La scuola di Atene

La scuola di Atene

MICROSAGGI COOPERATIVI

MICROSAGGIO
IL PAESAGGIO E LA VOCE DELLA NATURA NELLA POESIA

Sin dall’antichità i poeti hanno affidato le loro emozioni e i loro sentimenti alle voci della natura.
Ne è un esempio l’Eneide, il poema virgiliano. Nell'episodio dedicato alla morte di Eurialo e Niso, infatti, il poeta di Andes rappresenta la selva come locus horridus. La foresta simboleggia lo stato d’animo dei due ragazzi: ansia, smarrimento, paura. Braccati da Volcente,  i due giovani soldati troiani leggono nel buio spettrale della foresta il presagio della loro imminente morte.
Il binomio poetico paesaggio-stato d’animo raggiunge la sua massima espressione nel Romanticismo italiano con Leopardi, che trasforma l’idillio, da tradizionale poesia campestre, in profonda visione sentimentale. Quasi tutti gli Idilli leopardiani partono, sì, da immagini tratte dal mondo della natura, ma si aprono, poi, all'espressione di sentimenti universali, a riflessioni sull'esistenza umana.
Per esempio, ne La quiete dopo la tempesta, il poeta immortala il momento in cui la natura si rasserena dopo un temporale. Lo sconvolgimento atmosferico ha un duplice valore: rappresenta la tempesta dell’animo, ma anche l’inesorabilità della forza della natura, che con folgori, nembi e vento devasta e sparge terrore. La quiete, invece, con un’amara constatazione, rappresenta una singolare forma di piacere, che Leopardi definisce figlio d’affanno. Per il poeta di Recanati, quindi, il messaggio che si cela dietro il volto della natura è chiaro: al dolore non c’è scampo e la felicità, ridotta a mera sospensione del dolore, è soltanto un’illusione. 
Anche Carducci  fa riferimento alla natura per dare voce alla sua dimensione interiore. In particolare, nel componimento San Martino, del 1887, il poeta descrive il suo animo tormentato attraverso immagini che suggeriscono angoscia e malinconia: la nebbia e il vespero rappresentano il tramonto degli ideali che avevano animato la generazione dei poeti romantici; ciò che resta ormai è solo un confuso smarrimento, in cui pare difficile ritrovare il senso della storia. 
Del resto gli stormi di uccelli neri che migrano nel cielo sembrano confermare questa interpretazione. Nel loro triste volo si proiettano, infatti, gli esuli pensieri del poeta: amarezza, per una realtà così diversa da quella sognata, delusione, per quell'Italia postrisorgimentale che non è diventata una nazione e che si sta perdendo nella nebbia.
Infine, Pascoli si inserisce certamente in questo percorso, tuttavia, innova i modelli tradizionali, creando forti legami analogici tra le immagini della natura e caricando, peraltro, di profonde valenze simboliche i dati del paesaggio naturale. Per esempio, come l’autunno carducciano, anche il Novembre di Pascoli è un autunno dell’anima. Però, a differenza di Carducci, Pascoli dà corpo ad un paesaggio ambivalente, in cui ogni aspetto trapassa nel suo contrario. Pertanto, la luminosa natura dell’incipit della poesia lascia il posto, a oscuri presagi di morte (nere trame) e a lugubri, spettrali atmosfere (silenzio, intorno) che culminano nel lapidario excipit: è l’estate/ fredda, dei morti.
La natura, diceva Baudelaire, è una foresta di simboli, il suo volto è duplice: luci e ombre si ricompongono in un’arcana unità che solo il poeta è in grado di cogliere.

Al contrario, però, molti sostengono che la letteratura non debba essere solo l’espressione di se stessi, bensì dell’intera realtà e che la parola debba avere fini educativi e morali. L’esempio per eccellenza, a questo proposito, è Manzoni i cui principi fondamentali sono l’utile e il vero: l’autore deve, cioè, rendere conto della realtà e suggerire ai lettori degli ideali da raggiungere.
Anche Verga e Zola fanno riferimento a vicende che racchiudono significati sociali: la loro parola è al servizio della società, è osservazione, è denuncia.

