La scuola di Atene

La scuola di Atene

giovedì 6 luglio 2017

Che cos'è la letteratura



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Adesso vi prego di non pensare che io voglia farvi una lezione sulla compassione o la sincerità o altre cosiddette “virtù”. Il problema non è la virtù.
Il problema è di scegliere di fare il lavoro di adattarsi e affrancarsi dalla configurazione di base, naturale e codificata in noi, che ci fa essere profondamente e letteralmente centrati su noi stessi, e ci fa vedere e interpretare ogni cosa attraverso questa lente del sé. Le persone che riescono ad adattare la loro configurazione di base sono spesso descritti come “ben adattati”, che credo non sia un termine casuale.

Considerando la trionfale cornice accademica in cui siamo, viene spontaneo porsi il problema di quanto di questo lavoro di autoregolazione della nostra configurazione di base coinvolga conoscenze effettive e il nostro stesso intelletto. Questo problema è veramente molto complicato. Probabilmente la più pericolosa conseguenza di un’educazione accademica, almeno nel mio caso, è che ha permesso di svilupparmi verso della roba super-intellettualizzata, di perdermi in argomenti astratti dentro la mia testa e, invece di fare semplicemente attenzione a ciò che mi capita sotto al naso, fare solo attenzione a ciò che capita dentro di me.

Come saprete già da un pezzo, è molto difficile rimanere consapevoli e attenti, invece di lasciarsi ipnotizzare dal monologo costante all’interno della vostra testa (potrebbe anche stare succedendo in questo momento). Vent’anni dopo essermi laureato, sono riuscito lentamente a capire che lo stereotipo dell’educazione umanistica che vi “insegna a pensare” è in realtà solo un modo sintentico per esprimere un’idea molto piu significativa e profonda: “imparare a pensare” vuol dire in effetti imparare a esercitare un qualche controllo su come e cosa pensi. Significa anche essere abbastanza consapevoli e coscienti per scegliere a cosa prestare attenzione e come dare un senso all’esperienza. Perché, se non potrete esercitare questo tipo di scelta nella vostra vita adulta, allora sarete veramente nei guai. Pensate al vecchio luogo comune della “mente come ottimo servitore, ma pessimo padrone”. Questo, come molti luoghi comuni, così inadeguati e poco entusiasmanti in superficie, in realtà esprime una grande e terribile verità. Non a caso gli adulti che si suicidano con armi da fuoco quasi sempre si sparano alla testa. Sparano al loro pessimo padrone. E la verità è che molte di queste persone sono in effetti già morte molto prima di aver premuto il grilletto.


E vi dico anche quale dovrebbe essere l’obiettivo reale su cui si dovrebbe fondare la vostra educazione umanistica: come evitare di passare la vostra confortevole, prosperosa, rispettabile vita adulta, come dei morti, incoscienti, schiavi delle vostre teste e della vostra solita configurazione di base per cui “in ogni momento” siete unicamente, completamente, imperiosamente soli. 
(David Foster Wallace)

https://www.nazioneindiana.com/2008/10/08/kenyon-college-and-me/



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Il mondo, qualunque cosa noi ne pensiamo, spaventati dalla sua immensità e dalla nostra impotenza di fronte a esso, amareggiati dalla sua indifferenza alle sofferenze individuali ( di uomini, animali, e forse piante, perché chi ci dà la certezza che le piante siano esenti dalla sofferenza?), qualunque cosa noi pensiamo dei suoi spazi trapassati dalle radiazioni delle stelle, stelle intorno a cui si sono già cominciati a scoprire pianeti ( già morti? Ancora morti?), qualunque cosa pensiamo di questo smisurato teatro, per cui abbiamo sì il biglietto d’ingresso, ma con una validità ridicolmente breve, limitata dalle due date categoriche, qualunque cosa ancora noi pensassimo di questo mondo – esso è stupefacente.
Ma nella definizione “stupefacente” si cela una sorta di tranello logico. Dopotutto ci stupisce ciò che si discosta da una qualche norma nota e generalmente accettata, da una qualche ovvietà a cui siamo abituati. Ebbene, un simile mondo ovvio non esiste affatto. Il nostro stupore esiste per se stesso e non deriva da nessun paragone con alcunché.
D’accordo, nel parlare comune, che non riflette su ogni parola, tutti usiamo i termini: “mondo normale”, vita normale normale corso delle cose… Tuttavia nel linguaggio della poesia, in cui ogni parola ha un peso, non c’è più nulla di ordinario e normale. Nessuna pietra e nessuna nuvola su di essa. Nessun giorno e nessuna notte che lo segue. E soprattutto nessuna esistenza di nessuno in questo mondo.
A quanto pare i poeti avranno sempre molto da fare.
(Wislawa Szymborska)

https://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2012/02/03/wislawa-szymborska-discorso-tenuto-in-occasione-del-conferimento-del-premio-nobel/



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È evasione il mio amore per Ariosto? No, egli ci insegna come l'intelligenza viva anche, e soprattutto, di fantasia, d'ironia, d'accuratezza formale, come nessuna di questa doti sia fine a se stessa ma come possano entrare a far parte d'una concezione del mondo, possano servire a meglio valutare virtù e vizi umani. 
Tutte lezioni attuali, necessarie oggi, nell'epoca dei cervelli elettronici e dei voli spaziali. È un'energia volta verso l'avvenire, ne sono sicuro, non verso il passato, quella che muove Orlando, Angelica, Bradamante, Astolfo ...
(Italo Calvino, "Tre correnti del romanzo italiano d'oggi" in "Una pietra sopra")



La luna dei poeti ha qualcosa a che fare con le immagini lattiginose e bucherellate che i razzi trasmettono? Forse non ancora; ma il fatto che siamo obbligati a ripensare la luna in un modo nuovo ci porterà a ripensare in un modo nuovo tante cose (...).
Chi ama la luna davvero non si contenta di contemplarla come un'immagine convenzionale, vuole entrare in un rapporto più stretto con lei, vuole vedere di più nella luna, vuole che la luna dica di più. Il più grande scrittore della letteratura italiana di ogni secolo, Galileo, appena si mette a parlare della luna innalza la sua prosa a un grado di precisione ed evidenza e insieme di rarefazione lirica prodigiose. E la lingua di Galileo fu uno dei modelli della lingua  di Leopardi, gran poeta lunare ...
(Italo Calvino, "Il rapporto con la luna" in "Una pietra sopra")


Qualcuno mi potrà obiettare che più l'opera tende alla moltiplicazione dei possibili più s'allontana da quell'unicum che è il "self" di chi scrive, la sincerità interiore, la scoperta della propria verità. 
Al contrario, rispondo, chi siamo noi, chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d'esperienze, d'informazioni, di letture, d'immaginazioni?
Ogni vita è un'enciclopedia, una biblioteca, un inventario d'oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili. 
Ma forse la risposta che mi sta più a cuore dare è un'altra: magari fosse possibile un'opera concepita al di fuori del "self", un'opera che ci permettesse d'uscire dalla prospettiva limitata d'un io individuale, non solo per entrare in altri io simili al nostro, ma per far parlare ciò che non ha parola, l'uccello che si posa sulla grondaia, l'albero in primavera e l'albero in autunno, la pietra, il cemento, la plastica...
Non era forse questo il punto d'arrivo cui tendeva Ovidio
nel raccontare la continuità delle forme, il punto d'arrivo cui tendeva Lucrezio nell'identificarsi con la natura comune a tutte le cose?
(Italo Calvino, Molteplicità, in Lezioni americane)







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Su, piccolo giovane poeta, questa è la sera adatta, mi sembra; è primavera, siamo al crepuscolo, il cielo anche è propizio per via di quelle nubi lunghissime, avanti dunque, se sei capace, parla”.

“Ecco… per esempio – cominciò il Poeta balbettando – ecco.. vedi quella finestra illuminata, lassù, quasi in cima al casamento?”
“Quella finestra, dici?”
“Ma si,  perché? Forse che non va bene?”
“È inaudito ragazzo mio! Tu parli proprio di quella finestra al nono piano se l’ho contato giusto, l’unica accesa in tutto il palazzo?”
“Si precisamente quella”.
“Ah, è incredibile! Tu, poeta, tu invitato  da noi appositamente, pagato anche: tu hai il coraggio di parlare della finestra accesa  nella notte, eccetera. (Chi ci sarà in quella stanza? Una mamma  che veglia il bambino malato? Un falsario che lavora? Un poeta che sogna?). Ma è spaventoso, capisci.
Questo è il massimo della banalità.
Non c’è studentessa di normali che non abbia già scritto tutto questo nelle pagine del diario”.
“E allora? Che significa? Proprio questo coraggio bisogna avere. La finestra accesa nella notte, esattamente, con le fantasie corrispondenti, così banali, spontanee, così facili. Dopo le studentesse, anch’io.
Solo che i loro diari appassiranno ignoti, chiusi nel fondo dei cassetti.
Mentre per me la gente si volterà, le orecchie tese, le bocche semiaperte a bere, a bere ciò che è la vita. E io volerò sopra di loro!
(Dino Buzzati, Lezione di poesia, in Esperimento di magia)



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Se una volta la letteratura era una specie di vacanza che il lettore si concedeva dalla quotidianità, oggi è invece un modo di esplorare direttamente quel che ci succede, e spesso di trovare strade che ci aiutano ad andare avanti quando ci sentiamo frenati da circostanze o fattori negativi. (...)
Scrivere o leggere significa sempre interrogare e analizzare la realtà, significa anche lottare per cambiarla dall'interno, dal pensiero, dalla coscienza di chi scrive e di chi legge. (...)
Quando uno scrittore dà il massimo di se stesso come creatore, tutto ciò che scrive sarà un'arma nel duro combattimento che sferriamo ogni giorno.

Una poesia d'amore, un racconto puramente immaginario, sono le prove più belle che non c'è dittatura né repressione che possa fermare quel legame ormai profondo che esiste tra i nostri migliori scrittori e la realtà dei loro Paesi, quella realtà che ha bisogno della bellezza come ha bisogno della verità e della giustizia. (...)
I libri sono bottiglie in mare, messaggi lanciati nella vastità dell'ignoranza e della miseria; ma capita che qualche bottiglia arrivi a destinazione, ed è allora che questi messaggi devono mostrare il loro m senso e la loro ragione d'essere.
(Julio Cortázar, "Lezioni di letteratura")



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Poesia e Utopia
DANTE A GUIDO CAVALCANTI
  
Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento
e messi in un vasel, ch’ad ogni vento
per mare andasse al voler vostro e mio;

sì che fortuna od altro tempo rio
non ci potesse dare impedimento,
anzi, vivendo sempre in un talento,
di stare insieme crescesse ’l disio.

E monna Vanna e monna Lagia poi
con quella ch’è sul numer de le trenta
con noi ponesse il buono incantatore:

e quivi ragionar sempre d’amore,
e ciascuna di lor fosse contenta,

sì come i’ credo che saremmo noi.

