La scuola di Atene

La scuola di Atene

mercoledì 17 gennaio 2018

FRANZ KAFKA

Gli scritti di Kafka sono percorsi da un'atmosfera allucinata, segnata dall'incubo e dall'assenza di significato: l'uomo è schiacciato da meccanismi misteriosi e da logiche arbitrarie. 


La punizione, la repressione, il senso di colpa diventano condizione assoluta dell'individuo, sopraffatto da un senso di sofferenza e di oppressione:
è questa l'insensatezza della vita nella società moderna.

DAVANTI ALLA LEGGE (1914)
https://seieditrice.com/trame-e-temi/files/2011/06/TT_NBreve_Kafka.pdf


Dal nome dell'autore deriva il termine "kafkiano", un neologismo della lingua italiana che indica una situazione paradossale, e in genere angosciante, che viene accettata come normale, implicando l'impossibilità di qualunque reazione tanto sul piano pratico quanto su quello psicologico. 
Ne è un esempio la metamorfosi di Gregor Samsa in insetto: il personaggio non è tanto preoccupato della perdita delle sue fattezze umane, quanto dall'ansia di fare tardi al lavoro e dalla vergogna di presentarsi con il suo aspetto raccapricciante ai genitori.

L'assurdo irrompe nella quotidianità e diventa un dato di fatto con cui Gregor convive.
L'insetto che conserva sentimenti e facoltà umane sembra un'eredità dell'antica favola di Esopo e Fedro e apparentemente fa riferimento alle allegorie animali, tipiche del genere favolistico.
Tuttavia l'allegorismo kafkiano è molto particolare: non comunica un messaggio o una tesi precisa e razionale, come faceva l'allegoria tradizionale, ma esprime un bisogno di significato che, però, resta senza risposta.

Cfr.: IL RISVEGLIO DI GREGOR SAMSA
https://novecentoinrete.files.wordpress.com/2011/03/la-metamorfosi-franz-kafka.pdf

GREGOR AGGREDITO DAL PADRE (pp.24-25)
http://www.webbati.altervista.org/materiali/metamorfosi.pdf


IL "PERTURBANTE" FREUDIANO
Con tale definizione Freud indica i fenomeni che procurano, per il modo in cui si manifestano, un'indefinibile sensazione di angoscia, turbamento e inquietudine.

Secondo il padre della psicanalisi, nelle favole - che sono il regno della fantasia - non sono perturbanti molte fatti che risulterebbero tali nella vita reale. Le anime dell'Inferno di Dante o le apparizioni soprannaturali nell'Amleto, nel Macbeth  o nel Giulio Cesare di Shakespare, possono essere tetre e terrificanti, ma non per questo sono più inquietanti del mondo degli dei omerici. (...)
Noi conformiamo il nostri giudizio alla realtà fantastica impostaci dallo scrittore e consideriamo anime, spiriti e fantasmi come se la loro esistenza fosse altrettanto valida quanto la nostra propria esistenza materiale. (...)
La situazione si trasforma non appena lo scrittore finge di trasferirsi nel mondo della realtà corrente.
(cfr. S. Freud, Psicoanalisi dell'arte e della letteratura)
L'inquietudine generata dal perturbante, quindi, ci coglie quando in un contesto noto, naturale, familiare, si inserisce un elemento estraneo, non riconoscibile.
Kafka descrive una realtà per certi aspetti ordinaria, riconoscibile, nella quale, tuttavia, innesta l'elemento di disturbo, l'incongruo che vanifica ogni sforzo volto a controllarlo, che fa emergere l'atavica paura umana dell'impotenza, dell'impossibilità di gestire gli eventi imponderabili della vita.
L'inspiegabile ci pone di fronte al baratro del nostro inconscio.



La critica del Novecento ha coniato la formula di "allegorismo vuoto": come ogni autore allegorico, Kafka rappresenta una vicenda per "dire altro", ma questo "altro" resta indecifrabile e dunque indicibile. Il significato è fuggito dalla vita e ne resta solo l'esigenza.
Alla base di questa visione dell'esistenza ci sono radici psicologiche (il complesso rapporto di Kafka con il padre), culturali (il senso di esclusione legato alle origini ebraiche di Kafka, l'obbedienza mistica a una Legge inaccessibile alla ragione moderna), professionali (la sua attività di impiegato di inserisce in un'atmosfera di spersonalizzazione, frustrazione e anonimato molto diffusa nel Decadentismo).
Walter Benjamin conia l'espressione "allegoria vuota", apprezzando l'arte di Kafka come il punto massimo di espressione dell'insensatezza dell'esistenza umana, della frattura tra le parole e le cose, della scissione dei significati rispetto a parametri di valori universali.
György Lukács, invece, valuta negativamente i procedimenti allegorici kafkiani, perché nella rinuncia a rivelare un significato, e dunque, nell' "allegoria vuota"ci sarebbe una resa all'insignificanza e alla crisi.



