La scuola di Atene

La scuola di Atene

mercoledì 14 settembre 2016

ARIOSTO

Punto di partenza: l'Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo
http://letteritaliana.weebly.com/il-duello-di-orlando-e-agricane.html

Il difficile rapporto con il potere.
http://rossa.palumbomultimedia.com/?cmd=cerca

Lettera dalla Garfagnana
Illustrissimo et excellentissimo Signore mio.
Se Vostra Excellenzia non mi aiuta a difendere l’onor de l’officio, io per me non ho la forza di farlo; ché se bene io condanno e minaccio quelli che mi disubidiscano, e poi Vostra Excellenzia li assolva, o determini in modo che mostri di dar più lor ragion che a me, essa viene a dar aiuto a deprimere l’autorità del magistro.
Serìa meglio che s’io non ci sono idoneo, a mandare uno che fosse più al proposito (...).
Se tale ignominie si facessino a me solo, non ne farei parola, perché Vostra Excellenzia mi può trattare come suo servo; ma redundando tali incarichi più ne l’onor de l’officio, e sussequentemente a far le persone con chi ho da praticare più insolenti verso li lor governi, non mi par di tolerarlo senza dolermine a Vostra Signoria. (...)
Se appresso all’insolenzie che per tutto il paese fanno questi di Simon prete, come Vostra Excellenzia ne debbe saper qualche cosa (che già non è mancato per me di darne aviso), et al tenere di continuo banditi ne le rocche appresso a Bernardello, ancora Vostra Excellenzia vol comportare che non rendano ubidienzia al Commissario, prego quella che mandi qui uno in mio luogo che abbia miglior stomaco di me a patire queste ingiurie, ché a me non basta la pazienzia a tolerarle. (...)
Ma dove importa tanto smaccamento de l’onor mio, io vo’ gridare e farne instanzia, e pregare e suplicare Vostra Excellenzia che più presto mi chiami a Ferrara, che lasciarmi qui con vergogna: in buona grazia de la quale mi raccomando.
http://www.p4lmedia.net/pdf/lup_rossa/v1/PDF/Parte_V/OnLine_NeRossa_T_029_vol_2.pdf



Satira I
A Messer Alessandro Ariosto et a Messer Ludovico da Bagno.
Io desidero intendere da voi,
Alessandro fratel, compar mio Bagno,
s’in corte è ricordanza più di noi;

se più il signor me accusa; se compagno
per me si lieva e dice la cagione
per che, partendo gli altri, io qui rimagno;

o, tutti dotti ne la adulazione
(l’arte che più tra noi si studia e cole),
l’aiutate a biasmarme oltra ragione.

Pazzo chi al suo signor contradir vole,
se ben dicesse c’ha veduto il giorno
pieno di stelle e a mezzanotte il sole.
(...)
Ma se in altro biasmarme, almen dar laude
dovete che, volendo io rimanere,
lo dissi a viso aperto e non con fraude.

Dissi molte ragioni, e tutte vere,
de le quali per sé sola ciascuna
esser mi dovea degna di tenere.

Prima la vita, a cui poche o nessuna
cosa ho da preferir, che far più breve
non voglio che ’l ciel voglia o la Fortuna.

https://it.wikisource.org/wiki/Satire_(Ariosto)/Satira_I

Satira III (37-48)
A Messer Annibale Malagucio
Mal può durar il rosignuolo in gabbia,
più vi sta il gardelino, e più il fanello;
la rondine in un dì vi mor di rabbia.

Chi brama onor di sprone o di capello,
serva re, duca, cardinale o papa;
io no, che poco curo questo e quello.