(Dante Alighieri, "Rime")

giovedì 11 maggio 2017

LUCREZIO, VIRGILIO, SENECA, PLINIO IL VECCHIO: I ROMANI E L'AMBIVALENZA DEL PROGRESSO

Tito Lucrezio Caro (F. Hayez)

Dagli uomini primitivi alla civiltà
Allora il genere umano nei campi era molto più duro, com’è naturale: creato dalla dura terra, poggiato all’interno su ossa più grandi e più solide , connesso attraverso le carni da validi nervi, non era facile preda del caldo e neanche del freddo, né di cibi inconsueti , né di nessuna insidia del corpo. Per molti percorsi del sole nel cielo conducevano vagabondando una vita da fiere
Poi il sole insegnò a cuocere il cibo, ammorbidendolo con il vapore della fiamma, perché vedevano nelle campagne tante cose maturare ai raggi e al calore del sole. Ogni giorno di più chi aveva più ingegno e forza d’animo, mostrava come cambiare il tenore di vita grazie al fuoco e alle nuove scoperte.
Gli uomini si vollero famosi e potenti, perché la loro fortuna durasse su fondamenti stabili, e loro potessero trascorrere una vita tranquilla da ricchi; invano perché, lottando per giungere ai sommi onori, si resero ostile il cammino dell’esistenza e l’invidia come un fulmine li colpì e li scagliò talvolta dalla cima con disonore fino al cupo Tartaro.
(Lucrezio, De rerum natura, V) 



L'IDEA DI PROGRESSO IN LUCREZIO


LO STATO DI NATURA NON È L’ETÀ DELL’ORO
Lucrezio ricostruisce attentamente il passaggio dal primitivo stato di natura – ferino e irrazionale – a quello della civiltà. Analizza con scrupolo scientifico la vita dei primi uomini, ma oscilla tra due opposte polarità: da una parte insiste sulla durezza e sulla selvatichezza della vita primitiva, dall’altra manifesta un’idealizzazione nostalgica della condizione semplice, paga dell’essenziale, legata allo stato di natura.
Un punto resta, però, fermo: la negazione assoluta di un’originaria età dell’oro. L’uomo ha conosciuto uno stato di bestialità da cui è uscito faticosamente, sotto la spinta dell’intelligenza e delle inarrestabili acquisizioni tecnico-pratiche e filosofiche.

NELLO STATO DI NATURA NON C’È LA SOCIETÀ CON LE SUE REGOLE
Più grandi e robusti di noi, i nostri antenati erano spinti dagli istinti naturali, vagavano nelle foreste, non conoscevano agricoltura e fuoco. Privi di istituzioni giuridico-sociali e ignari di ogni valore culturale, vivevano isolati e non creavano unioni stabili, ma solo accoppiamenti ferini. 

DALLA LOTTA PER LA SOPRAVVIVENZA NASCE IL PROGRESSO
La condizione originaria implica una dura lotta per la sopravvivenza, che diviene, d’altra parte, anche la molla per l’evoluzione e le acquisizioni tecniche: gli uomini gradualmente impararono a domare la natura selvaggia e ciò rese possibile il progresso. Gli uomini, osservando i fenomeni, impararono a navigare, ad accendere il fuoco a costruire case, a coltivare la terra, a lavorare i metalli. Alle conquiste tecniche si aggiunsero l’invenzione del linguaggio, lo sviluppo dei vincoli sociali, l’introduzione delle leggi.

IL PROGRESSO COMPORTA EFFETTI INFAUSTI
Nella descrizione dei crescenti progressi umani, Lucrezio, tuttavia, non assume un tono trionfalistico, bensì ne smaschera gli effetti infausti. Contrappone, infatti, ai pericoli della vita primitiva, gli affanni e le violenze ben più gravi degli uomini progrediti, mossi da un’insaziabilità sconosciuta nello stato di natura.
Emerge, quindi, una duplice qualificazione della civiltà: da un lato c’è la positiva constatazione del benessere garantito dalla conoscenza e dalla tecnologia; dall’altra sono innegabili la violenza delle guerre, la degenerazione dei rapporti personali, la crescente avidità, il degrado morale del presente.

PROGRESSISMO E MORALISMO
Nel V libro del De rerum natura, Lucrezio traccia la storia dell’umanità seguendo una duplice prospettiva: secondo una visione progressiva, Lucrezio registra le graduali evoluzioni tecniche che hanno consentito agli esseri umani l’uscita da uno stato di ferinità; secondo una prospettiva moralistica, la storia umana e il progresso tecnico sono giudicati in rapporto al problema filosofico della felicità: non sempre, cioè, il progresso tecnico coincide con quello morale.

NESSUN MITO DEL PROGRESSO
In definitiva, Lucrezio accetta l’idea del progresso, ma ne respinge il mito. Il progresso è una necessità storica: se alle leggi della forza non si fossero sostituite quelle razionali del diritto, l’umanità si sarebbe estinta sotto i colpi della sua stessa violenza. Il progresso è una condizione di vita, ma non dona la felicità, al contrario, può perfino accentuare il declino morale dell’umanità, che non conosce il limite del possesso e la misura del piacere.
Il furor belluino dei primitivi è sì superato dalla ratio dei civilizzati, ma questa non riesce a tradursi anche in un arricchimento dell'esperienza morale.
La violenza dei primitivi era giustificata dal bisogno dell'indispensabile, ma la violenza dei moderni non può esserlo dalla brama del superfluo.

Bibliografia
Percorso tematico: "L'età dell'oro e il divenire storico" in G. Garbarino, Opera, Paravia
L. Canali, Lucrezio, in I cavalieri latini dell'Apocalisse, SAGGI BOMPIANI



EPICURO, LETTERA A MENECEO

Raffael 063.jpg
Epicuro, particolare della "Scuola di Atene"




















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L'IDEA DI PROGRESSO IN VIRGILIO
LA TEODICEA DEL LAVORO

Pater ipse colendi
haut facilem esse viam voluit primusque per artem
movit agros curis acuens mortalia corda
nec torpere gravi passus sua regna veterno . (…)
Tum variae venere artes Labor omnia vicit
improbus et duris urgens in rebus egestas.
(Virgilio, Georgiche, I, 121-124; 145-146)

TRADUZIONE
Lo stesso padre Giove volle che non fosse facile il mestiere dell'agricoltore , e primo fece dissodare i campi con arte aguzzando le menti dei mortali coi pensieri e non lasciò che i suoi sudditi intorpidissero in una pesante inerzia.  
Nelle Georgiche, il poema didascalico dedicato all'agricoltura e all'allevamento, Virgilio affronta il tema del lavoro, delle insidie della natura e delle difficoltà del vivere con cui l'uomo dovette misurarsi in seguito alla fine dell'età dell'oro. Virgilio interpreta l'inasprimento delle condizioni esistenziali rispetto all'età di Saturno, come una provvidenziale scelta di Giove, preoccupato che gli uomini rimanessero vittime della pigrizia dell'indolenza (torpere): si tratta della Teodicea del lavoro, teoria secondo cui il lavoro dell'uomo è frutto di giustizia divina. Si tratta di una prospettiva nuova, che inverte il tradizionale punto di vista (biblico e esiodeo) che considerava il lavoro una punizione conseguente a una violazione/trasgressione. Secondo Virgilio, Giove, subentrato a Saturno nel governo del mondo, fece decadere l'umanità dall'originaria felicità e costrinse così gli uomini, sollecitati dal bisogno, ad aguzzare l'ingegno e ad elaborare quel sapere che oggi definiremmo appunto tecnico-scientifico.
In Virgilio, dunque, manca l'idealizzazione dell'età dell'oro come età felice: in Lucrezio era il regno del bellum omnium contra omnes, tuttavia costituito da essenzialità e frugalità; per il poeta delle Georgiche l'età dell'oro non ha nulla di edenico perché è dominata dal veternus, dalla pigrizia e dall'indolenza, a causa della quale è fiaccato ogni impulso ad agire e a trasformare il mondo. Virgilio esalta le curae perché spingono l'uomo a costruire la civiltà e attribuendone l'origine a Giove stesso, il poeta coniuga il provvidenzialismo storico/religioso con la teoria laica, epicurea e lucreziana, dell'homo faber, creatore di civiltà sotto la spinta del bisogno, dell'egestas e grazie all'invenzione delle artes.


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L'IDEA DI PROGRESSO IN SENECA

Mihi certe multum auferre temporis solet contemplatio ipsa sapientiae; non aliter illam intueor obstupefactus quam ipsum interim mundum, quem saepe tamquam spectator novus video.
(Seneca, Epistole a Lucilio, VI, 64, 6)

TRADUZIONE
Senza dubbio la stessa contemplazione della sapienza abitualmente mi porta via una gran quantità di tempo: la contemplo ammirato non diversamente da come (contemplo) lo stesso universo, che spesso vedo come se fossi un nuovo spettatore.

Questo passo chiarisce la prospettiva attraverso cui sono filtrati gli interessi scientifici di Seneca: contemplazione e stupore, atteggiamenti piuttosto filosofici e non prettamente scientifici; Seneca non tende cioè a indagare le cause fisiche dei fenomeni, ma vuole, piuttosto trovare conferma nell'osservazione del cosmo - di cui, appunto, si definisce spectator novus - alla sua tesi stoica e provvidenzialistica di un logos universale (mens universi) ordinatore.