BIOGRAFIA
http://www.raiscuola.rai.it/articoli/franz-kafka-la-vita/6962/default.aspx


LETTERA AL PADRE
Scritta nel 1919 e mai consegnata al destinatario, Lettera al padre ripercorre la storia di un rapporto assolutamente squilibrato tra un padre troppo forte e un figlio troppo debole. Una lotta impari. Da una parte c'è una figura che incarna l'autorità assoluta, distante e brutale, dall'altra un figlio pieno di paure, che desidera con tutto se stesso l'affetto del padre, ma che non ha il coraggio di conquistarselo. Così, in pagine di forte impatto emotivo, Kafka confessa la sua natura di figlio incompreso, insicuro e inadeguato, schiacciato dalla personalità di un uomo che ha l'aspetto enigmatico del tiranno. Uno spietato atto d'accusa, e insieme l'accorato appello di chi non può rinunciare alla speranza di una riconciliazione.
http://online.scuola.zanichelli.it/candidisoles-files/percorsi/6393_Candidi-Soles_Terenzio_Percorso.pdf

giovedì 11 gennaio 2018

Pascoli e D'Annunzio

GIOVANNI PASCOLI

Il fanciullino (1907) - Una poetica decadente
È dentro noi un fanciullino che non solo ha brividi, come credeva Cebes Tebano che primo in sé lo scoperse, ma lagrime ancora e tripudi suoi. Quando la nostra età è tuttavia tenera, egli confonde la sua voce con la nostra, e dei due fanciulli che ruzzano e contendono tra loro, e, insieme sempre, temono sperano godono piangono, si sente un palpito solo, uno strillare e un guaire solo. Ma quindi noi cresciamo, ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica serena maraviglia; noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce, ed egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come di campanello. (…)
Ma è veramente in tutti il fanciullo musico? (…)
In alcuni non pare che egli sia; alcuni non credono che sia in loro; e forse è apparenza e credenza falsa. Forse gli uomini aspettano da lui chi sa quali mirabili dimostrazioni e operazioni; e perché non le vedono, o in altri o in sé, giudicano che egli non ci sia. Ma i segni della sua presenza e gli atti della sua vita sono semplici e umili. Egli è quello, dunque, che ha paura al buio, perché al buio vede o crede di vedere; quello che alla luce sogna o sembra sognare, ricordando cose non vedute mai; quello che parla alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle: che popola l'ombra di fantasmi e il cielo di dei. Egli è quello che piange e ride senza perché, di cose che sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione. Egli è quello che nella morte degli esseri amati esce a dire quel particolare puerile che ci fa sciogliere in lacrime, e ci salva . Egli è quello che nella gioia pazza pronunzia, senza pensarci, la parola grave che ci frena. Egli rende tollerabile la felicità e la sventura, temperandole d'amaro e di dolce, e facendone due cose ugualmente soavi al ricordo. Egli fa umano l'amore, perché accarezza esso come sorella (oh! Il bisbiglio dei due fanciulli tra un bramire di belve) , accarezza e consola la bambina che è nella donna. Egli nell'interno dell'uomo serio sta ad ascoltare, ammirando, le fiabe e le leggende, e in quello dell'uomo pacifico fa echeggiare stridule fanfare di trombette e di pive, e in un cantuccio dell'anima di chi più non crede, vapora d'incenso l'altarino che il bimbo ha ancora conservato da allora. Egli ci fa perdere il tempo, quando noi andiamo per i fatti nostri, ché ora vuol vedere la cinciallegra che canta, ora vuol cogliere il fiore che odora, ora vuol toccare la selce che riluce.
