La scuola di Atene

La scuola di Atene

domenica 30 settembre 2018

LA FAVOLA E LA FIABA

La favola classica
I più noti rappresentanti del genere favolistico in età antica furono Esopo in Grecia e Fedro a Roma.


Tratti caratteristici del genere:
- Brevità
- Personaggi zoomorfi con funzione allegorica
- Contesto realistico e quotidiano
- Morale esplicita o implicita
- Schema narrativo standardizzato (prologo - situazione iniziale; svolgimento; epilogo-conclusione)
Esempiohttp://tuttoscuola.altervista.org/favole/favole-cervo.htm


FEDRO - TESTI LATINI

Dichiarazione di poetica
Libro I, Prologus
Aesopus auctor quam materiam repperit,
hanc ego polivi versibus senariis.
Duplex libelli dos est: quod risum movet,
et quod prudenti vitam consilio monet.
Calumniari si quis autem voluerit,
quod arbores loquantur, non tantum ferae,
fictis iocari nos meminerit fabulis

La legge del più forte
LUPUS ET AGNUS (I,1)
Ad rivum eundem lupus et agnus venerant,
siti compulsi. Superior stabat lupus,
longeque inferior agnus. Tunc fauce improba
latro incitatus iurgii causam intulit:
"Cur - inquit - turbulentam fecisti mihi
aquam bibenti?".  Laniger contra timens:
"Quomodo possum, quaeso, facere quod quereris, lupe?
A te decurrit ad meos haustus liquor".
Repulsus ille veritatis viribus:
"Ante hos sex menses male - ait - dixisti mihi".
Respondit agnus: "Equidem natus non eram".
"Pater hercle tuus ibi - ille inquit - male dixit mihi".
Atque ita correptum lacerat iniusta nece.
Haec propter illos scripta est homines fabula

qui fictis causis innocentes opprimunt.




La favola moderna
Mentre la favola classica è impostata sul contrasto vizio/virtù, secondo uno schema esclusivamente moraleggiante e si basa su pochi personaggi, la favola moderna ha una maggiore ricchezza narrativa, presenta temi di impegno sociale e civile (amore per la natura, solidarietà, rispetto per gli altri, generosità disinteressata) e risulta propositiva, rispetto ai modelli di Esopo e Fedro, caratterizzati, invece, dall'etica della rassegnazione (prevale la legge del più forte, i prepotenti vincono sempre, sembra inutile ogni sforzo per modificare la realtà).

Luis Sepúlveda, La gabbianella e il gatto che le insegnò a volare
- Banco di aringhe a sinistra! - annunciò il gabbiano di vedetta, e lo stormo del Faro della Sabbia Rossa accolse la notizia con strida di sollievo. Da sei ore volavano senza interruzione, e anche se i gabbiani pilota li avevano guidati lungo correnti di aria calda che rendevano piacevole planare sopra l'oceano, sentivano il bisogno di rimettersi in forze, e cosa c'era di meglio per questo di una buona scorpacciata di aringhe? Volavano sopra la foce del fiume Elba, nel mare del Nord. Dall'alto vedevano le navi in fila indiana, come pazienti e disciplinati animali acquatici, in attesa del loro turno per uscire in mare aperto e poi far rotta per tutti i porti della Terra. A Kengah, una gabbiana dalle piume color argento, piaceva particolarmente osservare le bandiere delle navi, perché sapeva che ognuna rappresentava un modo di parlare, di chiamare le stesse cose con parole diverse. - Com'è difficile per gli umani. Noi gabbiani, invece, stridiamo nello stesso modo in tutto il mondo - commentò una volta Kengah con un compagno di volo. - Proprio così. E la cosa più straordinaria è che ogni tanto riescono anche a capirsi stridette l'altro.

(…) Seguendo le istruzioni dei gabbiani pilota, lo stormo del Faro della Sabbia Rossa imboccò una corrente d'aria fredda e si lanciò in picchiata sul banco di aringhe. Centoventi corpi bucarono l'acqua come frecce e, quando risalirono a galla, ogni gabbiano stringeva un pesce nel becco. Aringhe saporite. Saporite e grasse.