Seneca saluta il suo Lucilio
Il fatto di vivere, Lucilio mio, è un dono degli dèi immortali, il fatto di vivere bene, della filosofia, nessuno può dubitarne. Dunque, noi dovremmo avere un debito maggiore verso la filosofia che non verso gli dèi, in quanto un'esistenza virtuosa è certamente un beneficio maggiore che l'esistenza; ma sono stati gli dèi a darci proprio la filosofia: non hanno concesso a nessuno la conoscenza di essa, a tutti la possibilità. Se avessero reso anche la filosofia un bene comune e noi nascessimo saggi, la saggezza avrebbe perduto la sua straordinaria prerogativa di non essere un bene fortuito. Quello che essa ha di prezioso e di stupefacente è di non essere un dono della sorte, ma una conquista personale, qualcosa che non si chiede a un terzo. Cosa ci sarebbe da ammirare nella filosofia se derivasse da un beneficio? Il suo unico còmpito è scoprire la verità sul divino e sull'umano; da essa non si staccano mai religione, sentimento del dovere, giustizia e il corteo di tutte le altre virtù strettamente connesse tra di loro. Ci ha insegnato, la filosofia, a venerare gli dèi, ad amare gli uomini, e che il comando è nelle mani degli dèi, e che gli uomini sono uniti tra loro. Questo stato di cose fu per un certo tempo rispettato, poi l'avidità ruppe l'associazione e fece diventare povere anche quelle persone che aveva un tempo reso ricchissime: desiderando beni propri cessarono di possedere il tutto. 
Ma i primi uomini e la loro progenie seguivano con purezza la natura, trovavano nello stesso uomo la guida e la legge, affidandosi alle decisioni del migliore, poiché la natura subordina quello che è inferiore a quello che è superiore. Le greggi le guidano gli animali più grossi o più impetuosi, le mandrie non le precede un toro di scarto, ma quello che per grossezza e massa muscolare supera gli altri maschi; i branchi degli elefanti li conduce il più alto; fra gli uomini conta il migliore, non il più forte. Il capo veniva scelto per le sue qualità interiori, e perciò i popoli più fiorenti erano quelli in cui solo il migliore poteva essere il più potente: poiché può fare con sicurezza quello che vuole solo l'uomo che ritiene di potere unicamente quello che deve.
Posidonio pensa che nell'età cosiddetta aurea, il governo fosse nelle mani dei saggi. Essi tenevano a freno la violenza, difendevano il più debole dai più forti, facevano opera di persuasione e di dissuasione, indicavano ciò che era utile o inutile; la loro preveggenza faceva in modo che non mancasse niente al popolo, la loro forza teneva lontani i pericoli, la loro liberalità arricchiva e dava benessere ai sudditi. Comandare era un dovere, non una tirannide. Nessuno sperimentava il proprio potere contro chi gli aveva permesso di averlo, nessuno era incline o motivato a commettere ingiustizie, poiché i sudditi obbedivano con sollecitudine al sovrano che comandava rettamente e la minaccia più grave del re a chi disobbediva era di rinunciare al potere. Ma quando, per l'insinuarsi dei vizi, il regnare si tramutò in dispotismo, nacque la necessità delle leggi: e anch'esse all'inizio furono i saggi a presentarle. Solone, che diede ad Atene solide fondamenta di giustizia, fu uno dei sette famosi sapienti: Licurgo, se fosse vissuto nella stessa epoca, sarebbe stato inserito in quella sacra congrega come ottavo. Si elogiano i codici di Zaleuco e di Caronda; costoro il diritto non lo impararono nel foro o nell'atrio degli avvocati, ma le leggi che avrebbero dato alla Sicilia allora fiorente e, attraverso l'Italia meridionale, alla Grecia, le appresero nel sacro e tacito ritiro di Pitagora.
Fin qui sono d'accordo con Posidonio: non condivido, invece, che la filosofia abbia inventato le arti di uso quotidiano, e non le attribuirei la gloria dei mestieri artigianali. "La filosofia," egli afferma, "insegnò a costruire case agli uomini dispersi qua e là e che trovavano riparo o in capanne, o in qualche caverna, o nel cavo di un albero." Secondo me la filosofia non ha escogitato questi congegni di tetti che sorgono sui tetti, di città che incalzano le città, come non ha escogitato i vivai ittici, creati per risparmiare alla gola il rischio delle tempeste e per offrire alla mollezza, quando il mare impazzisce furioso, cale tranquille in cui ingrassare diverse qualità di pesci. Che dici? La filosofia ha insegnato agli uomini ad avere chiavi e serrature? Non era dar via libera all'avidità? La filosofia avrebbe innalzato dei tetti che sovrastano così pericolosamente chi vi abita? Non bastava proteggersi con ripari fortuiti, trovarsi un rifugio naturale che non richiedesse tecnica o fatica. Credimi, era felice quell'epoca senza architetti, né decoratori. Tagliare le assi in modo regolare, segare le travi con mano sicura secondo le linee tracciate, questo è nato col nascere del lusso; i primi uomini, infatti, spaccavano con cunei il legno che si fendeva con facilità. Non costruivano dimore con stanze destinate ai banchetti, pini e abeti non venivano trasportati in lunghe file di carri, facendo tremare le strade, per trasformarli in soffitti carichi d'oro sospesi sulle loro teste. Puntelli dai due lati sostenevano la capanna; rami secchi stipati, fronde ammassate disposte con opportuna inclinazione assicuravano il defluire delle piogge anche torrenziali. Sotto questi tetti abitavano al sicuro: un tetto di paglia riparava gente libera; oggi sotto i marmi e l'oro abitano dei servi.
Su un altro punto ancora dissento da Posidonio: egli pensa che gli strumenti artigianali sono stati inventati dai filosofi; allo stesso modo potrebbe tranquillamente dire che i saggi allora escogitarono il modo di catturare le fiere con i lacci, di ingannarle con il vischio e di circondare con i cani le grandi balze selvose.
Tutte queste scoperte le fece la sagacia, non la saggezza umana. Anche su questo non sono d'accordo: le miniere di ferro e di rame non le hanno trovate i saggi quando la terra bruciata dall'incendio delle foreste aveva riversato fuse le vene di metalli giacenti in superficie: sono cose che le trova chi se ne occupa. E neppure mi sembra tanto acuto, come a Posidonio, il problema se l'uso del martello fu anteriore a quello delle tenaglie. Li inventò entrambi qualcuno dalla mente brillante e acuta, non nobile ed elevata, e fu così per qualsiasi altra cosa che va cercata col corpo curvo e concentrandosi sulla terra. Il saggio condusse sempre una vita semplice. E perché no? Anche di questi tempi desidera essere il più libero possibile. Ma via, come può essere che ammiri Diogene e Dedalo insieme? Chi di loro ti sembra saggio? L'inventore della sega o il filosofo che, dopo aver visto un bambino bere l'acqua nel cavo della mano, tirò fuori il bicchiere dalla bisaccia e lo ruppe immediatamente rivolgendo a se stesso questo rimprovero: "Per quanto tempo ho portato da insensato pesi inutili!", egli che dormiva rannicchiato in una botte? E oggi, chi ritieni più saggio? Chi ha trovato il modo di spruzzare a grandi altezze, attraverso condotti invisibili, essenze profumate, chi riempie i canali con un improvviso getto d'acqua o li prosciuga, e congiunge i soffitti girevoli delle sale da pranzo in modo che si susseguano immagini diverse e il tetto cambi tante volte quante sono le portate, oppure chi dimostra a sé e agli altri che la natura non ci costringe a nulla di faticoso e di difficile, che possiamo avere case senza ricorrere al marmista e al fabbro, che possiamo vestirci senza importare sete, che possiamo avere il necessario per i nostri bisogni se ci accontentiamo dei beni che la terra presenta in superficie? Se l'umanità vorrà ascoltarlo, capirà che un cuoco le è inutile quanto un soldato.
(Seneca, Epistole a Lucilio, 90)

Nell'Epistola 90, Seneca mostra di condividere l'immagine tradizionale, leggendaria, idealizzata dello stato di natura come una perduta età dell'oro, in polemica con la società progredita e corrotta. La tranquillità e la libertà originarie hanno ceduto il passo alle ansie accresciute proprio dal progresso tecnologico: la vita agiata esclude la felicità proprio perché è molto lontana dalla natura. Ai moderni disposti a bassezze vergognose per conservare ricchezze e frastornati dalle preoccupazioni per conseguirle, Seneca oppone lo stato di natura, appagato, come aurea aetas: la terra stessa, non coltivata, era fertile e generosa; non c'erano ruberie e la vita comunitaria si fondava sul riconoscimento reciproco; si disprezzavano le armi e si viveva di poco.
L'esaltazione dello stato di natura e e la polemica contro la decadenza e la corruzione moderna, si lega anche al giudizio complessivo sullo sviluppo della conoscenza. Il progresso è anche per Seneca, come per Lucrezio e Virgilio, frutto di conoscenza.
Se tuttavia molti studiosi del I sec. a.C. come Posidonio, avevano esaltato le artes e il sapere tecnico come la massima espressione delle potenzialità razionali dell'uomo, per Seneca la distanza tra artes e filosofia è netta: non si tratta di demonizzare le artes; esse non sono intrinsecamente negative, ma l'uomo, senza l'ausilio della filosofia, non ha saputo e non sa farne buon uso. Gli uomini finiscono con il convertire in danno ciò che potrebbe essere a loro vantaggio.
Dunque soltanto la conoscenza filosofica assicura un reale progresso e non va confusa con il sapere tecno-scientifico.
Le artes non sono state prodotte dalla saggezza, ma da una qualità inferiore, la sagacitas dell'ingegno, continuamente sollecitato a cercare soluzioni pratiche per semplificare la vita.
Questa svalutazione della dimensione tecnica, manuale, meccanica nasce da una constatazione: la caligo mentium ci impedisce di capire quale sia il vero bene e non sappiamo fare buon uso delle conoscenze.
La vita secondo natura è il vero appannaggio del saggio che non dà valore assoluto agli aspetti materiali della vita. Il vero progresso, dunque, per Seneca è quello spirituale e non quello tecnico.
Sul dualismo tra dimensione materiale e tensione spirituale si inserirà poi la riflessione cristiana.


PLINIO IL VECCHIO
Affine al pensiero di Seneca appare quello di Plinio il Vecchio nella Naturalis historia, opera enciclopedica in cui l'autore mostra un cauto moralismo e un atteggiamento antitecnologico. Plinio vede la natura come un organismo vivente guidato da una logica provvidenziale, secondo i principi dello stoicismo. L'uomo con le sue conoscenze può impegnarsi a migliorare le condizioni di vita, ma senza superare i limiti posti dalla natura e senza sconvolgere l'ordine e l'equilibrio dei fenomeni naturali. Ad esempio, non si possono scavare montagne per estrarne metalli preziosi che in fondo alimentano la brama di lusso e ricchezza dei ceti privilegiati e subordinano la scienza a fini individualistici ed egoistici, snaturandola. Queste posizioni nascono da moralismo, ma anche da preoccupazioni poco scientifiche e frutto di superstizione, dalla convinzione, insomma, che sia empio carpire alla natura i suoi segreti.
La riflessione, in particolare sull'avaritia compresa tra le possibili deviazioni della tecnica, potrebbe sembrare puro moralismo. Invece è coerente con la visione di fondo. Nell'ottica pliniana  - cfr. l. VII - come l’uomo è l’unico essere che nasca imperfetto (1), così è l’unico, cui sono date in sorte luxuria, ambitio, avaritia, superstitio. Nessuno ha vita più fragile e passioni più forti (nulli vita fragilior, nulli rerum omnium libido maior). Perciò gli altri animali vivono nel rispetto reciproco all’interno delle diverse specie, solo l’uomo danneggia il suo simile: homini plurima ex homine sunt mala.
Il traguardo più ambizioso per Plinio consiste nel ritornare a quel livello, cui gli altri esseri si trovano già spontaneamente: lo stato di natura, quella condizione in cui tutti gli essere sanno trovare istintivamente antidoti alle difficoltà della sopravvivenza. Il mezzo, con cui l’uomo recupera questo livello, è la tecnica, ars. Ma la tecnica può sbagliare, quando cioè contraddice alla natura.
L’uomo non sa certo da sempre: può scoprire, ma con fatica e dolore, senza la semplicità istintiva degli altri esseri. Rispetto all’animale, ha il vantaggio della comunicazione. Trasmettere le conoscenze, cioè insegnare, sostituisce l’automatismo della scoperta animale, e il docere diventa un imperativo morale per l’uomo, in vista del recupero di quella condizione naturale, in cui gli altri esseri si trovano spontaneamente. La scienza si propone in primo luogo come divulgazione del già noto: e questo è appunto il fine, che Plinio assegna alla sua compilazione
Se ne dovrebbe dedurre che quel tanto di progresso, che Plinio ammette, cioè il ritorno allo stato positivo della natura, dovrebbe essere, oltre che tecnico, morale, o meglio, il risanamento (tecnico)  dovrebbe produrre un miglioramento (morale).
Il risultato concettuale è notevole, sarebbe una novità nel mondo antico, notoriamente antitecnologico, ma anche un suggerimento per la società moderna.
1 - L'’uomo non sa nulla se non glielo insegnano, né parlare, né camminare, né mangiare: in poche parole, spontaneamente non sa far altro che piangere (l. VII, 4)

lunedì 3 aprile 2017

Goethe

La nuova sensibilità romantica
https://docs.google.com/presentation/d/18saRqRfjxLSHDdj_zr_YO2cctkg6L2oBOnm0TeHtbSk/edit?usp=sharing


I DOLORI DEL GIOVANE WERTHER

Edouard Manet, Il suicida

Ma quell'uomo è così scrupoloso che quando crede di aver detto qualcosa di troppo azzardato o generico e non completamente vero non la finisce più di limitare, modificare, di aggiungere o di sopprimere finché di quanto ha detto non rimane più niente. E anche durante il nostro discorso non finiva più di chiacchierare: io finii col non ascoltarlo più, mi misi a fantasticare e con gesto rapido mi appoggiai alla fronte la canna della pistola al di sopra dell'occhio destro. "Ebbene che significa ciò?"esclamò Alberto strappandomi l'arma di mano. "E' scarica" risposi. "E se pure è scarica che vuol dire questo?" riprese impaziente "io non posso ammettere che un uomo sia così pazzo da uccidersi: il solo pensiero mi rivolta."
"Ma voi uomini", esclamai, "quando parlate di qualche cosa, dovete sempre dire: è pazza, è savia, è buona, è cattiva! e questo che significa? Avete voi, che dite così, indagato i moventi interni di un'azione? Sapete scoprirne con certezza le cause, e capire perché è avvenuta e perché doveva avvenire? Se l'aveste fatto, non sareste così pronti a giudicare."