E ciarla intanto, senza chetarsi mai; e, senza lui, non solo non vedremmo tante cose a cui non badiamo per solito, ma non potremmo nemmeno pensarle e ridirle, perché egli è l'Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente. Egli scopre nelle cose le somiglianze e relazioni più ingegnose. Egli adatta il nome della cosa più grande alla più piccola, e al contrario. E a ciò lo spinge meglio stupore che ignoranza, e curiosità meglio che loquacità: Impicciolisce per poter vedere, ingrandisce per poter ammirare. Né il suo linguaggio è imperfetto come di chi non dica la cosa se non a mezzo, ma prodigo anzi, come di chi due pensieri dia per una parola. E a ogni modo dà un segno, un suono, un colore, a cui riconoscere sempre ciò che vide una volta.
C'è dunque chi non ha sentito mai nulla di tutto questo? Forse il fanciullo tace in voi, professore, perché voi avete troppo cipiglio, e voi non lo udite, o banchiere, tra il vostro invisibile e assiduo conteggio. Fa il broncio in te, o contadino, che zappi e vanghi, e non ti puoi fermare a guardare un poco; dorme coi pugni chiusi in te, operaio, che devi stare chiuso tutto il giorno nell'officina piena di fracasso e senza sole.
Ma in tutti è, voglio credere. (…)
Bene! Tu hai cantato e detto: hai cantato strofe e detto verità. E mi viene in mente che oltre codeste verità, diremo così, usuali, di cui io ti sono testimone, ci sia sotto il tuo dire una verità più riposta e meno comune, a cui però la coscienza di tutti risponda con subito assenso.Quale? Questa: che la poesia, in quanto è poesia, la poesia senza aggettivo, ha una suprema utilità morale e sociale. E tu non hai mica ragionato, per rivelare a me il tuo fine. Tu hai detto quel che vedi e senti. E dicendo questo, hai forse espresso quale è il fine proprio della poesia. Ora tocca a me ragionarci sopra, Chi ben consideri, comprende che è il sentimento poetico il quale fa pago il pastore della sua capanna, il borghesuccio del suo appartamentino ammobigliato sia pur senza buon gusto ma con molta pazienza e diligenza; e vai dicendo. (…)
Or dunque intenso il sentimento poetico è di chi trova la poesia in ciò che lo circonda, e in ciò che altri soglia spregiare, non di chi non la trova lì e deve fare sforzi per cercarla altrove. E sommamente benefico è tale sentimento, che pone un soave e leggiero freno all'instancabile desiderio, il quale ci fa perpetuamente correre con infelice ansia per la via della felicità. Oh! chi sapesse rafforzarlo in quelli che l'hanno, fermarlo in quelli che sono per perderlo, insinuarlo in quelli che ne mancano, non farebbe per la vita umana opera più utile di qualunque più ingegnoso trovatore di comodità e medicine? E non so dire quanto la comunione degli uomini ne sarebbe avvantaggiata; specialmente in questi tempi in cui la corsa verso l'impossibile felicità è con tanto fulmineo disprezzo in chi va avanti, con tanta disperata invidia in chi resta addietro. Già in altri tempi vide un Poeta (io non sono degno nemmeno di pronunziare il tuo santo nome, o Parthenias!), vide rotolare per il vano circolo della passione le quadriglie vertiginose; e quei tempi erano simili a questi, e balenava all'orizzonte la conflagrazione del mondo in una guerra di tutti contro tutti e d'ognuno contro ognuno; e quel Poeta sentì che sopra le fiere e i mostri aveva ancor più potere la cetra di Orfeo che la clava d'Ercole. E fece poesia, senza pensare ad altro, senza darsi arie di consigliatore, di ammonitore, di profeta del buono e del mal augurio: cantò, per cantare. E io non so misurare qual fosse l'effetto del suo canto; ma grande fu certo, se dura sino ad oggidì, vibrando con dolcezza nelle nostre anime irrequiete.
O rimatori di frasi tribunizie, o verseggiatori di teoriche sociali, che escludete dall'ora presente ogni poesia che non sia la vostra, vale a dire, escludete la POESIA, ditemi: era o non era al suo posto, nel secolo d'Augusto, il cantore delle Georgiche? Sì, non è vero? Egli insegnava ad amare la vita in cui non fosse lo spettacolo né doloroso della miseria né invidioso della ricchezza: egli voleva abolire la lotta tra le classi e la guerra tra i popoli. Che volete voi, o poeti socialisti, che dite cose tanto diverse e le dite tanto diversamente da lui?

