I più noti rappresentanti del genere favolistico in età antica furono Esopo in Grecia e Fedro a Roma.
Tratti caratteristici del genere:
- Brevità
- Personaggi zoomorfi con funzione allegorica
- Contesto realistico e quotidiano
- Morale esplicita o implicita
- Schema narrativo standardizzato (prologo - situazione iniziale; svolgimento; epilogo-conclusione)
Esempio: http://tuttoscuola.altervista.org/favole/favole-cervo.htm
FEDRO - TESTI LATINI
La favola moderna
Mentre la favola classica è impostata sul contrasto vizio/virtù, secondo uno schema esclusivamente moraleggiante e si basa su pochi personaggi, la favola moderna ha una maggiore ricchezza narrativa, presenta temi di impegno sociale e civile (amore per la natura, solidarietà, rispetto per gli altri, generosità disinteressata) e risulta propositiva, rispetto ai modelli di Esopo e Fedro, caratterizzati, invece, dall'etica della rassegnazione (prevale la legge del più forte, i prepotenti vincono sempre, sembra inutile ogni sforzo per modificare la realtà).
Luis Sepúlveda, La gabbianella e il gatto che le insegnò a volare
(…)
Seguendo le istruzioni dei gabbiani pilota, lo stormo del Faro della Sabbia
Rossa imboccò una corrente d'aria fredda e si lanciò in picchiata sul banco di
aringhe. Centoventi corpi bucarono l'acqua come frecce e, quando risalirono a
galla, ogni gabbiano stringeva un pesce nel becco. Aringhe saporite. Saporite e
grasse.
(…)
Kengah infilò la testa sott'acqua per acchiappare la quarta aringa, e così non
sentì il grido d'allarme che fece tremare l'aria: - Pericolo a dritta! Decollo
d'emergenza! Quando Kengah tirò di nuovo fuori la testa, si ritrovò sola
nell'immensità dell'oceano.
(…)
Kengah aprì le ali per spiccare il volo, ma l'onda densa fu più rapida e la
sommerse completamente. Quando tornò a galla la luce del giorno era scomparsa,
e dopo aver scosso il capo con energia capì che la maledizione dei mari le
stava oscurando la vista. Kengah, la gabbiana dalle piume d'argento, tuffò
varie volte la testa sott'acqua, sinché qualche filo di luce non raggiunse le
sue pupille coperte di petrolio. La macchia vischiosa, la peste nera, le
incollava le ali al corpo, così iniziò a muovere le zampe sperando di potersi
allontanare rapidamente a nuoto dal centro dell'onda scura. Con tutti i muscoli tormentati dai crampi per
lo sforzo, raggiunse finalmente il limite della macchia di petrolio e sentì il
fresco contatto dell'acqua pulita. Quando, a forza di sbattere le palpebre e di
tuffare la testa, riuscì a pulirsi gli occhi, guardò il cielo, ma vide solo
alcune nuvole che si frapponevano tra il mare e l'immensità della volta
celeste. I suoi compagni dello stormo del Faro della Sabbia Rossa dovevano
volare ormai lontano, molto lontano.
Era
la legge. Anche lei aveva visto altri gabbiani sorpresi dalle mortifere onde
nere, e nonostante il desiderio di scendere a offrire loro un aiuto tanto
inutile quanto impossibile, si era allontanata, rispettando la legge che
proibisce di assistere alla morte dei compagni. Con le ali immobilizzate,
incollate ai corpi, i gabbiani erano facile preda dei grandi pesci, o morivano
lentamente, asfissiati dal petrolio che penetrando fra le piume tappava loro
tutti i pori.
Era
questa la morte che la aspettava, e desiderò scomparire presto tra le fauci di
un grosso pesce.
La
macchia nera. La peste nera. Mentre aspettava la fine fatale, Kengah maledisse
gli umani. - Ma non tutti. Non devo essere ingiusta - stridette debolmente.
Spesso, dall'alto, aveva visto come grandi petroliere approfittavano delle
giornate di nebbia costiera per andare al largo a lavare le loro cisterne.
Rovesciavano in mare migliaia di litri di una sostanza densa e pestilenziale
che veniva trascinata via dalle onde. Ma a volte aveva visto anche delle
piccole imbarcazioni che si avvicinavano alle petroliere e impedivano loro di
svuotare le cisterne. Disgraziatamente quelle barche ornate dai colori
dell'arcobaleno non sempre arrivavano in tempo per impedire l'avvelenamento dei
mari. Kengah passò le ore più lunghe della sua vita posata sull'acqua,
chiedendosi atterrita se per caso non la aspettava la più terribile delle
morti: peggio che essere divorata da un pesce, peggio che patire l'angoscia
dell'asfissia, era morire di fame.