In casa mia mi sa meglio una rapa
ch’io cuoca, e cotta s’un stecco me inforco
e mondo, e spargo poi di acetto e sapa,

che all’altrui mensa tordo, starna o porco
selvaggio; e così sotto una vil coltre,
come di seta o d’oro, ben mi corco.
(ParafrasiL'usignolo sta male in gabbia, ci sta meglio il cardellino e più ancora il fanello; la rondine vi muore di rabbia in un giorno.
Chi desidera l'onore nobiliare o ecclesiastico, serva pure re, duchi, cardinali o papi; io no, infatti mi curo poco dell'uno e dell'altro.
Preferisco una rapa cotta in casa mia, infilzata su uno stecco e pulita, e poi cosparsa di aceto e mosto, piuttosto che tordi, starne o cinghiali alla mensa altrui; e mi corico altrettanto bene sotto una povera coperta, come se fosse di seta o d'oro).



La critica: testi tratti da E. Raimondi, "Leggere come io l'intendo"






GIULIO FERRONI PRESENTA L'ORLANDO FURIOSO
http://www.letteratura.rai.it/articoli/giulio-ferroni-e-la-prima-edizione-dellorlando-furioso/33046/default.aspx

Ariosto e Virgilio.
L'episodio di Eurialo e Niso e quello di Cloridano e Medoro: imitazione e variazione del modello virgiliano nell'Orlando furioso.
http://online.scuola.zanichelli.it/candidisoles-files/testi/6393_Candidi-Soles_Virgilio_Testo-04.pdf

Orlando furioso
Canto XVIII
[165]

Duo Mori ivi fra gli altri si trovaro,
     D’oscura stirpe nati in Tolomitta;
     De’ quai l’istoria, per esempio raro
     Di vero amore, è degna esser descritta.
     Cloridano e Medor si nominaro,
     Ch’alla fortuna prospera e alla afflitta
     Aveano sempre amato Dardinello,
     Ed or passato in Francia il mar con quello.
     
[166]

Cloridan, cacciator tutta sua vita,
     Di robusta persona era ed isnella:
     Medoro avea la guancia colorita
     E bianca e grata ne la età novella;
     E fra la gente a quella impresa uscita
     Non era faccia più gioconda e bella:
     Occhi avea neri, e chioma crespa d’oro:
     Angel parea di quei del sommo coro.
     
(…)
     
[168]

Volto al cornpagno, disse: — O Cloridano,
     Io non ti posso dir quanto m’incresca
     Del mio signor, che sia rimaso al piano,
     Per lupi e corbi, ohimé! troppo degna esca.
     Pensando come sempre mi fu umano,
     Mi par che quando ancor questa anima esca
     In onor di sua fama, io non compensi
     Né sciolga verso lui gli oblighi immensi.
     
[169]

Io voglio andar, perché non stia insepulto
     In mezzo alla campagna, a ritrovarlo:
(…)
     
[170]

Stupisce Cloridan, che tanto core,
     Tanto amor, tanta fede abbia un fanciullo:
     E cerca assai, perché gli porta amore,
     Di fargli quel pensiero irrito e nullo;
     Ma non gli val, perch’un sì gran dolore
     Non riceve conforto né trastullo.
     Medoro era disposto o di morire,
     O ne la tomba il suo signor coprire.
     
[171]

Veduto che nol piega e che nol muove,
     Cloridan gli risponde: — E verrò anch’io,
     Anch’io vuo’ pormi a sì lodevol pruove,
     Anch’io famosa morte amo e disio.
     Qual cosa sarà mai che più mi giove,
     S’io resto senza te, Medoro mio?
     Morir teco con l’arme è meglio molto,
     Che poi di duol, s’avvien che mi sii tolto. —
     
(…)
     
[183]

Quivi dei corpi l’orrida mistura,
     Che piena avea la gran campagna intorno,
     Potea far vaneggiar la fedel cura
     Dei duo compagni insino al far del giorno,
     Se non traea fuor d’una nube oscura,
     A’ prieghi di Medor, la Luna il corno.
     Medoro in ciel divotamente fisse
     Verso la Luna gli occhi, e così disse:
     
[184]

— O santa dea, che dagli antiqui nostri
     Debitamente sei detta triforme;
     Ch’in cielo, in terra e ne l’inferno mostri
     L’alta bellezza tua sotto più forme,
     E ne le selve, di fere e di mostri
     Vai cacciatrice seguitando l’orme;
     Mostrami ove ’l mio re giaccia fra tanti,
     Che vivendo imitò tuoi studi santi. —
     