La grande Proletaria si è mossa (26.11.1911): dal lirismo soggettivo all'impegno nazionalista
Cinquant’anni fa l’Italia non aveva scuole, non aveva vie, non aveva industrie, non aveva commerci, non aveva coscienza di sè, non aveva ricordo del passato, non aveva, non dico speranza, ma desiderio dell’avvenire. In cinquant’anni è parso che altro non si facesse se non errori e anche delitti; non si cominciasse se non a far sempre male e non si finisse se non col non far mai nulla. La critica era feroce e interminabile e insaziabile. Era forse un desiderio impaziente che la animava.
Ebbene in cinquant’anni l’Italia aveva rifoggiato saldamente, duramente, immortalmente, il suo destino.
Chi vuol conoscere quale ora ella è, guardi la sua armata e il suo esercito. Li guardi ora in azione. Terra, mare e cielo, alpi e pianura, penisola e isole, settentrione e mezzogiorno, vi sono perfettamente fusi. Il roseo e grave alpino combatte vicino al bruno e snello siciliano, l’alto granatiere lombardo s’affratella col piccolo e adusto fuciliere sardo; i bersaglieri (chi vorrà assegnare ai bersaglieri, fiore della gioventù panitalica, una particolare origine?), gli artiglieri della nostra madre terra piemontese dividono i rischi e le guardie coi marinai di Genova e di Venezia, di Napoli e d’Ancona, di Livorno, di Viareggio, di Bari. Scorrete le liste dei morti gloriosi, dei feriti felici della loro luminosa ferita: voi avrete agio di ricordare e ripassare la geografia di questa che appunto era tempo fa, una espressione geografica.
E vi sono le classi e le categorie anche là: ma la lotta non v’è o è lotta a chi giunge prima allo stendardo nemico, a chi prima lo afferra, a chi prima muore. A questo modo là il popolo lotta con la nobiltà e con la borghesia. Così là muore, in questa lotta, l’artigiano e il campagnolo vicino al conte, al marchese, al duca.
(…)
La nostra è dunque, checché appaiono i nostri atti singoli di strategia e di tattica, guerra non offensiva ma difensiva. Noi difendiamo gli uomini e il loro diritto di alimentarsi e vestirsi coi prodotti della terra da loro lavorata, contro esseri che parte della terra necessaria al genere umano tutto, sequestrano per sé e corrono per loro, senza coltivarla, togliendo pane, cibi, vesti, case, all’intera collettività che ne abbisogna. A questa terra, così indegnamente sottratta al mondo, noi siamo vicini; ci fummo già; vi lasciammo segni che nemmeno i Berberi, i Beduini e i Turchi riuscirono a cancellare; segni della nostra umanità e civiltà, segni che noi appunto non siamo Berberi, Beduini e Turchi. Ci torniamo. In faccia a noi questo è un nostro diritto, in cospetto a voi era ed è un dovere nostro.



STORIA E VITA DI GABRIELE D'ANNUNZIO 



da Il piacere (1889)
IL RITRATTO DI ANDREA SPERELLI

Sotto il grigio diluvio democratico odierno, che molte belle cose e rare sommerge miseramente, va anche a poco a poco scomparendo quella special classe di antica nobiltà italica, in cui era tenuta viva di generazione in generazione una certa tradizion familiare d’eletta cultura, d’eleganza e di arte.

A questa classe, ch’io chiamerei arcadica perchè rese appunto il suo più alto splendore nell’amabile vita del XVIII secolo, appartenevano gli Sperelli. L’urbanità, l’atticismo, l’amore delle delicatezze, la predilezione per gli studii insoliti, la curiosità estetica, la mania archeologica, la galanteria raffinata erano nella casa degli Sperelli qualità ereditarie. (…)
Il conte Andrea Sperelli-Fieschi d’Ugenta, unico erede, proseguiva la tradizion familiare. Egli era, in verità, l’ideal tipo del giovine signore italiano del XIX secolo, il legittimo campione d’una stirpe di gentiluomini e di artisti eleganti, ultimo discendente d’una razza intelettuale.