"Mi concederai" disse Alberto "che alcune azioni rimangano degne di biasimo da qualunque motivo siano determinate".

Glielo concessi scrollando le spalle. Pure continuai: "Vi sono sempre dei casi eccezionali. E' vero che il furto è un delitto. Ma l'uomo che ruba per salvare sé e i suoi che stanno per morire di fame merita pietà o castigo? Chi scaglierà la prima pietra contro il marito che nella sua giusta collera immola la sua donna infedele e l'indegno seduttore? Contro la fanciulla che in un'ora di ardore si perde nelle indicibili gioie dell'amore? Le stese nostre leggi fredde e pedanti si lasciano commuovere e sospendono la loro punizione!" "Questo non c'entra" replicò Alberto "perché un uomo che è in balìa delle passioni perde ogni forza di ragione ed è considerato come un ubriaco, come un pazzo".

"Oh le persone ragionevoli!" esclamai sorridendo. "Passione! Ebbrezza! Delirio! Voi siete così impassibili, così estranei a tutto questo voi uomini per bene! Rimproverate il bevitore, condannate l'insensato, passate dinanzi a loro come lo scriba e ringraziate Dio come il fariseo perché non vi ha fatto simili a loro! Più di una volta io sono stato ebbro, le mie passioni non sono lontane dal delirio e di queste due cose io non mi pento perché ho imparato a capire che tutti gli uomini straordinari che hanno compiuto qualcosa di grande e che pareva impossibile, sono stati in ogni tempo ritenuti ebbri o pazzi.
Ma anche nella vita comune è insopportabile sentir dire ogni volta che qualcuno sta per compiere un'azione libera, nobile, inattesa:
quell'uomo è ubriaco, è pazzo! Vergognatevi, uomini sobri e savi!" 

"Ecco le tue solite fantasie" disse Alberto "tu esageri tutto e in questo caso hai per lo meno il torto di paragonare il suicidio che è l'argomento di cui si parlava, con delle grandi gesta mentre esso non può esser considerato che come una debolezza. Poiché certo è più facile morire che sopportare con fermezza una vita dolorosa".

Ero sul punto di interrompere il discorso perché niente mi mette così fuori dei gangheri come vedere qualcuno armato di insignificanti luoghi comuni mentre io parlo con tutto il cuore. Pure mi contenni perché molte volte ho sentito addurre quell'argomento e me ne sono indignato: risposi dunque alquanto vivamente: "Tu lo chiami una debolezza? Ti prego, non lasciarti ingannare dall'apparenza. Puoi chiamare debole un popolo che geme sotto il giogo di un tiranno se infine fremendo spezza le sue catene? Un uomo che nel terrore di vedere la sua casa in preda alle fiamme sente le sue forze centuplicate e solleva facilmente dei pesi che a mente calma potrebbe appena muovere? E uno che nel calore dell'offesa ne affronta sei e li vince, tu lo chiami debole? E, mio caro, se l'eccesso fisico viene considerato come una forza, perché non lo sarà anche l'eccesso dei sentimenti?"

Alberto mi guardò e disse: "Non te ne avere a male, ma gli esempi che tu porti non hanno nulla a vedere col nostro discorso".
"Può darsi" risposi "mi è già stato spesso rimproverato che le mie associazioni di idee raggiungono talvolta il delirio". 
(J. W. Goethe, "I dolori del giovane Werther")


***
Apre un grosso volume e si accinge a tradurre
sta scritto: “in principio era la Parola”.
Ed eccomi già fermo. Chi m’aiuta a procedere?
M’è impossibile dare a “Parola”
tanto valore. Devo tradurre altrimenti,
se mi darà giusto lume lo Spirito.
Sta scritto: “In principio era il Pensiero”.
Medita bene il primo rigo,
chè non ti corra troppo la penna.
Quel che tutto crea e opera, è il Pensiero?
Dovrebb’essere: “In principio era l’Energia”.
Pure, mentre trascrivo questa parola, qualcosa
Già mi dice lo Spirito! Ecco che vedo chiaro
E, ormai sicuro scrivo: “In principio era l’Azione.

(J. W. Goethe, Faust)

Faust è figlio ed erede di Bacone. Vuole tutto, pretende tutto, ha fame e sete non solo di sapienza, ma più ancora di sperimentare, provare su di sé gli esiti della conoscenza. In termini biblici, è Adamo che consuma voracemente i frutti dell’albero del bene e del male. Nel linguaggio dei greci, è l’uomo privato della phrònesis, della prudenza, convinto che la sua specifica areté, l’attitudine di ogni essere a esplicare la sua particolare virtù, si compia nell’oltrepassare, nello strappare ogni velo della conoscenza, e mordere, godere, consumare immediatamente i frutti di quella consapevolezza sempre nuova.
Il Faust letterario, tuttavia, salva la sua anima, al termine di esperienze intense e drammatiche. Nell’affresco goethiano, chi lo salva è la Cura (o Angoscia). Egli ha conservato la sua umanità grazie alle donne che ha amato, Margherita ed Elena, ed il suo proponimento finale è “Potessi, o Natura, starti innanzi come uomo e null’altro, allora varrebbe la pena di essere uomo.”  Ed ancora, dialogando con la Cura, deplora quel passato in cui non ha fatto che correre per il mondo, “desiderato e raggiunto il desiderato, ed ho nuovamente desiderato e sono passato attraverso la vita come un turbine”.  Quel turbine che è l’azione, die Tat, ha reso tutti noi uomini faustiani, degni del tramonto per stanchezza, esaurimento, indifferenza al Bene, al Vero, al Bello.  Perché la corsa, la “Vita activa” non ammette ripensamenti, soste, cambi di marcia. Come in autostrada, non si torna indietro, e ci si può fermare solo in luoghi dedicati, rigorosamente per riempire nuovamente il serbatoio dell’automobile, la “macchina” per antonomasia, e consumare pessime cose a caro prezzo.  
(Cfr.:https://www.maurizioblondet.it/principio-lazione-fermati-faust/)



venerdì 31 marzo 2017

ORAZIO

Il topo di campagna e il topo di città (Satire, II, 6)

"Si dice che una volta un topo di campagna invitò nella sua povera tana un topo

di città, un vecchio ospite (che accoglie) un vecchio amico;

scorbutico e attento ai (cibi) procuratisi,  ma tuttavia (non) al punto di (non) sciogliere

all'ospitalità l'animo taccagno. Che (bisogno c'è di fare) molte parole? Né egli

risparmiò ceci messi in serbo né la lunga avena,

e, portando con la bocca un acino appassito e pezzetti di lardo

mezzi rosicchiati, (glieli) offrì desiderando, con una cena varia, vincere

la schizzinosità di (lui) che toccava a malapena le singole cose con dente sdegnoso;

mentre lo stesso padrone di casa, disteso sulla paglia fresca,

mangiava farro e loglio, lasciando le vivande migliori (all'altro).

 Infine il cittadino dice a costui: "A che ti giova, amico,

vivere di stenti  sulla costa di un bosco scosceso?

Vuoi tu anteporre gli uomini e la città alle aspre selve?

Prendi con me  il cammino, dammi retta; poiché le creature terrestri

vivono avendo ricevuto in sorte anime mortali e non vi è alcuno

 scampo alla morte né per il ricco né per il povero: perciò, amico,

mentre ti è possibile, vivi felice in mezzo a situazioni piacevoli,

vivi memore di quanto (tu) sia di breve durata". Queste parole, appena dette,

scossero il campagnolo (che) balzò  lesto fuori di casa; quindi

entrambi percorrono il cammino prefissato, ansiosi di entrare

 furtivamente di notte nelle mura della città. E già teneva

la notte lo spazio a metà del cielo, quando entrambi pongono

i (loro) passi in un ricco palazzo, dove, su letti d'avorio,

splendeva un drappo tinto di rosso porpora

e c'erano, avanzate da una grande cena, molte portate

del giorno prima che, in disparte, stavano in canestri ben colmi.

Dunque, quando ebbe collocato disteso su un drappo purpureo

il campagnolo, come uno schiavo col grembiule rimboccato, l'ospite corre qua e là

e continua a portare vivande e assolve agli stessi compiti

di un cameriere domestico, assaggiando prima tutto ciò che porta.

Quello, sdraiato, gode della sorte mutata e in quella cuccagna 

fa la parte del commensale lieto, quando all'improvviso un gran

fragore di di porte fece balzare entrambi giù dai letti.

Correvano spaventati per tutta la stanza e, ancor più,

trepidavano senza fiato non appena l'alto palazzo risuonò

(del latrato) di cani molossi. Allora il campagnolo: "Non ho proprio bisogno

di questa vita", disse e "Stammi bene! Il bosco e la mia tana

sicura dai pericoli, mi consoleranno con le umili lenticchie".