Disperata
all'idea di una fine lenta si agitò e con stupore si accorse che il petrolio
non le aveva incollato le ali al corpo. Aveva le piume impregnate di quella
sostanza densa, ma almeno poteva spiegarle. - Forse ho ancora una possibilità
di uscire da qui, e volando in alto, molto in alto, forse il sole scioglierà il
petrolio - stridette Kengah. 8 Le tornò alla mente una storia, raccontatale da
un vecchio gabbiano delle isole Frisoni, che parlava di un umano chiamato Icaro
che, per realizzare il sogno del volo, si era costruito delle ali con piume di
aquila ed era volato in alto, vicinissimo al sole, tanto che il calore aveva
sciolto la cera con cui aveva incollato le piume ed era precipitato. Kengah
batté energicamente le ali, ritirò le zampe, si innalzò di un paio di palmi, e
ricadde sulle onde. Prima di tentare ancora si immerse e agitò le ali
sott'acqua. Questa volta salì di un metro prima di cadere.
Quel
dannato petrolio le incollava le piume della coda, di modo che non riusciva a governare
il decollo. Si tuffò ancora una volta e con il becco cercò di tirar via lo
strato di sporco che le copriva la coda.
(…)
Al quinto tentativo Kengah riuscì a spiccare il volo. Batteva le ali con
disperazione perché il peso della cappa di petrolio non le permetteva di
planare. Un solo attimo di riposo e sarebbe precipitata. Per fortuna era una
gabbiana giovane e i suoi muscoli rispondevano adeguatamente. Guadagnò quota.
Senza mai smettere di battere le ali guardò giù e vide la costa profilarsi
appena come una linea bianca.
(…)
Kengah capì che le forze non le
sarebbero durate ancora a lungo e, cercando un posto per scendere, volò verso
l'entroterra, seguendo la serpeggiante linea verde dell'Elba. Il movimento
delle sue ali si fece sempre più lento e pesante. Perdeva vigore. Adesso non
volava più così in alto. In un disperato tentativo di riprendere quota chiuse
gli occhi e batté le ali con le ultime energie. Non sapeva per quanto tempo era
rimasta a occhi chiusi, ma quando li riaprì stava sorvolando un'alta torre
ornata da una banderuola d'oro. - San Michele! - stridette riconoscendo il
campanile della chiesa di Amburgo. Le sue ali si rifiutarono di continuare a
volare.
Il
gatto nero grande e grosso prendeva il sole sul balcone, facendo le fusa e
meditando su come si stava bene lì, a pancia all'aria sotto quei raggi tiepidi,
con tutte e quattro le zampe ben ritratte e la coda distesa. Nel preciso
istante in cui si girava pigramente per farsi scaldare la schiena dal sole,
sentì il sibilo provocato da un oggetto volante che non seppe identificare e
che si avvicinava a grande velocità. Vigile, balzò in piedi sulle zampe e fece
appena in tempo a scansarsi per schivare la gabbiana che cadde sul balcone. Era
un uccello molto sporco. Aveva tutto il corpo impregnato di una sostanza scura
e puzzolente.
Zorba
si avvicinò e la gabbiana tentò di alzarsi trascinando le ali.
-
Non è stato un atterraggio molto elegante - miagolò.
-
Mi dispiace. Non ho potuto evitarlo - ammise la gabbiana.
-
Senti, sembri ridotta malissimo. Cos'è quella roba che hai addosso? E come
puzzi! - miagolò Zorba. - Sono stata raggiunta da un'onda nera. Dalla peste
nera. La maledizione dei mari. Morirò - stridette accorata la gabbiana.
-
Morire? Non dire così. Sei solo stanca e sporca. Tutto qua. Perché non voli
fino allo zoo? Non è lontano e là hanno veterinari che potranno aiutarti -
miagolò Zorba.
-
Non ce la faccio. Questo è stato il mio ultimo volo - stridette la gabbiana con
voce quasi impercettibile e chiuse gli occhi.
-
Non morire! Riposati un po' e vedrai che ti riprendi. Hai fame? Ti porterò un
po' del mio cibo, ma non morire - pregò Zorba avvicinandosi alla gabbiana
esausta. Vincendo la ripugnanza, il gatto le leccò la testa. La sostanza di cui
era coperta aveva anche un sapore orribile. Mentre le passava la lingua sul
collo notò che la respirazione dell'uccello si faceva sempre più debole.
-
Senti, amica, io vogIio aiutarti, ma non so come. Cerca di riposare mentre vado
a chiedere cosa si fa con un gabbiano ammalato - miagolò Zorba prima di
arrampicarsi sul tetto. Si stava allontanando in direzione dell'ippocastano
quando sentì che la gabbiana lo chiamava.
-
Vuoi che ti lasci un po' del mio cibo? - suggerì, leggermente sollevato.
-
Voglio deporre un uovo. Con le ultime forze che mi restano voglio deporre un
uovo. Amico gatto, si vede che sei un animale buono e di nobili sentimenti. Per
questo ti chiedo di farmi tre promesse. Mi accontenterai? - stridette agitando
goffamente le zampe nel vano tentativo di alzarsi in piedi. Zorba pensò che la
povera gabbiana stava delirando e che con un uccello in uno stato così pietoso
si poteva solo essere generosi.
-
Ti prometto tutto quello che vuoi. Ma ora riposa - miagolò impietosito.