Egli era, per così dire, tutto impregnato di arte. La sua adolescenza, nutrita di studii varii e profondi, parve prodigiosa. Egli alternò, fino a’venti anni, le lunghe letture coi lunghi viaggi in compagnia del padre e potè compiere la sua straordinaria educazione estetica sotto la cura paterna, senza restrizioni e constrizioni di pedagoghi. Dal padre a punto ebbe il gusto delle cose d’arte, il culto passionato della bellezza, il paradossale disprezzo de’ pregiudizii, l’avidità del piacere.
Questo padre, cresciuto in mezzo alli estremi splendori della corte borbonica, sapeva largamente vivere; aveva una scienza profonda della vita voluttuaria e insieme una certa inclinazione byroniana al romanticismo fantastico. Lo stesso suo matrimonio era avvenuto in circostanze quasi tragiche, dopo una furiosa passione. Quindi egli aveva turbata e travagliata in tutti i modi la pace coniugale. Finalmente s’era diviso dalla moglie ed aveva sempre tenuto seco il figliuolo, viaggiando con lui per tutta l’Europa.

L’educazione d’Andrea era dunque, per così dire, viva, cioè fatta non tanto su i libri quanto in conspetto delle realità umane. Lo spirito di lui non era soltanto corrotto dall’alta cultura ma anche dall’esperimento; e in lui la curiosità diveniva più acuta come più si allargava la conoscenza. Fin dal principio egli fu prodigo di sè; poichè la grande forza sensitiva, ond’egli era dotato, non si stancava mai di fornire tesori alle sue prodigalità. Ma l’espansion di quella sua forza era la distruzione in lui di un’altra forza, della forza morale che il padre stesso non aveva ritegno a deprimere. Ed egli non si accorgeva che la sua vita era la riduzion progressiva delle sue facoltà, delle sue speranze, del suo piacere, quasi una progressiva rinunzia; e che il circolo gli si restringeva sempre più d’intorno, inesorabilmente se ben con lentezza.

Il padre gli aveva dato, tra le altre, questa massima fondamentale: “Bisogna fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte. Bisogna che la vita d’un uomo d’intelletto sia opera di lui. La superiorità vera è tutta qui.„

Anche, il padre ammoniva: “Bisogna conservare ad ogni costo intiera la libertà, fin nell’ebrezza. La regola dell’uomo d’intelletto, eccola: ― Habere, non haberi.„

Anche, diceva: “Il rimpianto è il vano pascolo d’uno spirito disoccupato. Bisogna sopra tutto evitare il rimpianto occupando sempre lo spirito con nuove sensazioni e con nuove imaginazioni.„

Ma queste massime volontarie, che per l’ambiguità loro potevano anche essere interpretate come alti criterii morali, cadevano appunto in una natura involontaria, in un uomo, cioè, la cui potenza volitiva era debolissima.

Un altro seme paterno aveva perfidamente fruttificato nell’animo di Andrea: il seme del sofisma. “Il sofisma„ diceva quell’incauto educatore “è in fondo ad ogni piacere e ad ogni dolore umano. Acuire e moltiplicare i sofismi equivale dunque ad acuire e moltiplicare il proprio piacere o il proprio dolore. Forse, la scienza della vita sta nell’oscurare la verità. La parola è una cosa profonda, in cui per l’uomo d’intelletto son nascoste inesauribili ricchezze. I Greci, artefici della parola, sono in fatti i più squisiti goditori dell’antichità. I sofismi fioriscono in maggior numero al secolo di Pericle, al secolo gaudioso.„

Un tal seme trovò nell’ingegno malsano del giovine un terreno propizio. A poco a poco, in Andrea la menzogna non tanto verso li altri quanto verso sè stesso divenne un abito così aderente alla conscienza ch’egli giunse a non poter mai essere interamente sincero e a non poter mai riprendere su sè stesso il libero dominio.

Dopo la morte immatura del padre, egli si trovò solo, a ventun anno, signore d’una fortuna considerevole, distaccato dalla madre, in balìa delle sue passioni e de’ suoi gusti. Rimase quindici mesi in Inghilterra. La madre passò in seconde nozze, con un amante antico. Ed egli venne a Roma, per predilezione.


Roma era il suo grande amore: non la Roma dei Cesari ma la Roma dei Papi; non la Roma degli Archi, delle Terme, dei Fòri, ma la Roma delle Ville, delle Fontane, delle Chiese. Egli avrebbe dato tutto il Colosseo per la Villa Medici, il Campo Vaccino per la Piazza di Spagna, l’Arco di Tito per la Fontanella delle Tartarughe. La magnificenza principesca dei Colonna, dei Doria, dei Barberini l’attraeva assai più della ruinata grandiosità imperiale. E il suo gran sogno era di possedere un palazzo incoronato da Michelangelo e istoriato dai Caracci, come quello Farnese; una galleria piena di Raffaelli, di Tiziani, di Domenichini, come quella Borghese; una villa, come quella d’Alessandro Albani, dove i bussi profondi, il granito rosso d’Oriente, il marmo bianco di Luni, le statue della Grecia, le pitture del Rinascimento, le memorie stesse del luogo componessero un incanto in torno a un qualche suo superbo amore. In casa della marchesa d’Ateleta sua cugina, sopra un albo di confessioni mondane, accanto alla domanda “Che vorreste voi essere?„ egli aveva scritto “Principe romano.„