Ode I, 11 - CARPE DIEM ("Cogli l'attimo")

martedì 7 febbraio 2017

1) ILLUMINISMO. 2) ALFIERI

ILLUMINISMO

CESARE BECCARIA ( Dei delitti e delle pene, CAP. XXVIII)
Della pena di morte
Questa inutile prodigalità di supplicii, che non ha mai resi migliori gli uomini, mi ha spinto ad esaminare se la morte sia veramente utile e giusta in un governo bene organizzato. Qual può essere il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili? Non certamente quello da cui risulta la sovranità e le leggi. Esse non sono che una somma di minime porzioni della privata libertà di ciascuno; esse rappresentano la volontà generale, che è l’aggregato delle particolari. Chi è mai colui che abbia voluto lasciare ad altri uomini l’arbitrio di ucciderlo? Come mai nel minimo sacrificio della libertà di ciascuno vi può essere quello del massimo tra tutti i beni, la vita? E se ciò fu fatto, come si accorda un tal principio coll’altro, che l’uomo non è padrone di uccidersi, e doveva esserlo se ha potuto dare altrui questo diritto o alla società intera?
Non è dunque la pena di morte un diritto, mentre ho dimostrato che tale essere non può, ma è una guerra della nazione con un cittadino, perché giudica necessaria o utile la distruzione del suo essere. Ma se dimostrerò non essere la morte né utile né necessaria, avrò vinto la causa dell’umanità.
La morte di un cittadino non può credersi necessaria che per due motivi. Il primo, quando anche privo di libertà egli abbia ancora tali relazioni e tal potenza che interessi la sicurezza della nazione; quando la sua esistenza possa produrre una rivoluzione pericolosa nella forma di governo stabilita. La morte di qualche cittadino divien dunque necessaria quando la nazione ricupera o perde la sua libertà, o nel tempo dell’anarchia, quando i disordini stessi tengon luogo di leggi; ma durante il tranquillo regno delle leggi, in una forma di governo per la quale i voti della nazione siano riuniti, ben munita al di fuori e al di dentro dalla forza e dalla opinione, forse piú efficace della forza medesima, dove il comando non è che presso il vero sovrano, dove le ricchezze comprano piaceri e non autorità, io non veggo necessità alcuna di distruggere un cittadino, se non quando la di lui morte fosse il vero ed unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti, secondo motivo per cui può credersi giusta e necessaria la pena di morte.
Quando la sperienza di tutt’i secoli, nei quali l’ultimo supplicio non ha mai distolti gli uomini determinati dall’offendere la società, quando l’esempio dei cittadini romani, e vent’anni di regno dell’imperatrice Elisabetta di Moscovia, nei quali diede ai padri dei popoli quest’illustre esempio, che equivale almeno a molte conquiste comprate col sangue dei figli della patria, non persuadessero gli uomini, a cui il linguaggio della ragione è sempre sospetto ed efficace quello dell’autorità, basta consultare la natura dell’uomo per sentire la verità della mia assersione.
Non è l’intensione della pena che fa il maggior effetto sull’animo umano, ma l’estensione di essa; perché la nostra sensibilità è piú facilmente e stabilmente mossa da minime ma replicate impressioni che da un forte ma passeggiero movimento. L’impero dell’abitudine è universale sopra ogni essere che sente, e come l’uomo parla e cammina e procacciasi i suoi bisogni col di lei aiuto, cosí l’idee morali non si stampano nella mente che per durevoli ed iterate percosse. Non è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno piú forte contro i delitti. Quell’efficace, perché spessissimo ripetuto ritorno sopra di noi medesimi, io stesso sarò ridotto a cosí lunga e misera condizione se commetterò simili misfatti, è assai piú possente che non l’idea della morte, che gli uomini veggon sempre in una oscura lontananza.
La pena di morte fa un’impressione che colla sua forza non supplisce alla pronta dimenticanza, naturale all’uomo anche nelle cose piú essenziali, ed accelerata dalle passioni. Regola generale: le passioni violenti sorprendono gli uomini, ma non per lungo tempo, e però sono atte a fare quelle rivoluzioni che di uomini comuni ne fanno o dei Persiani o dei Lacedemoni; ma in un libero e tranquillo governo le impressioni debbono essere piú frequenti che forti.
La pena di morte diviene uno spettacolo per la maggior parte e un oggetto di compassione mista di sdegno per alcuni; ambidue questi sentimenti occupano piú l'animo degli spettatori che non il salutare terrore che la legge pretende inspirare. Ma nelle pene moderate e continue il sentimento dominante è l’ultimo perché è il solo. Il limite che fissar dovrebbe il legislatore al rigore delle pene sembra consistere nel sentimento di compassione, quando comincia a prevalere su di ogni altro nell’animo degli spettatori d’un supplicio piú fatto per essi che per il reo.
Perché una pena sia giusta non deve avere che quei soli gradi d’intensione che bastano a rimuovere gli uomini dai delitti; ora non vi è alcuno che, riflettendovi, scieglier possa la totale e perpetua perdita della propria libertà per quanto avvantaggioso possa essere un delitto: dunque l’intensione della pena di schiavitù perpetua sostituita alla pena di morte ha ciò che basta per rimuovere qualunque animo determinato; aggiungo che ha di piú: moltissimi risguardano la morte con viso tranquillo e fermo, chi per fanatismo, chi per vanità, che quasi sempre accompagna l’uomo al di là dalla tomba, chi per un ultimo e disperato tentativo o di non vivere o di sortir di miseria; ma né il fanatismo né la vanità stanno fra i ceppi o le catene, sotto il bastone, sotto il giogo, in una gabbia di ferro, e il disperato non finisce i suoi mali, ma gli comincia. L’animo nostro resiste piú alla violenza ed agli estremi ma passeggieri dolori che al tempo ed all’incessante noia; perché egli può per dir cosí condensar tutto se stesso per un momento per respinger i primi, ma la vigorosa di lui elasticità non basta a resistere alla lunga e ripetuta azione dei secondi. Colla pena di morte ogni esempio che si dà alla nazione suppone un delitto; nella pena di schiavitù perpetua un sol delitto dà moltissimi e durevoli esempi, e se egli è importante che gli uomini veggano spesso il poter delle leggi, le pene di morte non debbono essere molto distanti fra di loro: dunque suppongono la frequenza dei delitti, dunque perché questo supplicio sia utile bisogna che non faccia su gli uomini tutta l’impressione che far dovrebbe, cioè che sia utile e non utile nel medesimo tempo. Chi dicesse che la schiavitù perpetua è dolorosa quanto la morte, e perciò egualmente crudele, io risponderò che sommando tutti i momenti infelici della schiavitù lo sarà forse anche di piú, ma questi sono stesi sopra tutta la vita, e quella esercita tutta la sua forza in un momento; ed è questo il vantaggio della pena di schiavitù, che spaventa piú chi la vede che chi la soffre; perché il primo considera tutta la somma dei momenti infelici, ed il secondo è dall’infelicità del momento presente distratto dalla futura. Tutti i mali s’ingrandiscono nell’immaginazione, e chi soffre trova delle risorse e delle consolazioni non conosciute e non credute dagli spettatori, che sostituiscono la propria sensibilità all’animo incallito dell’infelice.
Ecco presso a poco il ragionamento che fa un ladro o un assassino, i quali non hanno altro contrappeso per non violare le leggi che la forca o la ruota. So che lo sviluppare i sentimenti del proprio animo è un’arte che s’apprende colla educazione; ma perché un ladro non renderebbe bene i suoi principii, non per ciò essi agiscon meno. Quali sono queste leggi ch’io debbo rispettare, che lasciano un cosí grande intervallo tra me e il ricco? Egli mi nega un soldo che li cerco, e si scusa col comandarmi un travaglio che non conosce. Chi ha fatte queste leggi? Uomini ricchi e potenti, che non si sono mai degnati visitare le squallide capanne del povero, che non hanno mai diviso un ammuffito pane fralle innocenti grida degli affamati figliuoli e le lagrime della moglie. Rompiamo questi legami fatali alla maggior parte ed utili ad alcuni pochi ed indolenti tiranni, attacchiamo l’ingiustizia nella sua sorgente. Ritornerò nel mio stato d’indipendenza naturale, vivrò libero e felice per qualche tempo coi frutti del mio coraggio e della mia industria, verrà forse il giorno del dolore e del pentimento, ma sarà breve questo tempo, ed avrò un giorno di stento per molti anni di libertà e di piaceri. Re di un piccol numero, correggerò gli errori della fortuna, e vedrò questi tiranni impallidire e palpitare alla presenza di colui che con un insultante fasto posponevano ai loro cavalli, ai loro cani. Allora la religione si affaccia alla mente dello scellerato, che abusa di tutto, e presentandogli un facile pentimento ed una quasi certezza di eterna felicità, diminuisce di molto l'orrore di quell'ultima tragedia.
Ma colui che si vede avanti agli occhi un gran numero d’anni, o anche tutto il corso della vita che passerebbe nella schiavitù e nel dolore in faccia a’ suoi concittadini, co’ quali vive libero e sociabile, schiavo di quelle leggi dalle quali era protetto, fa un utile paragone di tutto ciò coll’incertezza dell’esito de’ suoi delitti, colla brevità del tempo di cui ne goderebbe i frutti. L’esempio continuo di quelli che attualmente vede vittime della propria inavvedutezza, gli fa una impressione assai piú forte che non lo spettacolo di un supplicio che lo indurisce piú che non lo corregge.
Non è utile la pena di morte per l’esempio di atrocità che dà agli uomini. Se le passioni o la necessità della guerra hanno insegnato a spargere il sangue umano, le leggi moderatrici della condotta degli uomini non dovrebbono aumentare il fiero esempio, tanto piú funesto quanto la morte legale è data con istudio e con formalità. Parmi un assurdo che le leggi, che sono l'espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l'omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall'assassinio, ordinino un pubblico assassinio.Quali sono le vere e le piú utili leggi? Quei patti e quelle condizioni che tutti vorrebbero osservare e proporre, mentre tace la voce sempre ascoltata dell’interesse privato o si combina con quello del pubblico. Quali sono i sentimenti di ciascuno sulla pena di morte? Leggiamoli negli atti d’indegnazione e di disprezzo con cui ciascuno guarda il carnefice, che è pure un innocente esecutore della pubblica volontà, un buon cittadino che contribuisce al ben pubblico, lo stromento necessario alla pubblica sicurezza al di dentro, come i valorosi soldati al di fuori. Qual è dunque l’origine di questa contradizione? E perché è indelebile negli uomini questo sentimento ad onta della ragione? Perché gli uomini nel piú secreto dei loro animi, parte che piú d’ogn’altra conserva ancor la forma originale della vecchia natura, hanno sempre creduto non essere la vita propria in potestà di alcuno fuori che della necessità, che col suo scettro di ferro regge l’universo.
Che debbon pensare gli uomini nel vedere i savi magistrati e i gravi sacerdoti della giustizia, che con indifferente tranquillità fanno strascinare con lento apparato un reo alla morte, e mentre un misero spasima nelle ultime angosce, aspettando il colpo fatale, passa il giudice con insensibile freddezza, e fors’anche con segreta compiacenza della propria autorità, a gustare i comodi e i piaceri della vita? Ah!, diranno essi, queste leggi non sono che i pretesti della forza e le meditate e crudeli formalità della giustizia; non sono che un linguaggio di convenzione per immolarci con maggiore sicurezza, come vittime destinate in sacrificio, all’idolo insaziabile del dispotismo. L’assassinio, che ci vien predicato come un terribile misfatto, lo veggiamo pure senza ripugnanza e senza furore adoperato. Prevalghiamoci dell’esempio. Ci pareva la morte violenta una scena terribile nelle descrizioni che ci venivan fatte, ma lo veggiamo un affare di momento. Quanto lo sarà meno in chi, non aspettandola, ne risparmia quasi tutto ciò che ha di doloroso! Tali sono i funesti paralogismi che, se non con chiarezza, confusamente almeno, fanno gli uomini disposti a’ delitti, ne’ quali, come abbiam veduto, l’abuso della religione può piú che la religione medesima.
Se mi si opponesse l’esempio di quasi tutt’i secoli e di quasi tutte le nazioni, che hanno data pena di morte ad alcuni delitti, io risponderò che egli si annienta in faccia alla verità, contro della quale non vi ha prescrizione; che la storia degli uomini ci dà l’idea di un immenso pelago di errori, fra i quali poche e confuse, e a grandi intervalli distanti, verità soprannuotano. Gli umani sacrifici furon comuni a quasi tutte le nazioni, e chi oserà scusargli? Che alcune poche società, e per poco tempo solamente, si sieno astenute dal dare la morte, ciò mi è piuttosto favorevole che contrario, perché ciò è conforme alla fortuna delle grandi verità, la durata delle quali non è che un lampo, in paragone della lunga e tenebrosa notte che involge gli uomini. Non è ancor giunta l’epoca fortunata, in cui la verità, come finora l’errore, appartenga al piú gran numero, e da questa legge universale non ne sono andate esenti fin ora che le sole verità che la Sapienza infinita ha voluto divider dalle altre col rivelarle.
La voce di un filosofo è troppo debole contro i tumulti e le grida di tanti che son guidati dalla cieca consuetudine, ma i pochi saggi che sono sparsi sulla faccia della terra mi faranno eco nell’intimo de’ loro cuori; e se la verità potesse, fra gl’infiniti ostacoli che l’allontanano da un monarca, mal grado suo, giungere fino al suo trono, sappia che ella vi arriva co’ voti segreti di tutti gli uomini, sappia che tacerà in faccia a lui la sanguinosa fama dei conquistatori e che la giusta posterità gli assegna il primo luogo fra i pacifici trofei dei Titi, degli Antonini e dei Traiani.
Felice l’umanità, se per la prima volta le si dettassero leggi, ora che veggiamo riposti su i troni di Europa monarchi benefici, animatori delle pacifiche virtú, delle scienze, delle arti, padri de’ loro popoli, cittadini coronati, l’aumento dell’autorità de’ quali forma la felicità de’ sudditi perché toglie quell’intermediario dispotismo piú crudele, perché men sicuro, da cui venivano soffogati i voti sempre sinceri del popolo e sempre fausti quando posson giungere al trono! Se essi, dico, lascian sussistere le antiche leggi, ciò nasce dalla difficoltà infinita di togliere dagli errori la venerata ruggine di molti secoli, ciò è un motivo per i cittadini illuminati di desiderare con maggiore ardore il continuo accrescimento della loro autorità.