(…) Kengah infilò la testa sott'acqua per acchiappare la quarta aringa, e così non sentì il grido d'allarme che fece tremare l'aria: - Pericolo a dritta! Decollo d'emergenza! Quando Kengah tirò di nuovo fuori la testa, si ritrovò sola nell'immensità dell'oceano.

(…) Kengah aprì le ali per spiccare il volo, ma l'onda densa fu più rapida e la sommerse completamente. Quando tornò a galla la luce del giorno era scomparsa, e dopo aver scosso il capo con energia capì che la maledizione dei mari le stava oscurando la vista. Kengah, la gabbiana dalle piume d'argento, tuffò varie volte la testa sott'acqua, sinché qualche filo di luce non raggiunse le sue pupille coperte di petrolio. La macchia vischiosa, la peste nera, le incollava le ali al corpo, così iniziò a muovere le zampe sperando di potersi allontanare rapidamente a nuoto dal centro dell'onda scura.   Con tutti i muscoli tormentati dai crampi per lo sforzo, raggiunse finalmente il limite della macchia di petrolio e sentì il fresco contatto dell'acqua pulita. Quando, a forza di sbattere le palpebre e di tuffare la testa, riuscì a pulirsi gli occhi, guardò il cielo, ma vide solo alcune nuvole che si frapponevano tra il mare e l'immensità della volta celeste. I suoi compagni dello stormo del Faro della Sabbia Rossa dovevano volare ormai lontano, molto lontano.

Era la legge. Anche lei aveva visto altri gabbiani sorpresi dalle mortifere onde nere, e nonostante il desiderio di scendere a offrire loro un aiuto tanto inutile quanto impossibile, si era allontanata, rispettando la legge che proibisce di assistere alla morte dei compagni. Con le ali immobilizzate, incollate ai corpi, i gabbiani erano facile preda dei grandi pesci, o morivano lentamente, asfissiati dal petrolio che penetrando fra le piume tappava loro tutti i pori.

Era questa la morte che la aspettava, e desiderò scomparire presto tra le fauci di un grosso pesce.

La macchia nera. La peste nera. Mentre aspettava la fine fatale, Kengah maledisse gli umani. - Ma non tutti. Non devo essere ingiusta - stridette debolmente. Spesso, dall'alto, aveva visto come grandi petroliere approfittavano delle giornate di nebbia costiera per andare al largo a lavare le loro cisterne. Rovesciavano in mare migliaia di litri di una sostanza densa e pestilenziale che veniva trascinata via dalle onde. Ma a volte aveva visto anche delle piccole imbarcazioni che si avvicinavano alle petroliere e impedivano loro di svuotare le cisterne. Disgraziatamente quelle barche ornate dai colori dell'arcobaleno non sempre arrivavano in tempo per impedire l'avvelenamento dei mari. Kengah passò le ore più lunghe della sua vita posata sull'acqua, chiedendosi atterrita se per caso non la aspettava la più terribile delle morti: peggio che essere divorata da un pesce, peggio che patire l'angoscia dell'asfissia, era morire di fame.

Disperata all'idea di una fine lenta si agitò e con stupore si accorse che il petrolio non le aveva incollato le ali al corpo. Aveva le piume impregnate di quella sostanza densa, ma almeno poteva spiegarle. - Forse ho ancora una possibilità di uscire da qui, e volando in alto, molto in alto, forse il sole scioglierà il petrolio - stridette Kengah. 8 Le tornò alla mente una storia, raccontatale da un vecchio gabbiano delle isole Frisoni, che parlava di un umano chiamato Icaro che, per realizzare il sogno del volo, si era costruito delle ali con piume di aquila ed era volato in alto, vicinissimo al sole, tanto che il calore aveva sciolto la cera con cui aveva incollato le piume ed era precipitato. Kengah batté energicamente le ali, ritirò le zampe, si innalzò di un paio di palmi, e ricadde sulle onde. Prima di tentare ancora si immerse e agitò le ali sott'acqua. Questa volta salì di un metro prima di cadere.