[185]

La luna a quel pregar la nube aperse
     (o fosse caso o pur la tanta fede),
     Bella come fu allor ch’ella s’offerse,
     E nuda in braccio a Endimion si diede.
     Con Parigi a quel lume si scoperse
     L’un campo e l’altro; e ’l monte e ’l pian si vede:
     Si videro i duo colli di lontano,
     Martire a destra, e Lerì all’altra mano,
     
187

(…)     Fu il morto re sugli omeri sospeso
     Di tramendui, tra lor partendo il peso.
     
 [188]

Vanno affrettando i passi quanto ponno,
     Sotto l’amata soma che gl’ingombra.
     E già venìa chi de la luce è donno
     Le stelle a tor del ciel, di terra l’ombra;
     Quando Zerbino, a cui del petto il sonno
     L’alta virtude, ove è bisogno, sgombra,
     Cacciato avendo tutta notte i Mori,
     Al campo si traea nei primi albori.
     
[189]

E seco alquanti cavallieri avea,
     Che videro da lunge i dui compagni.
     Ciascuno a quella parte si traea,
     Sperandovi trovar prede e guadagni.
     — Frate, bisogna (Cloridan dicea)
     Gittar la soma, e dare opra ai calcagni;
     Che sarebbe pensier non troppo accorto,
     Perder duo vivi per salvar un morto. —
     
[190]

E gittò il carco, perché si pensava
     Che ’l suo Medoro il simil far dovesse:
     Ma quel meschin, che ’l suo signor più amava,
     Sopra le spalle sue tutto lo resse.
     L’altro con molta fretta se n’andava,
     Come l’amico a paro o dietro avesse:
     Se sapea di lasciarlo a quella sorte,
     Mille aspettate avria, non ch’una morte.
     
(…)
     
[192]

Era a quel tempo ivi una selva antica,
     D’ombrose piante spessa e di virgulti,
     Che, come labirinto, entro s’intrica
     Di stretti calli e sol da bestie culti.
     Speran d’averla i duo pagan sì amica,
     Ch’abbi a tenerli entro a’ suoi rami occulti.
     Ma chi del canto mio piglia diletto,
     Un’altra volta ad ascoltarlo aspetto.

Canto XIX
2
(…)     Ma torniamo a Medor fedele e grato,
     Che ’n vita e in morte ha il suo signore amato.

 [3]
Cercando già nel più intricato calle
     Il giovine infelice di salvarsi;
     Ma il grave peso ch’avea su le spalle,
     Gli facea uscir tutti i partiti scarsi.
     Non conosce il paese, e la via falle,
     E torna fra le spine a invilupparsi.
     Lungi da lui tratto al sicuro s’era
     L’altro, ch’avea la spalla più leggiera.

 [4]
Cloridan s’è ridutto ove non sente
     Di chi segue lo strepito e il rumore:
     Ma quando da Medor si vede assente,
     Gli pare aver lasciato a dietro il core.
     — Deh, come fui (dicea) sì negligente,
     Deh, come fui sì di me stesso fuore,
     Che senza te, Medor, qui mi ritrassi,
     Né sappia quando o dove io ti lasciassi! —

 [5]
Così dicendo, ne la torta via
     De l’intricata selva si ricaccia;
     Ed onde era venuto si ravvia,
     E torna di sua morte in su la traccia.
     Ode i cavalli e i gridi tuttavia,
     E la nimica voce che minaccia:
     All’ ultimo ode il suo Medoro, e vede
     Che tra molti a cavallo è solo a piede.

