ed. definitiva 1925)

Incipit del romanzo: Studio la gente...
http://www.classicitaliani.it/pirandel/romanzi/Pirandello_Quaderni_Serafino.htm

SILENZIO DI COSA
http://xoomer.virgilio.it/micheleruele/CD_166.pdf


UNO NESSUNO E CENTOMILA (ed. definitiva 1926)
http://online.scuola.zanichelli.it/letterautori-files/volume-3/pdf-online/32-pirandello.pdf

GLI SCRITTORI DI COSE E GLI SCRITTORI DI PAROLE
Discorso di Pirandello alla Reale Accademia d'Italia
(3 dicembre 1931)
È bene, è giusto, per il senso e il valore che io annetto alla cosa, che il nuovo Governo d'Italia riconosca la gloria e onori la virtú nuda e forte dell'arte di uno scrittore come Giovanni Verga.
Due tipi umani, che forse ogni popolo esprime dal suo ceppo: i costruttori e i riadattatori, gli spiriti necessarii e gli esseri di lusso, gli uni dotati d'uno «stile di cose», gli altri d'uno «stile di parole»; due grandi famiglie o categorie di uomini che vivono contemporanei in seno a ogni nazione, sono in Italia, forse piú che altrove, ben distinte e facilmente individuabili. (...)
Lungo tutto il cammino della nostra letteratura corrono ben distinte e quasi parallele queste due categorie di scrittori e possiamo seguirle, accanto e opposte, dalle origini ai nostri giorni: Dante e Petrarca; Machiavelli e Guicciardini; l'Ariosto e il Tasso; il Manzoni e il Monti; Verga e D'Annunzio.
Se pensiamo che Dante muore in esilio e il Petrarca è incoronato in Campidoglio, che Machiavelli finisce com'egli stesso si descrive in una lettera famosa; che l'Ariosto è fatto di poeta «cavallaro», mentre solo la follía toglie i beneficii della fortuna al Tasso, che tuttavia alla fine è proposto anche lui al sommo onore dell'incoronazione in Campidoglio; se pensiamo che da una delusione è accolto il primo apparire dei Promessi Sposi e che il Leopardi passa di vita quasi ignorato, quando si sa a quali venturosi onori pervenne il Monti, dobbiamo convenire che in questa nostra Italia d'immaginazioni storiche, di prodigiosa ricchezza in dolcissime e forti e piene sonorità verbali e di bellezze formali purissime e di magnificenze naturali, in questa nostra Italia miracolo di sensi e di valori ha piú diritto di cittadinanza chi sa dire piú parole che cose; dobbiamo convenire che può riuscire perfino crudele, troppo difficile, insopportabile, lo sforzo lucido che deve durare chi voglia esprimere nudamente delineando le dure sagome delle cose da dire: cose e non parole, cose prepotenti che esigano da noi un assoluto rispetto per la loro nuda verginità.
Ma a chi sa durar questo sforzo - passano gli anni, passano anche i secoli - si ritorna. A Dante, sempre, si ritorna. Si ritorna a Machiavelli. Si ritorna all'Ariosto. Si ritorna al Leopardi e al Manzoni. E si ritorna a Giovanni Verga. (...)
Dove non c'è la cosa, ma le parole che la dicono, dove vogliamo esser noi per come la diciamo, c'è, non la creazione, ma la letteratura, e anche, letterariamente, non l'arte ma l'avventura, una bella avventura, che si vuol vivere scrivendola, o che si vuol vivere per scriverla.


PIRANDELLO E IL TEATRO
ENRICO IV
Antefatto del dramma "Enrico IV"
Durante una cavalcata in costume, vent’anni prima rispetto ai tempi in cui si svolge la pièce teatrale, uno dei cavalieri che aveva scelto di impersonare Enrico IV, imperatore di Germania, disarcionato dal cavallo cade e batte la testa, quando si riprende è convinto di essere realmente il personaggio storico che stava impersonando, cioè Enrico IV.
Nel momento in cui inizia la tragedia sono passati vent’anni da quell’episodio, durante questo ventennio il protagonista ha vissuto isolato dalla società, circondato da attori che, assecondando la sua follia di credersi Re Enrico IV, interpretano il ruolo di servitori e consiglieri vestiti da cortigiani, creando intorno a lui l’ambientazione di una corte reale.
Il dramma si apre con in scena il gruppo di questi personaggi intenti a discutere del loro ruolo di attori e della scena che si apprestano a recitare.
E’ attesa la visita di cinque persone che hanno chiesto di essere ricevuti in udienza da Enrico IV:
Matilde di Spina, la donna di cui Enrico IV, fin dall’epoca della cavalcata in maschera, è innamorato;
il barone Belcredirivale in amore del protagonista;
Frida, figlia di Matilde e di Belcredi;
il fidanzato di Frida, il Marchese Carlo di Nolli, nipote di Enrico IV;
lo psichiatra Dionisio Genoni.
I cinque si sono messi in mente di risolvere la follia di Enrico IV attraverso uno stratagemma.
Lo psichiatra è convinto che per farlo guarire si potrebbe provare a ricostruire la stessa scena di vent'anni prima ma al posto di Matilde far recitare la figlia che è esattamente uguale alla madre da giovane. La vista della ragazza dovrebbe farlo tornare indietro nel tempo provocando uno shock tale, da fargli tornare la ragione. 
In realtà egli da molti anni ha riacquistato la ragione ma ha continuato a simulare di essere pazzo sia per prendersi gioco di tutti sia perché, scoperto che Belcredi lo ha fatto cadere intenzionalmente per rubargli l'amore di Matilde, preferisce immedesimarsi nella sua maschera per non voler vedere la realtà dolorosa della vita.
La messinscena ha un risvolto tragico infatti egli alla vista di Frida, uguale identica alla Matilde di vent’anni prima, pensa per un momento di essere pazzo davvero, rivela in maniera confusa il ruolo di finto pazzo interpretato negli ultimi anni, tenta di abbracciare Frida e alla reazione di Belcredi, che non vuole che Enrico IV abbracci la figlia, sguaina la spada e colpisce Belcredi ferendolo a morte.
Per sfuggire alle conseguenze del suo gesto egli decide quindi di fingersi pazzo per sempre, la sua finta pazzia diventa così la sua condizione definitiva, la sua condanna e la sua liberazione allo stesso tempo, egli sarà Enrico IV per tutta la vita.