-
Non ho tempo di riposare. Promettimi che non ti mangerai l'uovo - stridette
aprendo gli occhi. - Prometto che non mi mangerò l'uovo - ripeté Zorba.
-
Promettimi che ne avrai cura finché non sarà nato il piccolo - stridette
sollevando il capo.
-
Prometto che avrò cura dell'uovo finché non sarà nato il piccolo.
-
E promettimi che gli insegnerai a volare - stridette guardando fisso negli
occhi il gatto. Allora Zorba si rese conto che quella sfortunata gabbiana non
solo delirava, ma era completamente pazza.
-
Prometto che gli insegnerò a volare. E ora riposa, io vado in cerca di aiuto -
miagolò Zorba balzando direttamente sul tetto.
Kengah
guardò il cielo, ringraziò tutti i buoni venti che l'avevano accompagnata e
proprio mentre esalava l'ultimo respiro, un ovetto bianco con delle macchioline
azzurre rotolò accanto al suo corpo impregnato di petrolio.
“Ho paura” stridette Fortunata.
“Ma vuoi volare, vero?” miagolò Zorba.
Dal campanile di San Michele si vedeva tutta la città. La pioggia avvolgeva la torre della televisione, e al porto le gru sembravano animali in riposo.
“Guarda si vede il bazar di Harry. I nostri amici sono laggiù” miagolò Zorba.
“Ho paura! Mamma! ” stridette Fortunata.
Zorba saltò sulla balaustra che girava attorno al campanile. In basso le auto sembravano insetti dagli occhi brillanti. L’umano prese la gabbiana tra le mani.
“No! Ho paura! Zorba! Zorba!” stridette Fortunata beccando le mani dell’umano.
“Aspetta. Posala sulla balaustra” miagolò Zorba.
“Non avevo intenzione di buttarla giù” disse l’umano.
“Ora volerai ,Fortunata. Respira. Senti la pioggia. E’ acqua. Nella tua vita avrai molti motivi per essere felice, uno di questi si chiama acqua, un altro si chiama vento, un altro ancora si chiama sole e arriva sempre come ricompensa dopo la pioggia. Senti la pioggia. Apri le ali.” Miagolò Zorba.
La gabbianella spiegò le ali. I riflettori la inondavano di luce e la pioggia le copriva di perle le piume. L’umano e il gatto la videro sollevare la testa con gli occhi chiusi.
“La pioggia. L’acqua. Mi piace!” stridette.
“Ora volerai” miagolò Zorba.
“Ti voglio bene. Sei un gatto molto buono” stridette Fortunata avvicinandosi al bordo della balaustra.
“Ora volerai. Il cielo sarà tutto tuo” miagolò Zorba.
“Non ti dimenticherò mai. E neppure gli altri gatti.” stridette lei già con metà delle zampe fuori dalla balaustra, perchè come dicevano i versi di Atxaga, il suo piccolo cuore era lo stesso degli equilibristi.
“Vola!” miagolò Zorba allungando una zampa e toccandola appena.
Fortunata scomparve alla vista , e l’umano e il gatto temettero il peggio. Era caduta giù come un sasso. Col fiato sospeso si affacciarono alla balaustra, e allora la videro che batteva le ali sorvolando il parcheggio, e poi seguirono il suo volo in alto, molto più in alto della banderuola dorata che corona la singolare bellezza di San Michele.
Fortunata volava solitaria nella notte amburghese. Si allontanava battendo le ali con energia fino a sorvolare le gru del porto, gli alberi delle barche, e subito dopo tornava indietro planando, girando più volte attorno al campanile della chiesa.
” Volo! Zorba! So volare!” strideva euforica dal vasto cielo grigio.
L’umano accarezzò il dorso del gatto.
“Bene, gatto. Ci siamo riusciti” disse sospirando.
” Sì, sull’orlo del baratro ha capito la cosa più importante” miagolò Zorba.
” Ah sì? E che cosa ha capito?” chiese l’umano.
” Che VOLA SOLO CHI OSA FARLO” miagolò Zorba.
“Immagino che adesso tu preferisca rimanere solo. Ti aspetto giù” lo salutò l’umano.
Zorba rimase a contemplarla finchè non seppe se erano gocce di pioggia o lacrime ad annebbiare i suoi occhi gialli di gatte nero grande e grosso, di gatto buono, di gatto nobile, di gatto del porto.
(Luis Sepùlveda, La gabbianella e il gatto che le insegnò a volare, Salani, Firenze, 1997)
CARATTERISTICHE DELLA FIABA
Il valore delle fiabe:
l'interpretazione dell'antropologa Laura Marchetti
https://www.cooperazione.tv/video/leversivo-universo-delle-fiabe-incontro-con-laura-marchetti
LA FIABA MODERNA
La ragazza mela (da I. Calvino, Fiabe italiane)
Il palazzo delle scimmie (da I. Calvino, Fiabe italiane)
Il cavaliere del secchio ( F.Kafka, da Tutti i racconti, a cura di E. Porcar, Mondadori, Milano)
Commento di I. Calvino al racconto di Kafka, Il cavaliere del secchio