 [6]
Cento a cavallo, e gli son tutti intorno:
     Zerbin commanda e grida che sia preso.
     L’infelice s’aggira com’un torno,
     E quanto può si tien da lor difeso,
     Or dietro quercia, or olmo, or faggio, or orno,
     Né si discosta mai dal caro peso.
     L’ha riposato al fin su l’erba, quando
     Regger nol puote, e gli va intorno errando:

 (…)

 [8]
Cloridan, che non sa come l’aiuti,
     E ch’esser vuole a morir seco ancora,
     Ma non ch’in morte prima il viver muti,
     Che via non truovi ove più d’un ne mora;
     Mette su l’arco un de’ suoi strali acuti,
     E nascoso con quel sì ben lavora,
     Che fora ad uno Scotto le cervella,
     E senza vita il fa cader di sella.

 [9]
Volgonsi tutti gli altri a quella banda
     Ond’era uscito il calamo omicida.
     Intanto un altro il Saracin ne manda,
     Perché ’l secondo a lato al primo uccida;
     Che mentre in fretta a questo e a quel domanda
     Chi tirato abbia l’arco, e forte grida,
     Lo strale arriva e gli passa la gola,
     E gli taglia pel mezzo la parola.

 [10]
Or Zerbin, ch’era il capitano loro,
     Non poté a questo aver più pazienza.
     Con ira e con furor venne a Medoro,
     Dicendo: — Ne farai tu penitenza. —
     Stese la mano in quella chioma d’oro,
     E strascinollo a sé con violenza:
     Ma come gli occhi a quel bel volto mise,
     Gli ne venne pietade, e non l’uccise.

 [11]
Il giovinetto si rivolse a’ prieghi,
     E disse: — Cavallier, per lo tuo Dio,
     Non esser sì crudel, che tu mi nieghi
     Ch’io sepelisca il corpo del re mio.
     Non vo’ ch’altra pietà per me ti pieghi,
     Né pensi che di vita abbi disio:
     Ho tanta di mia vita, e non più, cura,
     Quanta ch’al mio signor dia sepultura.

 [12]
(…)
     E sì commosso già Zerbino avea,
     Che d’amor tutto e di pietade ardea.

 [13]
In questo mezzo un cavallier villano,
     Avendo al suo signor poco rispetto,
     Ferì con una lancia sopra mano
     Al supplicante il delicato petto.
     Spiacque a Zerbin l’atto crudele e strano;
     Tanto più, che del colpo il giovinetto
     Vide cader sì sbigottito e smorto,
     Che ’n tutto giudicò che fosse morto.

 [14]
E se ne sdegnò in guisa e se ne dolse,
     Che disse: — Invendicato già non fia! —
     E pien di mal talento si rivolse
     Al cavallier che fe’ l’impresa ria:
     Ma quel prese vantaggio, e se gli tolse
     Dinanzi in un momento, e fuggì via.
     Cloridan, che Medor vede per terra,
     Salta del bosco a discoperta guerra.

 [15]
E getta l’arco, e tutto pien di rabbia
     Tra gli nimici il ferro intorno gira,
     Più per morir, che per pensier ch’egli abbia
     Di far vendetta che pareggi l’ira.
     Del proprio sangue rosseggiar la sabbia
     Fra tante spade, e al fin venir si mira;
     E tolto che si sente ogni potere,
     Si lascia a canto al suo Medor cadere.


[16]
Seguon gli Scotti ove la guida loro
     Per l’alta selva alto disdegno mena,
     Poi che lasciato ha l’uno e l’altro Moro,
     L’un morto in tutto, e l’altro vivo a pena.
     Giacque gran pezzo il giovine Medoro,
     Spicciando il sangue da sì larga vena,
     Che di sua vita al fin saria venuto,
     Se non sopravenia chi gli diè aiuto.