Tuttavia la poesia è il mezzo con il quale il poeta fa trasparire la propria anima. Perciò poeti come Leopardi, Carducci e Pascoli utilizzano il paesaggio per esprimere i propri sentimenti. E così come un paesaggio è ricco di colori e sfumature, lo è anche l’animo dei poeti.

TESTO COOPERATIVO, a.s.2015/2016, Liceo "Volta" - Foggia, classe 2 A

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PETRARCA E NOI: IL VALORE DELL’INTERIORITÀ

Il dono di riflettere e di interrogarsi è per pochi. Lo era già al tempo di Petrarca, che accusava la turba di essere solo al vil guadagno intesa. A maggior ragione, questa considerazione vale per noi: nella nostra società, che va veloce e che disperde i soggetti in mille impegni, pensare diventa difficile. Passiamo da un’attività all’altra e quando abbiamo un po’ di tempo libero andiamo a controllare con ansia le notifiche sui social. Ormai non proviamo più il piacere della riflessione. O, peggio, non ne sentiamo il bisogno. In un’epoca abituata alle rottamazioni, non siamo più alla ricerca dell’autenticità, ma della novità: tutto ciò che è nuovo è considerato migliore del vecchio che lo precede e, purtroppo, questa rapidità del cambiamento si è estesa al punto che Z. Bauman ha definito “liquida” la nostra società, incapace, cioè, di dare spessore alle esperienze, ai sentimenti, alle relazioni. Si pensi alla piattaforma di Facebook, in cui ogni frase scritta è pronta ad essere cancellata o messa da parte tra i post “vecchi”. Il tempo della memoria si è perso a tal punto che “per non dimenticare” abbiamo dovuto ritualizzare persino la commemorazione delle vittime dell’Olocausto.
Al di là della perdita della memoria collettiva, anche l’ipotesi di un dialogo interiore oggi è quasi impensabile. Un sentimento come la riservatezza, infatti, è stato completamente rimpiazzato dal suo contrario, il desiderio di visibilità, la tendenza diffusa, cioè, a rendere pubblico tutto ciò che si vive e si prova. A causa dei social tutto ciò che pensiamo si è ridotto a un post, un discorso si è trasformato in una chat, gli amici sono diventati followers.
Oggi un giovane avverte come distanti e forse incomprensibili le lacerazioni interiori di Petrarca, i dubbi e i dissidi che lo tormentavano. Eppure, lo scontro con una realtà storica e sociale inappagante si traduceva in poesia sublime e perenne, alla quale il poeta di Arezzo affidava i suoi sentimenti. I versi del Canzoniere avevano il potere di cogliere stati d’animo universali. Noi ci esprimiamo con i post, che non sono certo eterni e universali: un post – è noto - è solo l’estemporanea esternazione di un’emozione momentanea dettata, cioè, da circostanze particolari e passeggere. Manca, ormai, la vocazione poetica della parole. Tutto è ridotto a sbrigativa comunicazione. Completamente presi dalla frenesia di condividere un link o dalla preoccupazione di aggiornare il profilo di Facebook, abbiamo perso non solo la genuinità dei contatti umani, ma, soprattutto, l’abitudine a esprimere verbalmente le nostre emozioni: affidiamo “simpaticamente” i nostri stati d’animo a veloci e sintetici emoticon. Al contrario, riorganizzare i frammenti dell’anima, scavare nella memoria, dare voce alle speranze significa attraversare le ambivalenze del mondo interiore e rischiare di scoprirne la complessità. E questo è un percorso complicato, che richiede tempo e riflessione. In effetti, risulta difficile dare un nome ai sentimenti: chi userebbe mai, oggi, il termine accidia per indicare quella forma di inerzia spirituale che ci fa indugiare in un vuoto spirituale senza consentirci di abbracciare energicamente un ideale di cui pure, forse, avvertiamo il valore? Eppure Petrarca ha costruito intere opere, come il Secretum e il Canzoniere, su questi concetti. Oggi, a ben guardare, se ci allontaniamo dal codice comunicativo della messaggeria, se scriviamo qualcosa di più complesso di un tweet, rischiamo di rimanere “espulsi” da un mondo le cui imposizioni forse ci pesano, ma ci condizionano, al punto che sentiamo l’inspiegabile obbligo di accettarle, “per non restare fuori”.