Tematica della pazzia
La pazzia è un tema su cui Pirandello ha incentrato diverse sue opere. La malattia mentale ha fatto parte della vita di Pirandello e lo ha colpito profondamente in quanto la moglie soffriva di una patologia psichica e più volte venne ricoverata in strutture per le cure psichiatriche.
Nel dramma "Enrico IV" la follia rappresenta un rifugio rispetto alla sofferenza dell'esistere ed il protagonista la adotta, prima inconsciamente e poi coscientemente, quando nonostante sia guarito continua a millantare di essere pazzo, per poter sfuggire alla realtà che lo circonda.

L'alienazione mentale è un mezzo per opporre alla penosa molteplicità della realtà, la stabilità immaginaria costruita attraverso la pazzia.

L’Enrico IV venne rappresentato per la prima volta, al teatro Manzoni di Milano nel 1922 e riscosse un notevole successo.
Appartiene alla fase teatrale di Pirandello detta del teatro nel teatro in cui la finzione viene proposta come reale. Nel caso del dramma "Enrico IV" la pazzia determina il crearsi di una realtà diversa, una realtà teatrale, una finzione, che è reale tanto quanto la realtà concreta. Le classiche antinomie pirandelliane ne costituiscono la struttura: vita/forma, ragione/pazzia, verità/finzione.
Il personaggio di Enrico IV passa da uno stato di follia vera iniziale ad una follia simulata per l’impossibilità di rientrare in una realtà in cui non si riconosce più.
La follia non è vista da Pirandello in un’accezione negativa ma rappresenta un rifugio e lo strumento attraverso cui l’uomo può sfuggire all’angoscia esistenziale e al dramma del vivere che caratterizza la condizione umana.
Il protagonista per tutta la pièce viene sempre designato come Enrico IV, e mai si viene a conoscere e viene indicato il suo vero nome.


Enrico IV, Monologo, Atto Secondo

Codesto vostro sgomento, perché ora, di nuovo, vi sto sembrando pazzo! – Eppure, perdio, lo sapete! Mi credete; lo avete creduto fino ad ora che sono pazzo! – è vero o no? Ma lo vedete? Lo sentite che può diventare anche terrore, codesto sgomento, come per qualche cosa che vi faccia mancare il terreno sotto i piedi e vi tolga l’aria dal respirare?

Per forza, signori miei! Perché trovarsi davanti a un pazzo che significa? Trovarsi davanti a uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto avete costruito in voi, attorno a voi, la logica, la logica di tutte le vostre costruzioni! – Eh, che volete? Costruiscono senza logica, beati loro, i pazzi! O con una logica che vola come una piuma! Volubili! Volubili! Oggi così e domani chi sa come! – Voi vi tenete forte, ed essi non si tengono più. Volubili! Volubili! – Voi dite “questo non può essere!” – e per loro può essere tutto. – Ma voi dite che non è vero. E perché? Perché non par vero a te, a te, a te. (Indica tre di loro) e centomila altri. Eh, cari miei! Bisognerebbe vedere poi che cosa invece par vero a questi centomila altri che non sono detti pazzi, e che spettacolo dànno dei loro accordi, fiori di logica!

Io so che a me, bambino, appariva vera la luna nel pozzo. E quante cose mi parevano vere! E credevo a tutte quelle che mi dicevano gli altri, ed ero beato! Perché guai, guai se non vi tenete più forte a ciò che vi par vero oggi, a ciò che vi parrà vero domani, anche se sia l’opposto di ciò che vi pareva vero ieri! Guai se vi affondaste come me a considerare questa cosa orribile, che fa veramente impazzire: che se siete accanto a un altro, e gli guardate gli occhi – come io guardavo un giorno certi occhi – potete figurarvi come un mendico davanti a una porta in cui non potrà mai entrare: chi vi entra, non sarete mai voi, col vostro mondo dentro, come lo vedete e lo toccate; ma uno ignoto a voi, come quell’altro nel suo mondo impenetrabile vi vede e vi tocca…




SEI PERSONAGGI IN CERCA D'AUTORE (1921)
Riflessioni
https://centauraumanista.wordpress.com/2017/04/25/sei-personaggi-in-cerca-dautore-di-pirandello-il-trionfo-del-metateatro/

Trama
https://it.wikipedia.org/wiki/Sei_personaggi_in_cerca_d%27autore

Scena finale
http://www.softwareparadiso.it/studio/letteratura/Sei%20personaggi%20in%20cerca%20d%27autore/Sei%20personaggi_finale.html

Il teatro "grottesco"
http://www.treccani.it/vocabolario/grottesco/






Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.