IL VALORE DELL'ISTRUZIONE E LE RIFORME SCOLASTICHE DI MARIA TERESA D'AUSTRIA
http://www.fabbriscuola.it/espandiLibro/italiano/il_narratore/volume2/pdf/crankshaw_maria_teresa.pdf

PARINI
La poetica
1) http://online.scuola.zanichelli.it/letterautori-files/volume-2/pdf-online/11-parini.pdf

2) http://www.p4lmedia.net/pdf/lup_rossa/v4/Parte_IX/OnLine_NeRossa_T_014_vol_4.pdf


LA COLAZIONE DEL GIOVIN SIGNORE

"Ma già il ben pettinato entrar di nuovo
Tuo damigello i’ veggo; egli a te chiede
Quale oggi piú delle bevande usate
Sorbir ti piaccia in preziosa tazza:
Indiche merci son tazze e bevande;
Scegli qual più desii. S’oggi ti giova
Porger dolci allo stomaco fomenti,
Sí che con legge il natural calore
V’arda temprato, e al digerir ti vaglia,
Scegli il brun cioccolatte, onde tributo
Ti dà il Guatimalese e il Caribbèo
C’ha di barbare penne avvolto il crine:
Ma se noiosa ipocondria t’opprime,
O troppo intorno a le vezzose membra
Adipe cresce, de’ tuoi labbri onora
La nettarea bevanda, ove abbronzato
Fuma et arde il legume a te d’Aleppo
Giunto, e da Moca, che di mille navi
Popolata mai sempre insuperbisce.
Certo fu d’uopo che dal prisco seggio
Uscisse un regno, e con ardite vele
Fra straniere procelle e novi mostri
E teme e rischi ed inumane fami
Superasse i confin, per lunga etade
Invïolati ancora; e ben fu dritto
Se Cortes e Pizzarro umano sangue
Non istimâr quel ch’oltre l’Oceàno
Scorrea le umane membra, onde tonando
E fulminando, alfin spietatamente
Balzaron giú da’ loro aviti troni
Re Messicani e generosi Incassi;
Poiché nuove cosí venner delizie,
O gemma degli eroi, al tuo palato!"
(Il Mattino, vv. 125-157)


CARLO GOLDONI: La poetica

IL MONDO E IL TEATRO

Dirò con ingenuità, che sebben non ho trascurata la lettura de' più venera­bili e celebri Autori, da' quali, come da ottimi Maestri, non possono trarsi che utilissimi documenti ed esempli: contuttociò i due libri su' quali ho più meditato, e di cui non mi pentirò mai di essermi servito, furono il Mondo e il Teatro. Il primo mi mostra tanti e poi tanti vari carat­teri di persone, me li dipinge così al naturale, che paion fatti apposta per somministrarmi abbondantissimi argo­menti di graziose ed istruttive Commedie: mi rappresenta i segni, la forza, gli effetti di tutte le umane passioni: mi provvede di avvenimenti curiosi: m'informa de' correnti costumi: m'intruisce de' vizi e de' difetti che son più co­muni del nostro secolo e della nostra Nazione, i quali me­ritano la disapprovazione o la derisione de' Saggi; e nel tempo stesso mi addita in qualche virtuosa Persona i mezzi coi quali la Virtù a codeste corruttele resiste, ond'io da questo libro raccolgo, rivolgendolo sempre, o meditando­vi, in qualunque circostanza od azione della vita mi trovi, quanto è assolutamente necessario che si sappia da chi vuole con qualche lode esercitare questa mia professione. Il secondo poi, cioè il libro del Teatro, mentre io lo vo ma­neggiando, mi fa conoscere con quali colori si debban rappresentar sulle Scene i caratteri, le passioni, gli avvenimenti, che nel libro del Mondo si leggono; come si debba ombreggiarli per dar loro il maggiore rilievo, e quali sien quelle tinte, che più li rendon grati agli occhi dilicati degli spettatori. Imparo in somma dal Teatro a distinguere ciò ch'è più atto a far impressione sugli animi, a destar la maraviglia, o il riso, o quel tal dilettevole solletico nell'uman cuore, che nasce principalmente dal trovar nella Commedia che ascoltasi, effigiati al naturale, e posti con buon garbo nel loro punto di vista, i difetti e 'l ridicolo che trovasi in chi continuamente si pratica, in modo però che non urti troppo offendendo.
(Prefazione dell'autore alla prima raccolta delle sue Commedie, 1750)



L'Illuminismo e l'emancipazione della donna.
Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina
https://it.wikipedia.org/wiki/Dichiarazione_dei_diritti_della_donna_e_della_cittadina



LA LOCANDIERA 

Atto I, scena I
Sala di locanda.
Il Marchese di Forlipopoli ed il Conte d'Albafiorita

MARCHESE: Fra voi e me vi è qualche differenza.
CONTE: Sulla locanda tanto vale il vostro denaro, quanto vale il mio.
MARCHESE: Ma se la locandiera usa a me delle distinzioni, mi si convengono più che a voi.
CONTE: Per qual ragione?
MARCHESE: Io sono il Marchese di Forlipopoli.
CONTE: Ed io sono il Conte d'Albafiorita.
MARCHESE: Sì, Conte! Contea comprata.
CONTE: Io ho comprata la contea, quando voi avete venduto il marchesato.
MARCHESE: Oh basta: son chi sono, e mi si deve portar rispetto.
CONTE: Chi ve lo perde il rispetto? Voi siete quello, che con troppa libertà parlando...
MARCHESE: Io sono in questa locanda, perché amo la locandiera. Tutti lo sanno, e tutti devono rispettare una giovane che piace a me.
CONTE: Oh, questa è bella! Voi mi vorreste impedire ch'io amassi Mirandolina? Perché credete ch'io sia in Firenze? Perché credete ch'io sia in questa locanda?
MARCHESE: Oh bene. Voi non farete niente.
CONTE: Io no, e voi sì?
MARCHESE: Io sì, e voi no. Io son chi sono. Mirandolina ha bisogno della mia protezione.
CONTE: Mirandolina ha bisogno di denari, e non di protezione.
MARCHESE: Denari?... non ne mancano.
CONTE: Io spendo uno zecchino il giorno, signor Marchese, e la regalo continuamente.
MARCHESE: Ed io quel che fo non lo dico.
CONTE: Voi non lo dite, ma già si sa.
MARCHESE: Non si sa tutto.
CONTE: Sì! caro signor Marchese, si sa. I camerieri lo dicono. Tre paoletti il giorno.
MARCHESE: A proposito di camerieri; vi è quel cameriere che ha nome Fabrizio, mi piace poco. Parmi che la locandiera lo guardi assai di buon occhio.
CONTE: Può essere che lo voglia sposare. Non sarebbe cosa mal fatta. Sono sei mesi che è morto il di lei padre. Sola una giovane alla testa di una locanda si troverà imbrogliata. Per me, se si marita, le ho promesso trecento scudi.
MARCHESE: Se si mariterà, io sono il suo protettore, e farò io... E so io quello che farò.
CONTE: Venite qui: facciamola da buoni amici. Diamole trecento scudi per uno.
MARCHESE: Quel ch'io faccio, lo faccio segretamente, e non me ne vanto. Son chi sono. Chi è di là? (Chiama.)

CONTE: (Spiantato! Povero e superbo!). (Da sé.)

Atto I, scena IV
CAVALIERE: Perché siete venuti a simil contesa?
CONTE: Per un motivo il più ridicolo della terra.
MARCHESE: Sì, bravo! il Conte mette tutto in ridicolo.
CONTE: Il signor Marchese ama la nostra locandiera. Io l'amo ancor più di lui. Egli pretende corrispondenza, come un tributo alla sua nobiltà. Io la spero, come una ricompensa alle mie attenzioni. Pare a voi che la questione non sia ridicola?
MARCHESE: Bisogna sapere con quanto impegno io la proteggo.
CONTE: Egli la protegge, ed io spendo. (Al Cavaliere.)

CAVALIERE: In verità non si può contendere per ragione alcuna che io meriti meno. Una donna vi altera? vi scompone? Una donna? che cosa mai mi convien sentire? Una donna? Io certamente non vi è pericolo che per le donne abbia che dir con nessuno. Non le ho mai amate, non le ho mai stimate, e ho sempre creduto che sia la donna per l'uomo una infermità insopportabile.