IL DANDY
Il dandismo consiste in un'ostentazione di eleganza dei modi e nel vestire, caratterizzato da forme di individualismo esasperato, di ironico distacco dalla realtà e di rifiuto nei confronti della mediocrità borghese. Si diffuse in particolare durante il Decadentismo.
Col suo stile di vita, il suo atteggiamento e il suo modo di presentarsi, che va oltre la mera esibizione di eleganza nel vestiario, il dandy intende definire in modo inequivocabile i tratti che lo distinguono da una massa che disprezza e di cui rifiuta i principi egalitari.
L'eleganza è considerata fondamentale per conferire superiorità aristocratica e intellettuale alla persona e si unisce a una forma di tensione eroica, che ha come sfondo il mondo decadente della città moderna.
Se si considera il caso di Baudelaire, la figura del dandy subisce l'influenza di quella del bohémien.
Con l'affermarsi dell'Estetismo e con l'assolutizzazione del valore della bellezza, secondo i principi del Parnassianesimo (Ars gratia artis), il dandismo trova espressione nelle scelte di stile di Oscar Wilde e Gabriele D'Annunzio: esclusività, raffinatezza.

ESTETISMO
Il principio fondamentale dell'estetismo (ARTE PER ARTE) consiste nel vedere l'arte come rappresentazione di sé stessa, dotata di una vita indipendente e svincolata da ogni condizionamento etico, storico, politico. Nel momento in cui l'arte rinuncia alla fantasia per la realtà, rinuncia a sé stessa.

Il realismo è visto dagli esteti come un totale fallimento nella ricerca della bellezza, ed essi sostengono ancora che le uniche cose belle sono quelle che non riguardano valori oggettivi ma i gusti e la sensibilità estetica di una persona.

È la vita ad imitare l'arte. Uno dei principi fondamentali del credo dannunziano - espresso nel romanzo Il piacere - è: bisogna fare la propria vita come si fa un'opera d'arte.

L'estetismo presenta anche un continuo invito a godere della giovinezza fuggente, un edonismo nuovo in cui l'esaltazione del piacere è morbosamente collegata alla corruzione della decadenza: c'è un forte intreccio tra eros e thanathos. Il vitalismo edonistico è espressione della certezza di una catastrofe incombente.
Lawrence Alma Tadema, Le rose di Eliogabalo, 1888

È il poeta/artista/genio che vuol trasformare la sua vita in opera d'arte, sostituendo alle leggi morali le leggi del bello e andando continuamente alla ricerca di piaceri raffinati, effimeri, impossibili per una persona comune anche attraverso l'utilizzo di alcool e droghe. L'esteta ha infatti orrore della vita comune, dei ceti inferiori, della volgarità borghese, di una società dominata dall'interesse materiale e dal profitto, e si isola in una Torre d'avorio, in una sdegnosa solitudine circondato solo da arte e bellezza.

I modelli europei sono il personaggio dannunziano di Andrea Sperelli; Dorian Gray, creato dalla fantasia di Oscar Wilde; Des Esseintes, protagonista di A rebours di Karl Huysmans.

***
da Le vergini delle rocce (1895)
IL PROGRAMMA POLITICO DEL SUPERUOMO
Il passo riportato appartiene alla prima sezione del romanzo e riporta le riflessioni del protagonista, Claudio Cantelmo, sulla società presente e sul compito delle élite aristocratiche e intellettuali, che Cantelmo vorrebbe impegnate in un comune sforzo volto ad abbattere il volgare trionfo della cultura borghese.


Non si può avere maggior
signoria che quella di sé medesimo.
LEONARDO DA VINCI

E se tu sarai solo, tu sarai
tutto tuo.
LO STESSO.