Quel dannato petrolio le incollava le piume della coda, di modo che non riusciva a governare il decollo. Si tuffò ancora una volta e con il becco cercò di tirar via lo strato di sporco che le copriva la coda.

(…) Al quinto tentativo Kengah riuscì a spiccare il volo. Batteva le ali con disperazione perché il peso della cappa di petrolio non le permetteva di planare. Un solo attimo di riposo e sarebbe precipitata. Per fortuna era una gabbiana giovane e i suoi muscoli rispondevano adeguatamente. Guadagnò quota. Senza mai smettere di battere le ali guardò giù e vide la costa profilarsi appena come una linea bianca.

(…)  Kengah capì che le forze non le sarebbero durate ancora a lungo e, cercando un posto per scendere, volò verso l'entroterra, seguendo la serpeggiante linea verde dell'Elba. Il movimento delle sue ali si fece sempre più lento e pesante. Perdeva vigore. Adesso non volava più così in alto. In un disperato tentativo di riprendere quota chiuse gli occhi e batté le ali con le ultime energie. Non sapeva per quanto tempo era rimasta a occhi chiusi, ma quando li riaprì stava sorvolando un'alta torre ornata da una banderuola d'oro. - San Michele! - stridette riconoscendo il campanile della chiesa di Amburgo. Le sue ali si rifiutarono di continuare a volare.

Il gatto nero grande e grosso prendeva il sole sul balcone, facendo le fusa e meditando su come si stava bene lì, a pancia all'aria sotto quei raggi tiepidi, con tutte e quattro le zampe ben ritratte e la coda distesa. Nel preciso istante in cui si girava pigramente per farsi scaldare la schiena dal sole, sentì il sibilo provocato da un oggetto volante che non seppe identificare e che si avvicinava a grande velocità. Vigile, balzò in piedi sulle zampe e fece appena in tempo a scansarsi per schivare la gabbiana che cadde sul balcone. Era un uccello molto sporco. Aveva tutto il corpo impregnato di una sostanza scura e puzzolente.

Zorba si avvicinò e la gabbiana tentò di alzarsi trascinando le ali.

- Non è stato un atterraggio molto elegante - miagolò.

- Mi dispiace. Non ho potuto evitarlo - ammise la gabbiana.

- Senti, sembri ridotta malissimo. Cos'è quella roba che hai addosso? E come puzzi! - miagolò Zorba. - Sono stata raggiunta da un'onda nera. Dalla peste nera. La maledizione dei mari. Morirò - stridette accorata la gabbiana.

- Morire? Non dire così. Sei solo stanca e sporca. Tutto qua. Perché non voli fino allo zoo? Non è lontano e là hanno veterinari che potranno aiutarti - miagolò Zorba.

- Non ce la faccio. Questo è stato il mio ultimo volo - stridette la gabbiana con voce quasi impercettibile e chiuse gli occhi.

- Non morire! Riposati un po' e vedrai che ti riprendi. Hai fame? Ti porterò un po' del mio cibo, ma non morire - pregò Zorba avvicinandosi alla gabbiana esausta. Vincendo la ripugnanza, il gatto le leccò la testa. La sostanza di cui era coperta aveva anche un sapore orribile. Mentre le passava la lingua sul collo notò che la respirazione dell'uccello si faceva sempre più debole.

- Senti, amica, io vogIio aiutarti, ma non so come. Cerca di riposare mentre vado a chiedere cosa si fa con un gabbiano ammalato - miagolò Zorba prima di arrampicarsi sul tetto. Si stava allontanando in direzione dell'ippocastano quando sentì che la gabbiana lo chiamava.

- Vuoi che ti lasci un po' del mio cibo? - suggerì, leggermente sollevato.

- Voglio deporre un uovo. Con le ultime forze che mi restano voglio deporre un uovo. Amico gatto, si vede che sei un animale buono e di nobili sentimenti. Per questo ti chiedo di farmi tre promesse. Mi accontenterai? - stridette agitando goffamente le zampe nel vano tentativo di alzarsi in piedi. Zorba pensò che la povera gabbiana stava delirando e che con un uccello in uno stato così pietoso si poteva solo essere generosi.