Atto I, scena IX

MIRANDOLINA (sola)
"Uh, che mai ha detto! L'eccellentissimo signor Marchese Arsura mi sposerebbe? Eppure, se mi volesse sposare, vi sarebbe una piccola difficoltà. Io non lo vorrei. Mi piace l'arrosto, e del fumo non so che farne. Se avessi sposati tutti quelli che hanno detto volermi, oh, avrei pure tanti mariti! Quanti arrivano a questa locanda, tutti di me s'innamorano, tutti mi fanno i cascamorti; e tanti e tanti mi esibiscono di sposarmi a dirittura. E questo signor Cavaliere, rustico come un orso, mi tratta sì bruscamente? Questi è il primo forestiere capitato alla mia locanda, il quale non abbia avuto piacere di trattare con me. Non dico che tutti in un salto s'abbiano a innamorare: ma disprezzarmi così? è una cosa che mi muove la bile terribilmente. É nemico delle donne? Non le può vedere? Povero pazzo! Non avrà ancora trovato quella che sappia fare. Ma la troverà. La troverà. E chi sa che non l'abbia trovata? Con questi per l'appunto mi ci metto di picca. Quei che mi corrono dietro, presto presto mi annoiano. La nobiltà non fa per me. La ricchezza la stimo e non la stimo. Tutto il mio piacere consiste in vedermi servita, vagheggiata, adorata. Questa è la mia debolezza, e questa è la debolezza di quasi tutte le donne. A maritarmi non ci penso nemmeno; non ho bisogno di nessuno; vivo onestamente, e godo la mia libertà. Tratto con tutti, ma non m'innamoro mai di nessuno. Voglio burlarmi di tante caricature di amanti spasimati; e voglio usar tutta l'arte per vincere, abbattere e conquassare quei cuori barbari e duri che son nemici di noi, che siamo la miglior cosa che abbia prodotto al mondo la bella madre natura."  

Atto III · Scena XIII

MIRANDOLINA (sola)
"Oh meschina me! Sono nel brutto impegno! Se il Cavaliere mi arriva, sto fresca. Si è indiavolato maledettamente. Non vorrei che il diavolo lo tentasse di venir qui. Voglio chiudere questa porta. (Serra la porta da dove è venuta.) Ora principio quasi a pentirmi di quel che ho fatto. È vero che mi sono assai divertita nel farmi correr dietro a tal segno un superbo, un disprezzator delle donne; ma ora che il satiro è sulle furie, vedo in pericolo la mia riputazione e la mia vita medesima. Qui mi convien risolvere quelche cosa di grande. Son sola, non ho nessuno dal cuore che mi difenda. Non ci sarebbe altri che quel buon uomo di Fabrizio, che in tal caso mi potesse giovare. Gli prometterò di sposarlo... Ma... prometti, prometti, si stancherà di credermi... Sarebbe quasi meglio ch'io lo sposassi davvero. Finalmente con un tal matrimonio posso sperar di mettere al coperto il mio interesse e la mia reputazione, senza pregiudicare alla mia libertà. "


Scena ultima

MIRANDOLINA: Signori miei, ora che mi marito, non voglio protettori, non voglio spasimanti, non voglio regali. Sinora mi sono divertita, e ho fatto male, e mi sono arrischiata troppo, e non lo voglio fare mai più. Questi è mio marito...
FABRIZIO: Ma piano, signora...
MIRANDOLINA: Che piano! Che cosa c'è? Che difficoltà ci sono? Andiamo. Datemi quella mano.
FABRIZIO: Vorrei che facessimo prima i nostri patti.
MIRANDOLINA: Che patti? Il patto è questo: o dammi la mano, o vattene al tuo paese.
FABRIZIO: Vi darò la mano... ma poi...
MIRANDOLINA: Ma poi, sì, caro, sarò tutta tua; non dubitare di me ti amerò sempre, sarai l'anima mia.
FABRIZIO: Tenete, cara, non posso più. (Le dà la mano.)


LA LOCANDIERA - L'AUTORE A CHI LEGGE
Fra tutte le Commedie da me sinora composte, starei per dire essere questa la più morale, la più utile, la più istruttiva. Sembrerà ciò essere un paradosso a chi soltanto vorrà fermarsi a considerare il carattere della Locandiera, e dirà anzi non aver io dipinto altrove una donna più lusinghiera, più pericolosa di questa. Ma chi rifletterà al carattere e agli avvenimenti del Cavaliere, troverà un esempio vivissimo della presunzione avvilita, ed una scuola che insegna a fuggire i pericoli, per non soccombere alle cadute.

Mirandolina fa altrui vedere come s’innamorano gli uomini. Principia a entrar in grazia del disprezzator delle donne, secondandolo nel modo suo di pensare, lodandolo in quelle cose che lo compiacciono, ed eccitandolo perfino a biasimare le donne istesse. Superata con ciò l’avversione che aveva il Cavaliere per essa, principia a usargli delle attenzioni, gli fa delle finezze studiate, mostrandosi lontana dal volerlo obbligare alla gratitudine. Lo visita, lo serve in tavola, gli parla con umiltà e con rispetto, e in lui vedendo scemare la ruvidezza, in lei s’aumenta l’ardire.

Dice delle tronche parole, avanza degli sguardi, e senza ch’ei se ne avveda, gli dà delle ferite mortali. Il pover’uomo conosce il pericolo, e lo vorrebbe fuggire, ma la femmina accorta con due lagrimette l’arresta, e con uno svenimento l’atterra, lo precipita, l’avvilisce. Pare impossibile, che in poche ore un uomo possa innamorarsi a tal segno: un uomo, aggiungasi, disprezzator delle donne, che mai ha seco loro trattato; ma appunto per questo più facilmente egli cade, perché sprezzandole senza conoscerle, e non sapendo quali sieno le arti loro, e dove fondino la speranza de’ loro trionfi, ha creduto che bastar gli dovesse a difendersi la sua avversione, ed ha offerto il petto ignudo ai colpi dell’inimico.

Io medesimo diffidava quasi a principio di vederlo innamorato ragionevolmente sul fine della Commedia, e pure, condotto dalla natura, di passo in passo, come nella Commedia si vede, mi è riuscito di darlo vinto alla fine dell’Atto secondo. Io non sapeva quasi cosa mi fare nel terzo, ma venutomi in mente, che sogliono coteste lusinghiere donne, quando vedono ne’ loro lacci gli amanti, aspramente trattarli, ho voluto dar un esempio di questa barbara crudeltà, di questo ingiurioso disprezzo con cui si burlano dei miserabili che hanno vinti, per mettere in orrore la schiavitù che si procurano gli sciagurati, e rendere odioso il carattere delle incantatrici Sirene.


La Scena dello stirare, allora quando la Locandiera si burla del Cavaliere che languisce, non muove gli animi a sdegno contro colei, che dopo averlo innamorato l’insulta? Oh bello specchio agli occhi della gioventù! Dio volesse che io medesimo cotale specchio avessi avuto per tempo, che non avrei veduto ridere del mio pianto qualche barbara Locandiera. Oh di quante Scene mi hanno provveduto le mie vicende medesime!... Ma non è il luogo questo né di vantarmi delle mie follie, né di pentirmi delle mie debolezze. Bastami che alcun mi sia grato della lezione che gli offerisco. Le donne che oneste sono, giubileranno anch’esse che si smentiscano codeste simulatrici, che disonorano il loro sesso, ed esse femmine lusinghiere arrossiranno in guardarmi, e non importa che mi dicano nell’incontrarmi: che tu sia maledetto!

LA LOCANDIERA

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L'ITALIANO DI GOLDONI
Per le commedie in italiano Goldoni fa invece riferimento non a uno specifico modello di parlato reale ma al «linguaggio più comune», ad una sorta di koinè dell’uso le cui forme sarebbero suonate familiari al pubblico socialmente e geograficamente differenziato che egli intendeva raggiungereIl sincretismo della lingua goldoniana, nella quale coesistono calchi dal veneziano, forme letterarie, screziature auliche, modi toscani, fraseggi colloquiali e frequenti francesismi, riflette la natura sperimentale di uno strumento che vorrebbe soddisfare insieme esigenze di ancoramento realistico e di generalizzazione comunicativa. Goldoni in parte “scopre” e
in parte “inventa” un italiano della conversazione quotidiana, e lo tesse con dialoghi che, se non hanno né possono avere la precisione e l’intensità del vissuto dialettale dei Rusteghi (1760) o delle Baruffe chiozzotte (1762), hanno comunque il piglio naturale del parlato, e riescono a caratterizzare la voce concreta del personaggio in rapporto alla sua psicologia, allo strato sociale, alle circostanze dell’enunciazione
cfr.: http://www.inlimine.it/ojs/index.php/in_limine/article/download/385/476



***


ALFIERI, "SALVATICO PENSATORE"
da "Vita scritta da esso"


 Io avrei in quel soggiorno di Vienna potuto facilmente conoscere e praticare il celebre poeta Metastasio, nella di cui casa ogni giorno il nostro ministro, il degnissimo conte di Canale, passava di molte ore la sera in compagnia scelta di altri pochi letterati, dove si leggeva seralmente alcuno squarcio di classici o greci, o latini, o italiani. E quell'ottimo vecchio conte di Canale, che mi affezionava, e moltissimo compativa i miei perditempi, mi propose piú volte d'introdurmivi. Ma io, oltre all'essere di natura ritrosa, era anche tutto ingolfato nel francese, e sprezzava ogni libro ed autore italiano.
Onde quell'adunanza di letterati di libri classici mi parea dover essere una fastidiosa brigata di pedanti. Si aggiunga, che io avendo veduto il Metastasio a Schoenbrunn nei giardini imperiali fare a Maria Teresa la genuflessioncella di uso, con una faccia sí servilmente lieta e adulatoria, ed io
giovenilmente plutarchizzando, mi esagerava talmente il vero in astratto, che io non avrei consentito mai di contrarre né amicizia né familiarità con una Musa appigionata o venduta
all'autorità despotica da me sí caldamente abborrita. In tal guisa io andava a poco a poco assumendo il carattere di un salvatico pensatore; e queste disparate accoppiandosi poi con le passioni naturali all'età di vent'anni e le loro conseguenze naturalissime, venivano a formar di me un tutto assai originale e risibile.
Proseguii nel settembre il mio viaggio verso Praga e Dresda, dove mi trattenni da un mese; indi a Berlino, dove dimorai altrettanto. All'entrare negli stati del gran Federico, che mi parvero la continuazione di un solo corpo di guardia, mi sentii raddoppiare e triplicare l'orrore per quell'infame
mestier militare, infamissima e sola base dell'autorità arbitraria, che sempre è il necessario frutto di tante migliaia di assoldati satelliti. Fui presentato al re. Non mi sentii nel vederlo alcun moto né di maraviglia né di rispetto, ma d'indegnazione bensí e di rabbia; moti che si andavano in me ogni giorno afforzando e moltiplicando alla vista di quelle tante e poi tante diverse cose che non istanno come dovrebbero stare, e che essendo false si usurpano pure la faccia e la fama di vere. Il conte di Finch, ministro del re, il quale mi presentava, mi domandò perché io, essendo pure in servizio del mio re, non avessi quel giorno indossato l'uniforme. Risposigli: "Perché in quella corte mi parea ve
ne fossero degli uniformi abbastanza". Il re mi disse quelle quattro solite parole di uso; io l'osservai profondamente, ficcandogli rispettosamente gli occhi negli occhi; e ringraziai il cielo di non mi aver fatto nascer suo schiavo. Uscii di quella universal caserma prussiana verso il mezzo novembre,
abborrendola quanto bisognava. 
(Epoca III, cap. VIII)





E il primo di tutti i rimedj contro alla tirannide,
ancorché tacito e lento, egli è pur sempre il sentirla;
e sentirla vivamente i molti non possono,
(abbenché oppressi ne siano)
là dove i pochi non osino appien disvelarla. 
(V. Alfieri, Della tirannide)
Della tirannide
Capitolo Primo – COSA SIA IL TIRANNO 


TIRANNO, era il nome con cui i Greci (quei veri uomini) chiamavano coloro che appelliamo noi re. E quanti, o per forza, o per frode, o per volontà pur anche del popolo o dei grandi, otteneano le redini assolute del governo, e maggiori credeansi ed erano delle leggi, tutti indistintamente a vicenda o re o tiranni venivano appellati dagli antichi.
Divenne un tal nome, coll'andar del tempo, esecrabile; e tale necessariamente farsi dovea. Quindi ai tempi nostri, quei principi stessi che la tirannide esercitano, gravemente pure si
offendono di essere nominati tiranni.
Tra le moderne nazioni non si dà dunque il titolo di tiranno, se non se (sommessamente e tremando) a quei soli principi, che tolgono senza formalità nessuna ai lor sudditi le vite, gli averi, e l'onore. Re all'incontro, o principi, si chiamano quelli, che di codeste cose tutte potendo pure ad arbitrio loro disporre, ai sudditi non dimanco le lasciano; o non le tolgono almeno, che sotto un qualche velo di apparente giustizia. E benigni, e giusti re si estimano questi, perché, potendo essi ogni altrui cosa rapire con piena impunità, a dono si ascrive tutto ciò ch'ei non pigliano.