L'arroganza delle plebi non era tanto grande quanto la viltà di coloro che la tolleravano o la secondavano. Vivendo in Roma, io ero testimonio delle più ignominose violazioni e dei più osceni connubii che mai abbiano disonorato un luogo sacro. Come nel chiuso di una foresta infame, i malfattori si adunavano entro la cerchia fatale della città divina dove pareva non potesse novellamente levarsi tra gli smisurati fantasmi dell'imperio se non una qualche magnifica dominazione armata d'un pensiero più fulgido di tutte le memorie. Come un rigurgito di cloache l'onda della basse cupidigie invadeva le piazze e i trivii, sempre più putrida e più gonfia, senza che mai l'attraversasse la fiamma di un'ambizione perversa ma titanica, senza che mai vi scoppiasse almeno il lampo d'un bel delitto. La cupola solitaria nella sua lontananza transtiberina, abitata da un'anima senile ma ferma nella sua consapevolezza de' suoi scopi, era pur sempre il massimo segno, contrapposta a un'altra dimora inutilmente eccelsa dove un Re di stirpe guerriera dava esempio mirabile di pazienza adempiendo l'officio umile e stucchevole, assegnatogli per decreto fatto dalla plebe.
Una sera di settembre, su quell'acropoli quirina custodita dai Tindaridi gemelli, 

mentre una folla compatta commemorava con urli bestiali una conquista di cui non conosceva l'immensità spaventosa (Roma era terribile come un cratere, sotto una muta conflagrazione di nubi), io pensai: "Qual sogno potrebbero esaltare nel gran cuore d'un Re questi incendii del cielo latino! Tale che sotto il suo peso i cavalli giganteschi di Prassitele si piegherebbero come festuche... Ah chi saprà mai abbracciare e fecondare la Madre col suo pensiero oltrapossente? A lei sola - al suo grembo di sasso che fu nei secoli l'origliere della Morte - a lei sola è dato generar tanta vita che se ne impregni il mondo un'altra volta."
E io vedevo, nella mia imaginazione, dietro le vetrate fiammeggianti del balcone regale, una fronte pallida e contratta su cui, come su quella del Còrso,
era inciso il segno d'un destino sovrumano. [...]
Di tal colore erano i pensieri che mi suscitava l'aspetto di un luogo il qual fu - secondo il verbo di Dante - dalla stessa natura disposto all'universale imperio: ad universaliter principandum. E, mentre mi tornavano alla memoria gli argomenti danteschi a dimostrare il buon diritto della dominazione romana, occupava la cima del mio intelletto quella sentenza che nella sua forma esatta e rigida i popoli latini, se volenterosi di rinascere, dovrebbero adottare a norma dei loro istituti di vita: MAXIME NOBILI, MAXIME PRAEESSE CONVENIT; al massime nobile si conviene massime essere preposto.
E io pensava, accompagnato dal grande e tirannico spirito : “ O venerando padre di nostro eloquio, tu avevi fede nella necessità delle gerarchie e delle differenze tra gli uomini; tu credevi alla superiorità della virtù trasferita per ragione ereditaria nel sangue; fermamente credevi a una virtù di stirpe la qual potesse per gradi, d'elezione in elezione, elevar l'uomo al più alto splendore di sua bellezza morale” . (…)