- Ti prometto tutto quello che vuoi. Ma ora riposa - miagolò impietosito.

- Non ho tempo di riposare. Promettimi che non ti mangerai l'uovo - stridette aprendo gli occhi. - Prometto che non mi mangerò l'uovo - ripeté Zorba.

- Promettimi che ne avrai cura finché non sarà nato il piccolo - stridette sollevando il capo.

- Prometto che avrò cura dell'uovo finché non sarà nato il piccolo.

- E promettimi che gli insegnerai a volare - stridette guardando fisso negli occhi il gatto. Allora Zorba si rese conto che quella sfortunata gabbiana non solo delirava, ma era completamente pazza.

- Prometto che gli insegnerò a volare. E ora riposa, io vado in cerca di aiuto - miagolò Zorba balzando direttamente sul tetto.

Kengah guardò il cielo, ringraziò tutti i buoni venti che l'avevano accompagnata e proprio mentre esalava l'ultimo respiro, un ovetto bianco con delle macchioline azzurre rotolò accanto al suo corpo impregnato di petrolio.


(...)

“Ho paura” stridette Fortunata.
“Ma vuoi volare, vero?” miagolò Zorba.
Dal campanile di San Michele si vedeva tutta la città. La pioggia avvolgeva la torre della televisione, e al porto le gru sembravano animali in riposo.
“Guarda si vede il bazar di Harry. I nostri amici sono laggiù” miagolò Zorba.
“Ho paura! Mamma! ” stridette Fortunata.
Zorba saltò sulla balaustra che girava attorno al campanile. In basso le auto sembravano insetti dagli occhi brillanti. L’umano prese la gabbiana tra le mani.
“No! Ho paura! Zorba! Zorba!” stridette Fortunata beccando le mani dell’umano.
“Aspetta. Posala sulla balaustra” miagolò Zorba.
“Non avevo intenzione di buttarla giù” disse l’umano.
“Ora volerai ,Fortunata. Respira. Senti la pioggia. E’ acqua. Nella tua vita avrai molti motivi per essere felice, uno di questi si chiama acqua, un altro si chiama vento, un altro ancora si chiama sole e arriva sempre come ricompensa dopo la pioggia. Senti la pioggia. Apri le ali.” Miagolò Zorba.
La gabbianella spiegò le ali. I riflettori la inondavano di luce e la pioggia le copriva di perle le piume. L’umano e il gatto la videro sollevare la testa con gli occhi chiusi.
“La pioggia. L’acqua. Mi piace!” stridette.
“Ora volerai” miagolò Zorba.
“Ti voglio bene. Sei un gatto molto buono” stridette Fortunata avvicinandosi al bordo della balaustra.
“Ora volerai. Il cielo sarà tutto tuo” miagolò Zorba.
“Non ti dimenticherò mai. E neppure gli altri gatti.” stridette lei già con metà delle zampe fuori dalla balaustra, perchè come dicevano i versi di Atxaga, il suo piccolo cuore era lo stesso degli equilibristi.
“Vola!” miagolò Zorba allungando una zampa e toccandola appena.
Fortunata scomparve alla vista , e l’umano e il gatto temettero il peggio. Era caduta giù come un sasso. Col fiato sospeso si affacciarono alla balaustra, e allora la videro che batteva le ali sorvolando il parcheggio, e poi seguirono il suo volo in alto, molto più in alto della banderuola dorata che corona la singolare bellezza di San Michele.
Fortunata volava solitaria nella notte amburghese. Si allontanava battendo le ali con energia fino a sorvolare le gru del porto, gli alberi delle barche, e subito dopo tornava indietro planando, girando più volte attorno al campanile della chiesa.
” Volo! Zorba! So volare!” strideva euforica dal vasto cielo grigio.
L’umano accarezzò il dorso del gatto.
“Bene, gatto. Ci siamo riusciti” disse sospirando.
” Sì, sull’orlo del baratro ha capito la cosa più importante” miagolò Zorba.
” Ah sì? E che cosa ha capito?” chiese l’umano.
” Che VOLA SOLO CHI OSA FARLO”  miagolò Zorba.
“Immagino che adesso tu preferisca rimanere solo. Ti aspetto giù” lo salutò l’umano.
Zorba rimase a contemplarla finchè non seppe se erano gocce di pioggia o lacrime ad annebbiare i suoi occhi gialli di gatte nero grande e grosso, di gatto buono, di gatto nobile, di gatto del porto
.
(Luis Sepùlveda, La gabbianella e il gatto che le insegnò a volare, Salani, Firenze, 1997)