RONCONI: LA FOLLIA DI ORLANDO



ERASMO DA ROTTERDAM, ELOGIO DELLA FOLLIA 

28 – Se qualcuno riuscisse a strappare a un attore la maschera e a rivelarne le vere sembianze al pubblico non guasterebbe, forse, l’intero spettacolo? Meriterebbe di essere preso per pazzo e cacciato via dal palco a sassate. La scena, infatti, cambierebbe completamente aspetto: chi vestiva i panni della donna è un uomo, chi del giovane è un vecchio, al posto del re c’è solo un mascalzone e un uomo qualsiasi dietro la maschera del sommo Giove.
Anche la vita dell’uomo è una commedia. Ognuno ha la sua parte in cui veste i panni di qualcuno che non è lui. (…) Sì, tutto è finzione, anche nella grande commedia umana.
E se la passa male chi non si adegua alle circostanze, non si cura delle tendenze del mercato (…), insomma, chi non sta alle regole del gioco. Il vero saggio si adegua di buon grado al comportamento altrui, magari anche solo per cortesia e fa cose che per sua scelta non riterrebbe di fare. Non è pazzia questa?
(…) Si provino a contrariarmi se affermo che questo significa semplicemente recitare la propria parte nella commedia della vita!

29 – La differenza tra un pazzo e una saggio sta nel fatto che il primo obbedisce alle passioni, il secondo alla ragione. Perciò gli Stoici affermano che il saggio rifugge la passione come se fosse una malattia e Seneca, lo stoico per eccellenza, sostiene che il saggio è alieno dalle passioni. Con questa sua affermazione egli snatura l’uomo e lo trasforma in una sorta di divinità che l’uomo non è mai stato e non sarà mai. O, per usare un’espressione più semplice, fa di lui una statua di marmo, ottusa, priva di ogni umano sentire. Nessuno gli impedisce di pensarla in questo modo. Si goda, dunque, i suoi mostri di saggezza e si ritiri a vivere con loro nella città di Platone, nel regno delle idee (…). Chiunque fuggirebbe terrorizzato davanti a un uomo simile, come si fugge davanti a un mostro o a un fantasma. Nessun sentimento naturale può muoverlo a compassione; non sa cosa siano le passioni, l’amore, la pietà.

34 - Perciò i più lontani dalla felicità sono tra i mortali quelli che aspirano alla sapienza, doppiamente stolti perché, dimentichi della loro condizione di uomini, si atteggiano a Dèi immortali e, a somiglianza dei giganti, dichiarano guerra alla natura valendosi di ordigni costruiti dalla loro perizia; i meno infelici, invece, sembrano quelli che restano più vicini all'istinto e alla stupidità dei bruti, né tentano mai di oltrepassare le capacità dell'uomo. Proverò anche a dimostrarlo, e non con gli entimèmi degli stoici, ma con qualche esempio alla portata di tutti. Per gli Dèi immortali, vi è forse al mondo qualcosa di più felice di quella specie di uomini chiamati volgarmente scimuniti, stolti, fatui, sciocchi? Appellativi, a mio parere, onorevolissimi. Dirò anzi una cosa che, se a prima vista può sembrare una sciocchezza ed un'assurdità, in fondo è di una verità indiscutibile.
Loro, innanzitutto, non hanno paura della morte, male, per Giove, non trascurabile. Non li tormentano rimorsi di coscienza; non li turbano le storie degli spiriti dei defunti; non hanno paura delle apparizioni; non si crucciano per il timore di mali incombenti; non entrano in ansia nella speranza di beni futuri. Insomma, non sono in balìa dei mille affanni a cui è esposta la nostra vita. Ignorano la vergogna, il timore, l'ambizione, l'invidia, l'amore. Infine, chi più si avvicina alla stupidità dei bruti - ne sono garanti i teologi - è anche immune dal peccato.
Ed ora, mio sciocchissimo saggio, vorrei che tu mi esternassi tutti gli affanni che notte e giorno tormentano il tuo animo e facessi un bel mucchio di tutti i tuoi guai; alla fine capiresti quanto gravi mali ho risparmiato ai miei folli. Aggiungi che, non solo vivono in perpetua letizia, scherzando, canterellando, ridendo, ma offrono anche a tutti gli altri, dovunque vadano, motivi di piacere, scherzo, divertimento e riso, come se la benevolenza divina proprio a questo li avesse votati: a rallegrare la tristezza della vita umana. Perciò, mentre gli uomini provano, caso per caso, sentimenti diversi verso i loro simili, nei confronti di questi pazzi nutrono senza eccezione sentimenti amichevoli: li vanno a cercare, li nutrono, li stringono in una sorta di caldo abbraccio e, all'occorrenza, li soccorrono, non tenendo in nessun conto quanto possono dire o fare. Nessuno desidera fargli del male. Persino le bestie feroci li risparmiano, istintivamente consapevoli della loro innocenza. Infatti sono davvero sacri agli Dèi, e a me in particolare. Perciò, a buon diritto, sono da tutti onorati. 