Capitolo Secondo – COSA SIA LA TIRANNIDE 
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno;

ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. 

Capitolo Terzo – DELLA PAURA
I Romani liberi, popolo al quale noi non rassomigliamo in nulla, come sagaci conoscitori del cuor dell'uomo, eretto aveano un tempio alla Paura; e, creatala Dea, le assegnavano sacerdoti, e le sagrificavano vittime. Le corti nostre a me pajono una viva immagine di questo culto antico, benché per tutt'altro fine instituite. Il tempio è la reggia; il tiranno n'è l'idolo; i cortigiani ne sono i sacerdoti; la libertà nostra, e quindi gli onesti costumi, il retto pensare, la virtù, l'onor vero, e noi stessi; son queste le vittime che tutto dì vi s'immolano.
Disse il dotto Montesquieu, che base e molla della monarchia ella era l'onore. Non conoscendo io, e non credendo a codesta ideale monarchia, dico, e spero di provare che base e molla della tirannide ella è la sola paura.
E da prima, io distinguo la paura in due specie, chiaramente fra loro diverse, sì nella cagione che negli effetti; la paura dell'oppresso, e la paura dell'oppressore.
Teme l'oppresso, perché oltre quello ch'ei soffre tuttavia, egli benissimo sa non vi essere altro limite ai suoi patimenti che l'assoluta volontà e l'arbitrario capriccio dell'oppressore. Da un così incalzante e smisurato timore ne dovrebbe pur nascere (se l'uom ragionasse) una disperata risoluzione di non voler più soffrire: e questa, appena verrebbe a procrearsi
concordemente in tutti o nei più, immediatamente ad ogni lor patimento perpetuo fine porrebbe. Eppure, al contrario, nell'uomo schiavo ed oppresso, dal continuo ed eccessivo
temere nasce vie più sempre maggiore ed estrema la circospezione, la cieca obbedienza, il rispetto e la sommissione al tiranno; e crescono a segno, che non si possono aver maggiori mai per un Dio.
Ma, teme altresì l'oppressore. E nasce in lui giustamente il timore della coscienza della propria debolezza effettiva, e in un tempo, dell'accattata sterminata sua forza ideale.
Rabbrividisce nella sua reggia il tiranno (se l'assoluta autorità non lo ha fatto stupido appieno) allorché si fa egli ad esaminare quale smisurato odio il suo smisurato potere debba necessariamente destare nel cuore di tutti. 

La conseguenza del timor del tiranno riesce affatto diversa da quella del timore del suddito; o, per meglio dire, ella è simile in un senso contrario; in quanto, né egli, né i popoli, non emendano questo loro timore come per natura e ragione il dovrebbero; i popoli, col non voler più soggiacere all'arbitrio d'un solo; i tiranni, col non voler più sovrastare a tutti per via della forza. Ed in fatti, spaventato dalla propria potenza, sempre mal sicura quando ella è eccessiva, pare che dovrebbe il tiranno renderla alquanto meno terribile altrui, se non con infrangibili limiti, almeno coll'addolcirne ai sudditi il peso.
(...)Il timore e il sospetto, indivisibili compagni d'ogni forza illegittima (e illegittimo è tutto ciò che limiti non conosce) offuscano talmente l'intelletto del tiranno anche mite per indole, che egli ne diviene per forza crudele, e pronto sempre ad offendere, e a prevenire gli effetti dell'altrui odio meritato e sentito. Egli perciò crudelissimamente suole punire ogni menomo tentativo dei sudditi contro a quella sua propria autorità ch'egli stesso conosce eccessiva; e non lo punisce allor quando eseguito sia, o intrapreso, ma quando egli suppone, o finge anche di supporre, che un tal tentativo possa solamente essere stato concepito.
La esistenza reale di queste due paure non è difficile a dimostrarsi. Di quella dei sudditi, argomentando ciascuno di noi dalla propria, non ne dubiterà certamente nessuno: della paura dei tiranni, assai ne fan fede i tanti e così diversi sgherri, che giorno e notte li servono e custodiscono. 

Alfieri, Del Principe e delle lettere, II,5



Alfieri, Rime, XVIII

Bieca, o Morte, minacci? e in atto orrenda,
l'adunca falce a me brandisci innante?
Vibrala, su: me non vedrai tremante
pregarti mai, che il gran colpo sospenda.

Nascer si, nascer chiamo aspra vicenda,

non già il morire, ond'io d'angosce tante
scevro rimango, e un solo breve istante
dè miei servi natali il fallo ammenda.

Morte a troncar l'obbrobbriosa vita

che in ceppi io traggo, io di servir non degno
che indugi omai, se il tuo indugiar m'irrita?

Sottrammi ai re, cui sol da orgoglio e regno

viltà dei più, ch'a inferocir gl'invita
e a prevenir dei pochi il tardo sdegno.


SCRIVERE PER IL TEATRO:
IDEARE, STENDERE, VERSEGGIARE
 E qui per l'intelligenza del lettore mi conviene spiegare queste mie parole di cui mi vo servendo sì spesso, ideare, stendere, e verseggiare. Questi tre respiri con cui ho sempre dato l'essere alle mie tragedie, mi hanno per lo più procurato il beneficio del tempo, così necessario a ben ponderare un componimento di quella importanza; il quale se mai nasce male, difficilmente poi si raddrizza. Ideare dunque io chiamo, il distribuire il soggetto in atti e scene, stabilire e fissare il numero dei personaggi, e in due paginucce di prosaccia farne quasi l'estratto a scena per scena di quel che diranno e faranno. Chiamo poi stendere, qualora ripigliando quel primo foglio, a norma della traccia accennata ne riempio le scene dialogizzando in prosa come viene la tragedia intera, senza rifiutar un pensiero, qualunque ei siasi, e scrivendo con impeto quanto ne posso avere, senza punto badare al come. Verseggiare finalmente chiamo non solamente il porre in versi quella prosa, ma col riposato intelletto assai tempo dopo scernere tra quelle lungaggini del primo getto i migliori pensieri, ridurli a poesia, e leggibili. Segue poi come di ogni altro componimento il dover successivamente limare, levare, mutare; ma se la tragedia non v'è nell'idearla e distenderla, non si ritrova certo mai più con le fatiche posteriori.
(Alfieri, Vita scritta da esso, Epoca IV, cap. IV)

SAUL (1782)
ATTO QUINTO 
Scena quarta 

Saul, Micol, Abner,con pochi soldati fuggitivi

ABNER
Oh re infelice! . . . Or dove,
deh! dove corri? Orribil notte è questa. 

SAUL
Ma, perché la battaglia? 

ABNER
Di repente,
il nemico ci assale: appien sconfitti 
siam noi !

SAUL
Sconfitti? E tu fellon, tu vivi? 

ABNER
Io? per salvarti vivo. Or or qui forse
Filiste inonda: il fero impeto primo
forza è schivare: aggiornerà frattanto.
Te più all'erta quassù, fra i pochi miei, 
trarrò. . . 

SAUL
Ch'io viva, ove il mio popol cade? 

MICOL
Deh! vieni . . . Oimè! cresce il fragor: s'inoltra. . .

SAUL
Gionata, . . . e i figli miei, . . . fuggono anch'essi? 
mi abbandonano? . . . 

ABNER
Oh cielo! . . . I figli tuoi, . . . 
no, non fuggiro . . . Ahi miseri! 

SAUL
T'intendo: 
morti or cadono tutti 

MICOL
Oimè! . . . I fratelli? . . . 

ABNER
Ah! più figli non hai. 
Ch'altro mi avanza? 
Tu sola omai, ma non a me, rimani.- 
Io da gran tempo in cor già tutto ho fermo: 
e giunta è l'ora.-Abner, l'estremo è questo 
de' miei comandi. Or la mia figlia scorgi 
in securtà. 

MICOL
No, padre; a te dintorno 
mi avvinghierò: contro a donzella il ferro 
non vibrerà il nemico. 

SAUL
Oh figlia! . . . Or, taci: 
non far, ch'io pianga. Vinto re non piange. 
Abner, salvala, va': ma, se pur mai 
ella cadesse infra nemiche mani, 
deh! non dir, no, che di Saulle è figlia; 
tosto di' lor, ch'ella è di David sposa; 
rispetteranla. Va'; vola 

ABNER
S'io nulla 
valgo, fia salva, il giuro; ma ad un tempo 
te pur 

MICOL
Deh! . . . padre . . . Io non ti vo', non voglio 
lasciarti. 

SAUL
Lo voglio: e ancora il re son io. 
Ma già si appressan l'armi: Abner, deh! vola: 
teco, anco a forza, s'è mestier, la traggi. 

MICOL
Padre! . . . e per sempre? . . .

ATTO QUINTO 
Scena quinta 
Saul

SAUL
Oh figli miei! . . .-Fui padre.-
Eccoti solo, o re ;non ti resta
dei tanti amici, o servi tuoi.--Sei paga,
d'inesorabil Dio terribil ira?- 
Ma, tu mi resti, o brando: all'ultim'uopo, 
fido ministro, or vieni.-Ecco già gli urli 
dell'insolente vincitor: sul ciglio 
già lor fiaccole ardenti balenarmi 
veggo, e le spade a mille . . .-Empia Filiste, 

me troverai, ma almen da re, qui . . . morto

Antigone (1783)
Antigone.

O Polinice, o da me pianto invano
Fratel finor... Passò stagion del pianto;
Tempo è d’oprar. (41-42)                                            Attivismo
(…)
Ad onta, oggi, da me, il vietato rogo,
L’esequie estreme, o la mia vita avrai. (44-45)
(…)
Degli insepolti l’inaudita legge
Creonte in Tebe promulgò. Chi ardiva
Romperla
qui; chi, se non io? (176-178)         Opposizione all'autorità e individualismo eroico 

(Antigone rivolta a Creonte)
Che nomi tu gli Dei? Tu, ch’altro Dio
Non hai, che l’util tuo: per cui se’ presto
Ad immolar e Amici, e Figli; e Fama;
Se pur n’avessi. (251-254)