CARATTERISTICHE DELLA FIABA

Il valore delle fiabe:
l'interpretazione dell'antropologa Laura Marchetti
https://www.cooperazione.tv/video/leversivo-universo-delle-fiabe-incontro-con-laura-marchetti


LA FIABA MODERNA
La ragazza mela (da I. Calvino, Fiabe italiane)

Il palazzo delle scimmie (da I. Calvino, Fiabe italiane)

Il cavaliere del secchio ( F.Kafka, da Tutti i racconti, a cura di E. Porcar, Mondadori, Milano)


Commento di I. Calvino al racconto di Kafka, Il cavaliere del secchio

Vorrei chiudere questa conferenza ricordando un racconto di Kafka, Der Kübelreiter (Il cavaliere del secchio).

E' un breve racconto in prima persona, scritto nel 1917 e il suo punto di partenza è evidentemente una situazione ben reale in quell'inverno di guerra, il più terribile per l'impero austriaco: la mancanza di carbone. Il narratore esce col secchio vuoto in cerca di carbone per la stufa. Per la strada il secchio gli fa da cavallo, anzi lo solleva all'altezza dei primi piani e lo trasporta ondeggiando come sulla groppa d'un cammello. La bottega del carbonaio è sotterranea e il cavaliere del secchio è troppo in alto; stenta a farsi intendere dall'uomo che sarebbe pronto ad accontentarlo, mentre la moglie non lo vuole sentire. Lui li supplica di dargli una palata del carbone più scadente, anche se non può pagare subito. La moglie del carbonaio si slega il grembiule e scaccia l'intruso come caccerebbe una mosca. Il secchio è così leggero che vola via col suo cavaliere, fino a perdersi oltre le Montagne di Ghiaccio.

Molti dei racconti brevi di Kafka sono misteriosi e questo lo è particolarmente. Forse Kafka voleva solo raccontarci che uscire alla ricerca d'un po' di carbone, in una fredda notte del tempo di guerra, si trasforma in quête di cavaliere errante, traversata di carovana nel deserto, volo magico, al semplice dondolio del secchio vuoto. Ma l'idea di questo secchio vuoto che ti solleva al di sopra del livello dove si trova l'aiuto e anche l'egoismo degli altri, il secchio vuoto segno di privazione e desiderio e ricerca, che ti eleva al punto che la tua umile preghiera non potrà più essere esaudita, - apre la via a riflessioni senza fine.

Avevo parlato dello sciamano e dell'eroe delle fiabe, della privazione sofferta che si trasforma in leggerezza e permette di volare nel regno in cui ogni mancanza sarà magicamente risarcita. Avevo parlato delle streghe che volavano su umili arnesi domestici come può essere un secchio. Ma l'eroe di questo racconto di Kafka, non sembra dotato di poteri sciamanici né stregoneschi; né il regno al di là delle Montagne di Ghiaccio sembra quello in cui il secchio vuoto troverà di che riempirsi. Tanto più che se fosse pieno non permetterebbe di volare. Così, a cavallo del nostro secchio, ci affacceremo al nuovo millennio, senza sperare di trovarvi nulla di più di quello che saremo capaci di portarvi. La leggerezza, per esempio, le cui virtù questa conferenza ha cercato d'illustrare.
(da Italo Calvino, Lezioni americane, Leggerezza, 1988)