Chiedevano intanto i poeti, scoraggiati e smarriti, dopo aver esausta la dovizia delle rime nell'evocare imagini d'altri tempi, nel piangere le loro illusioni morte e nel numerare i colori delle foglie caduche; chiedevano, alcuni con ironia, altri pur senza: "Qual può essere oggi il nostro officio? Dobbiamo noi esaltare in senarii doppii il suffragio universale? Dobbiamo noi affrettar con l'ansia dei decasillabi la caduta dei Re, l'avvento delle Repubbliche, l'accesso delle plebi al potere? (…)
Ma nessuno tra loro, più generoso e più ardente, si levava a rispondere: "Difendete la Bellezza! È questo il vostro unico officio. Difendete il sogno che è in voi! Poiché oggi non più i mortali tributano onore e riverenza ai cantori alunni della Musa che li predilige, come diceva Odisseo, difendetevi con tutte le armi, e pur con le beffe se queste valgano meglio delle invettive. Attendete ad inacerbire con i più acri veleni le punte del vostro scherno. Fate che i vostri sarcasmi abbiano tal virtù corrosiva che giungano sino alla midolla e la distruggano. Bollate voi sino all'osso le stupide fronti di coloro che vorrebbero mettere su ciascuna anima un marchio esatto come su un utensile sociale e fare le teste umane tutte simili come le teste dei chiodi sotto la percussione dei chiodaiuoli. Le vostre risa frenetiche salgano fino al cielo, quando udite gli stallieri della Gran Bestia vociferare nell'assemblea. Proclamate e dimostrate per la gloria dell'Intelligenza che le loro dicerie non sono men basse di quei suoni sconci con cui il villano manda fuori per la bocca il vento dal suo stomaco rimpinzato di legumi. Proclamate e dimostrate che le loro mani, a cui il vostro padre Dante darebbe l'epiteto medesimo ch'egli diede alle unghie di Taide, sono atte a raccattar lo stabbio ma non degne di levarsi per sancire una legge nell'assemblea. Difendete il Pensiero ch'essi minacciano, la Bellezza ch'essi oltraggiano! Verrà un giorno in cui essi tenteranno di ardere i libri, di spezzare le statue, di lacerare le tele. Difendete l'antica liberale opera dei vostri maestri e quella futura dei vostri discepoli, contro la rabbia degli schiavi ubriachi. Non disperate, essendo pochi. Voi possedete la suprema scienza e la suprema forza del mondo: il Verbo. Un ordine di parole può vincere d'efficacia micidiale una formula chimica. Opponete risolutamente la distruzione alla distruzione!"
E i patrizii, spogliati d'autorità in nome dell'uguaglianza, considerati come ombre d'un mondo scomparso per sempre, infedeli i più alla loro stirpe e ignari o immemori delle arti di dominio professate dai loro avi, anche chiedevano: "Qual può essere oggi il nostro officio? Dobbiamo noi ingannare il tempo e noi stessi cercando di alimentare tra le memorie appassite qualche gracile speranza, sotto le volte istoriate di sanguigna mitologia, troppo ampie pel nostro diminuito respiro? O dobbiamo noi riconoscere il gran dogma dell'Ottantanove aprire i portici dei nostri cortili all'aura popolare, coronar di lumi i nostri balconi di travertino nelle feste dello Stato, diventar soci dei banchieri ebrei, esercitar la nostra piccola parte di sovranità riempiendo la scheda del vóto coi nomi dei nostri mezzani, dei nostri sarti, dei nostri cappellai, dei nostri calzolai, dei nostri usurai e dei nostri avvocati?"
Qualcuno tra loro - mal disposto alle rinunzie pacifiche, ai tedii eleganti e alle sterili ironie - rispondeva: "Disciplinate voi stessi come i vostri cavalli da corsa, aspettando l'evento. Apprendete il metodo per affermare e afforzare la vostra persona come avete appreso quello per vincere nell'ippòdromo. Costringete con la vostra volontà alla linea retta e allo scopo fermo tutte le vostre energie, e pur le vostre passioni più tumultuose e i vostri vizii più torbidi. Siate convinti che l'essenza della persona supera in valore tutti gli attributi accessorii e che la sovranità interiore è il principal segno dell'aristòcrate. Non credete se non nella forza temprata dalla lunga disciplina. La forza è la prima legge della natura, indistruttibile, inabolibile. La disciplina è la superior virtù dell'uomo libero. Il mondo non può essere constituito se non su la forza, tanto nei secoli di civiltà quanto nelle epoche di barbarie. Se fossero distrutte da un altro diluvio deucalionico tutte le razze terrestri e sorgessero nuove generazioni dalle pietre,come nell'antica favola, gli uomini si batterebbero tra loro appena espressi dalla Terra generatrice, finché uno, il più valido, non riuscisse ad imperar su gli altri. Aspettate dunque e preparate l'evento. Per fortuna lo Stato eretto su le basi del suffragio popolare e dell'uguaglianza, cementato dalla paura, non è soltanto una costruzione ignobile ma è anche precaria. Lo Stato non deve essere se non un istituto perfettamente adatto a favorire la graduale elevazione d'una classe privilegiata verso un'ideal forma di esistenza. Su l'uguaglianza economica e politica, a cui aspira la democrazia, voi andrete dunque formando una oligarchia nuova, un nuovo reame della forza; e riuscirete in pochi, o prima o poi, a riprendere le redini per domar le moltitudini a vostro profitto. Non vi sarà troppo difficile, in vero, ricondurre il gregge all'obedienza. Le plebi restano sempre schiave, avendo un nativo bisogno di tendere i polsi ai vincoli. Esse non avranno dentro di loro giammai, fino al termine dei secoli, il sentimento della libertà. 
(G. D’Annunzio, Le vergini delle rocce)