La nostra vita è, pertanto, come una maschera che non ci permette di essere noi stessi e che non ha una vera consistenza. Tra username e false identità virtuali siamo automi senza sentimenti nostri. Il valore dell’io, la dimensione interiore si polverizzano tra gli algoritmi di Google e andare alle radici dei desideri più nascosti  sembra impossibile, in una società consumistica e competitiva come quella attuale, in cui mancano momenti davvero liberi da dedicare alla meditazione, a causa del lavoro, della scuola, dei social, che in modi diversi ci tolgono la possibilità di costruire una dimensione che sia veramente nostra. Velocità, competizione, virtualità ci sottraggono alla riflessione.
Ma non è certo, solo questione di tempo.
In realtà, non abbiamo più il coraggio di attraversare a passi tardi e lenti, i deserti campi della nostra anima: cerchiamo condivisioni nella blogosfera, perché abbiamo paura di noi stessi. Anche Petrarca, certo, aveva paura dei propri sentimenti e delle proprie debolezze, sapeva che quanto piace al mondo è breve sogno e soffriva per questa amara scoperta; si sentiva sempre più lontano da una felicità che lui non aveva la forza di radicare in Dio. Ma ne era consapevole. Oggi, invece, c’è, forse, qualcuno che si chiede: “Mi conosco? Chi sono?” .
Quello inaugurato da Petrarca con il Canzoniere è un percorso di autocoscienza: il poeta riflette su se stesso per arrivare a capire che l’io non è integro e che combatte tra opposte istanze, in una continua sfida tra coscienza, volontà, desideri, che, attraverso l’autoesame, il poeta arriva a conoscere perfettamente nella loro autenticità. Scegliere il male, pur conoscendo il bene: questo è il dramma di un’interiorità contorta, che va al di là dell’orizzonte storico cui appartiene per nascita e che è lontana dalle semplificazioni dantesche. L’umanità non si divide in dannati e beati, in buoni e cattivi: ogni uomo è buono e cattivo contemporaneamente: è questione di scelte e questo paralizza.
Noi abbiamo ridotto l’entità del problema, facciamo scelte più semplici: compriamo lo smartphone più costoso, il modello più recente, ci preoccupiamo di apparire, trascuriamo l’essere e, nell’era dei social network, non ci conosciamo più: desideriamo ciò che tutti vogliono o già hanno, siamo indotti a raggiungere gli standard che la società impone e non ci accorgiamo di perdere di vista i veri desideri, quelli che rendono unico ognuno di noi.
Abituati alla familiarità con l’errore, immersi in una società in cui si è dilatato infinitamente il senso del limite, non abbiamo più l’abitudine all’esame di coscienza, anzi abbiamo perso proprio il senso della coscienza, della differenza tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, abbiamo smarrito il senso e il valore del sacrificio come tappa necessaria a raggiungere un obiettivo. Quando Petrarca percorre con difficoltà il Monte Ventoso e ammette di voler cercare scorciatoie, di voler demordere dall’impresa troppo ardua per la sua debole volontà, ci sta sfidando: quanti di noi oggi accetterebbero di competere con se stessi?
Infine, bisogna amaramente constatare che interiorità e amore, i due punti di forza del Canzoniere, oggi non interessano più a nessuno: la società punta ad altro e struggersi d’amore sembra una cosa strana, ci fa sentire inadeguati in un mondo in cui tutti hanno il dovere di mostrarsi sempre vincenti ed efficienti. Eppure, se non conosciamo noi stessi, non riusciremo mai a comprendere gli altri. Non saper dare un nome ai nostri stati d’animo ci isola e ci condanna a una profonda incomunicabilità.


Testo cooperativo, a.s. 2015/2016, Liceo “Volta” – Foggia, classe 3 A s.a.(alunni  Castucci Arianna e Alessia, Cognetti Aurora, De Mauro Francesco, Fonseta Mario, Giuliani Martina Pia, Gramazio, Lanzetta, Magistro Martina, Martino Betrice, Orlando Francesco, Mazzarella Emanuele, Novelli mario Pio, Zito Antonio Pio)


LA SCUOLA E I GIOVANI
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(A.S. 2016/2017, CLASSE IV A s.a)



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