venerdì 14 settembre 2018

DINO BUZZATI

Biografia e curiosità 


Racconto breve
I GIORNI PERDUTI


Poetica di Buzzati
Con un tono narrativo fiabesco, Buzzati affronta temi e sentimenti quali l'angoscia, la paura della morte, la magia e il mistero, la ricerca dell'assoluto e del trascendente, la disperata attesa di un'occasione di riscatto da un'esistenza mediocre, l'ineluttabilità del destino, spesso accompagnata dall'illusione.
Il grande protagonista dell'opera buzzatiana è il destino, onnipotente e imperscrutabile, spesso beffardo (come ne Il deserto dei Tartari). Perfino i rapporti amorosi sono letti con quest'ottica di imperscrutabilità (Un amore). La letteratura di Buzzati appartiene al genere fantastico con molteplici spunti, talvolta con vicinanze al surrealismo, l'orrore e alla fantascienza (Il grande ritratto).
(https://it.wikipedia.org/wiki/Dino_Buzzati#Carriera_letteraria)


Racconto breve
Una goccia
http://www.icbriatico.it/images/pdf/Biblioteca_Digitale/Letteratura_per_Ragazzi/La_Boutique_del_mistero.pdf


Il valore dell'allegoria nella narrativa di Buzzati
http://www.lafrusta.net/riv_buzzati_allegoria.html