66 – E per finire vorrei tornare ancora un momento a san Paolo. Facendo riferimento a se stesso egli afferma: "prendetemi tra voi come un pazzo, io non parlo secondo Dio, ma come se fossi un folle, siamo folli per volontà di Cristo". Ecco che un autore del suo rango elogia apertamente la pazzia! Non solo, egli la definisce un bene necessario e assolutamente indispensabile: chi fra di voi crede di essere saggio diventi stolto. Solo così acquisterà la vera salvezza.(…).
Cristo detesta i saggi che si affidano totalmente al loro ingegno. San Paolo lo dimostra con evidenza quando afferma: "ciò che agli occhi del mondo è pazzia, l’ha voluto Dio; e Dio ha voluto salvare il mondo con la pazzia" e non con la saggezza.
E Cristo ringrazia il Padre per aver celato ai sapienti il mistero della salvezza, rivelandolo, invece ai fanciulli (in lingua originale la parola è νήπιοι , “infanti”, cioè “senza parola”, “sprovveduti”, in opposizione a σοφοί “sapienti”: è, dunque, lo stesso che dire agli stolti). (…).
Persino tra gli animali Egli preferisce quelli che più si discostano dalla furbizia della volpe. (…) Lo Spirito Santo scese sottoforma di colomba, non di aquila o di sparviero. (….). Coloro che seguiranno Gesù nell’eternità sono chiamati “pecorelle”. Ebbene, ditemi se c’è un animale più stupido della pecora! (…). Cristo non si vergogna (…), si compiace addirittura di farsi chiamare“l’agnello di Dio”.
Ma tutto questo che cosa significa, se non che gli uomini, tutti quanti, anche i più pii,  sono dei folli? Cristo stesso, benché avesse in sé la sapienza del Padre, per venire incontro alla stoltezza degli uomini assunse la natura umana e si fece uomo, e, dunque, a sua volta folle. Allo stesso modo egli assunse su di sé il peccato per redimere il peccato degli uomini. Egli salvò l’umanità con la follia della croce. (…).
Dio, creatore del mondo, proibisce ad Adamo di assaggiare i frutti dell’albero della scienza, come se la scienza fosse un veleno per l’umanità. San Paolo ribadisce che il sapere rende superbi, perciò è dannoso. (…).
Ma la prova più convincente ci è fornita dalle parole che Cristo pronuncia sulla croce, quando prega per i suoi nemici: “Padre perdona loro, perché non sanno quello che fanno”. Essi trovano giustificazione nell’ignoranza.

68 – (…) Colui che ama profondamente non vive più per sé, ma per l’amato. E quanto più si allontana da sé per darsi all’altro, tanto più grande è la sua gioia. (…). Quanto più forte è l’amore, tanto più grande e beata è la pazzia.


I. CALVINO, LA SFIDA AL LABIRINTO

Resta fuori chi crede di poter vincere i labirinti sfuggendo alle loro difficoltà: ed è dunque una richiesta poco pertinente quella che si fa alla letteratura, dato un labirinto, di fornire essa stessa la chiave per uscirne. Quel che la letteratura può fare è definire l’atteggiamento migliore per trovare la via d’uscita, anche se questa via d’uscita non sarà altro che il passaggio da un labirinto all’altro. È la sfida al labirinto che vogliamo salvare, è una letteratura della sfida al labirinto che vogliamo enucleare e distinguere dalla letteratura della resa al labirinto.
(I. Calvino, La sfida al labirinto, in "Il Menabò", 5, 1962; poi in Una pietra sopra. Discorsi di lettertura e società, 1980)