Racconto breve
La notizia
Il maestro Arturo Saracino, di 37 anni, già nel fulgore della fama, stava dirigendo al teatro Argentina la ottava Sinfonia di Brahms in la maggiore, op. 137, e aveva appena attaccato l'ultimo tempo, il glorioso "allegro appassionato". Egli dunque filava via sull'iniziale esposizione del tema, quella specie di monologo liscio, ostinato e in verità un po' lungo, col quale tuttavia si concentra a poco a poco la carica potente di ispirazione che esploderà verso la fine, e chi ascolta non lo sa ma lui, Saracino, e tutti quelli dell'orchestra lo sapevano e perciò stavano godendo, cullati sull'onda dei violini, quella lieta e ingannevole vigilia del prodigio che fra poco avrebbe trascinato loro, esecutori, e l'intero teatro, in un meraviglioso vortice di gioia.
Quand'ecco egli si accorse che il pubblico lo stava abbandonando. È questa, per un direttore d'orchestra, l'esperienza più angosciosa. La partecipazione di chi sta ascoltando per inesplicabili ragioni viene meno. Misteriosamente, egli se ne accorge subito. Allora l'aria stessa sembra diventare vuota quei mille, duemila, tremila arcani fili, tesi fra gli spettatori e lui, da cui gli vengono la vita, la forza, l'alimento, si afflosciano o dissolvono. Finché il maestro resta solo e nudo su un deserto gelido, a trascinare faticosamente un'armata che non gli crede più.
Ma erano almeno dieci anni che aveva smesso quella terribile esperienza. Ne aveva perso anche il ricordo e perciò adesso il colpo era più duro. Stavolta poi il tradimento del pubblico era stato così repentino e perentorio da lasciarlo senza fiato.
"Impossibile" pensò "non c'è motivo che sia colpa mia. Io stasera mi sento perfettamente in forma, e l'orchestra sembra un giovanotto di venti anni. Deve esserci un'altra spiegazione."
Difatti, tendendo allo spasimo le orecchie, gli parve di percepire nel pubblico, alle sue spalle, e intorno, e sopra, serpeggiare un sommesso brusio. Da un palco proprio alla sua destra giunse un esile stridore. Con l'estrema coda dell'occhio intravide due tre ombre che in platea sgusciavano verso un'uscita laterale.
Dal loggione qualcuno zittì imperiosamente, imponendo il silenzio. Ma la tregua fu breve. Ben presto, come per una fermentazione incoercibile, il sussurro riprese, accompagnato da fruscii, sussurri, passi furtivi, stropiccii clandestini, spostamenti di sgabelli, porticine aperte e chiuse. Che stava succedendo? All'improvviso, come se in quell'istante lo avesse letto su una pagina stampata, il maestro Saracino seppe. Trasmessa probabilmente dalla radio poco prima e portata in teatro da un ritardatario, era giunta una notizia. Qualcosa di spaventoso doveva essere accaduto in qualche parte della terra, e ora stava precipitando su di Roma. La guerra? L'invasione? Il preannuncio di un attacco atomico? In quei giorni, erano lecite le più rovinose ipotesi. E sgusciando fra le note di Brahms, mille pensieri angosciosi e meschini lo assalirono.
Se scoppiava la guerra, dove avrebbe mandato i suoi? Fuggire all'estero? Ma la villa appena costruita, in cui aveva speso tutti i suoi risparmi, che fine avrebbe fatto? Sì, come mestiere, lui Saracino era fortunato. In qualsiasi parte del mondo, con la sua celebrità, di fame non sarebbe sicuramente morto. E poi i russi, per gli artisti hanno notoriamente un debole. Ma a questo punto, con orrore, si ricordò che due anni prima egli si era alquanto compromesso firmando, con tanti altri intellettuali, un manifesto antisovietico. Figurarsi se i colleghi non l'avrebbero fatto sapere alle autorità d'occupazione. No, no, meglio fuggire. E sua mamma, oramai vecchia? E sua sorella minore? E i cani? Precipitava in un pozzo di sgomento.
Del resto, che fosse giunta una informazione di catastrofe fulminea, non c'era ormai più ombra di dubbio. Con la minima decenza imposta dalla tradizione del teatro, il pubblico stava scandalosamente disertando. Saracino, alzando gli occhi verso i palchi, notava sempre più numerosi vuoti. A uno a uno, se ne andavano. La pelle, i soldi, le provviste, lo sfollamento, non c'era da perdere un minuto. Altro che Brahms. "Che vigliacchi" pensò Saracino, che aveva dinanzi a sé ancora dieci minuti buoni di sinfonia, prima di potersi muovere. "Che vigliacco" si disse però subito dopo, misurando l'abbietto panico, da cui si era lasciato impossessare. Tutto infatti andava disfacendosi, dentro e dinanzi a lui. I cenni, ormai puramente meccanici, della bacchetta, non trasmettevano più nulla all'orchestra la quale inevitabilmente si era a sua volta resa conto della dissoluzione generale. E fra poco si sarebbe giunti al punto decisivo della sinfonia, alla liberazione, al grande colpo d'ala. "Che vigliacco" si ripeté Saracino, nauseato. La gente se ne andava? La gente stava fregandosene di lui, della musica, di Brahms per correre a salvare le loro esistenze miserabili? E con questo?
Improvvisamente capì che la salvezza, l'unica via di scampo, la sola utile e degna fuga era, per lui, come per tutti gli altri, stare fermo, non lasciarsi trascinare via, continuare il proprio lavoro fino in fondo. Una rabbia lo prese al pensiero di ciò che accadeva nella penombra alle sue spalle, che stava per accadere pure a lui. Si riscosse, alzò la bacchetta gettando a quelli dell'orchestra una spavalda e allegra occhiata, d'incanto ristabilì il flusso vitale. Un tipico arpeggio discendente di clarino lo avvertì che erano ormai vicini: stava per cominciare lo stacco, la selvaggia impennata con cui la ottava Sinfonia, dalla pianura della mediocrità scatta verso l'alto e con gli accavallamenti tipici di Brahms, a potenti folate, si leva verticalmente, fino a torreggiare vittoriosa in una suprema luce, come nuvola. Vi si buttò dentro con l'impeto moltiplicato dalla collera. Scossa da un brivido, anche l'orchestra si impennò, oscillando paurosamente per una frazione di secondo, quindi partì al galoppo, irresistibile.
E allora il brusio, i sussurri, i colpi, i tramestii, i passi, il viavai tacquero, nessuno si mosse né fiatava più, inchiodati tutti restarono, non più paura ma vergogna, mentre dalle argentee antenne delle trombe, lassù, le bandiere sventolavano.
(Dino Buzzati, La notizia, da Sessanta racconti)