La scuola di Atene

La scuola di Atene

mercoledì 28 febbraio 2018

POESIA E CULTURA NELL'ETÀ DELLE AVANGUARDIE

Il termine “avanguardia” è mutuato dal linguaggio militare; indica la colonna di soldati in avamposto, esploratori che vanno avanti, procedono per preparare la strada all’esercito.
I movimenti artistico-letterari del Novecento che si definiscono Avanguardie hanno questa caratteristica, sono sperimentatori del “nuovo”, si oppongono al passato e alla tradizione con intenti polemici e spesso con lo scopo di scandalizzare e stupire.
Si tratta di movimenti internazionali e interartistici, in cui non esistono barriere tra le arti e, soprattutto condividono finalità, contenuti e tecniche espressive sperimentali, come la disposizione irregolare delle parole sulla pagina, il valore evocativo degli spazi bianchi, in generale, la valorizzazione dell'aspetto grafico del testo, con il ricorso alla tecnica del CALLIGRAMMA: nasce una forma di "poesia visiva".


VERSI A LOU
Riconosciti
Questa adorabile persona sei tu
Sotto il grande cappello da canottiere
Occhio
Naso
La bocca
Ecco l’ovale del tuo viso
Il tuo collo bellissimo
Ecco infine l’immagine non completa del tuo busto adorato visto come attraverso una nuvola
Un po’ più basso è il tuo cuore che batte
(Guillaume Apollinaire, Calligrammes)




Il fulcro tematico principale è costituito dalla crisi della poesia e della sua funzione sociale nella società di massa e nella civiltà industriale e la conseguente condizione marginale dell'artista.

Tra i vari filoni avanguardistici è possibile rintracciare due orientamenti fondamentali:
- espressionistico: prevalente negli anni Dieci, assume forme esasperate, fino alla distruzione della sintassi;
- classicistico: recupera metri e forme tradizionali, si diffonde negli anni Venti e risponde al generale clima di "Ritorno all'ordine" che prelude all'avvento del fascismo (tale istanza è presenta, ad esempio, nei poeti Ermetici).

I principali obiettivi programmatici condivisi dalle avanguardie storiche sono i seguenti:
- opposizione al Naturalismo: all’arte intesa come mimesi e rispecchiamento della realtà, le avanguardie oppongono l’idea di arte percepita come visione soggettiva ed espressione dell’inconscio, sotto l’influsso degli studi freudiani e in linea di continuità con le esperienze del Simbolismo che vengono estremizzate;
- opposizione al Decadentismo e all’Estetismo: all’arte intesa - sull’onda del parnassianesimo - come contemplazione del bello, come esperienza separata e privilegiata, come intuizione pura, le avanguardie propongono l’idea di arte come azione e provocazione. L’arte non è più prodotta da una persona d’eccezione (genio, vate, veggente), ma diventa “arte di gruppo”; l’attività estetica è usata come azione politica ( si pensi alle applicazioni rivoluzionarie e leniniste del Futurismo russo di Majakovskij e alle conseguenze imperialistiche, bellicistiche e militaristiche di supporto al Fascismo che ebbe il Futurismo italiano di Marinetti).

I MOVIMENTI AVANGUARDISTI
DADAISMO
Dada non significa nulla. È solo un suono prodotto della bocca.
(Manifesto Dada del 1918, Tristan Tzara)

Il Dadaismo si fonda sul rifiuto totale di ogni forma di razionalità e di legame con la tradizione, per affermare in modo provocatorio e beffardo, il gusto per il non-senso, la forza espressiva del gioco, l’effetto penetrante dell’accostamento casuale dei suoni, delle parole e delle immagini. Ne è un esempio la ben nota “Gioconda con i baffi” di M. Duchamp.
Rifiuto dell’umanesimo (etico e conoscitivo, rifiuto in blocco della tradizione dell’homo mensura, della ragione/coscienza come paradigma comportamentale e conoscitivo) e rifiuto del bello (come espressione classica e tradizionale di suprema armonia
e equilibrio) sono i cardini dell’estetica dadaista.
Lo stesso nome del movimento esprime il carattere ludico e irrazionale, provocatorio verso i cardini della tradizione culturale borghese. Il fondatore, Tristan Tzara, sceglie per il movimento  il nome “dada”, parola che non significa  niente ed è stata trovata aprendo a caso il vocabolario: è il nuovo gusto per il non-senso.
In ambito poetico, la distruzione di tutti gli aspetti espressivi tradizionali, dal lessico alla sintassi, si lega anche alla sperimentazione della scrittura automatica di André Breton, consistente nella trascrizione del dettato automatico della psiche, un processo che dà luogo alla tecnica del flusso di coscienza.


ESPRESSIONISMO
Si afferma inizialmente come movimento pittorico a partire da 1903. Contesta l’idea di una pittura realistica e fondata su rapporti armoniosi e logici. L’arte espressionistica fa prevalere l’elemento soggettivo capace di trasformare e deformare il reale, con uno stravolgimento esasperato dei dati oggettivi. Ogni singolo elemento è sciolto nell’insieme attraverso relazioni anomale tra le parti e il sovvertimento delle regole spaziali, prospettiche, delle gerarchie e delle proporzioni. La realtà oggettiva non esiste più: esiste solo il modo soggettivo, esaltato, allucinato e visionario con cui la realtà è percepita.
E. Munch, L'urlo

Da un punto di vista letterario, l’Espressionismo si caratterizza come violenta sollecitazione volta a esplorare l’Io più interno (G. Contini).
Spesso la brevità, la concisione estremizzata fino al frammentismo, rendono densa e penetrante l’espressione poetica.
Il lessico è diretto e antiaccademico, i periodi sono secchi e brevi, con frasi verbali e nominali; i termini sono scelti per il loro valore provocatorio.
Il verso libero e senza rime sottolinea la forza di rottura con il passato e con la metrica tradizionale.
Toni espressionistici si riconoscono nei poeti che fanno capo alla rivista LA VOCE e, quindi, nelle poesie di Clemente Rebora, Camillo Sbarbaro e Giuseppe Ungaretti.

Clemente Maria Rèbora (Milano, 6 gennaio 1885 – Stresa, 1º novembre 1957) è stato un presbitero e poeta italiano. Inizia nel 1903 gli studi di medicina a Pavia, interrompendoli però poco dopo per seguire i corsi universitari di lettere presso l'Accademia Scientifico-letteraria di Milano; nel frattempo iniziò anche ad avvicinarsi alla musica. Nel 1907 presta il servizio militare a Milano e nel 1910 si laurea in lettere. Negli anni Dieci insegna in diversi Istituti tecnici e alle scuole serali e collabora a "La Voce". Allo scoppio della prima guerra mondiale, viene richiamato alle armi con il grado di sottotenente e il 17 giugno dello stesso anno combatte sul Podgora.
Subisce un forte trauma cranico a causa di un'esplosione e rimane in stato di shock. Viene ricoverato e tra il 1916 e il 1919 passa da un ospedale militare all'altro finché, nel 1919, viene riformato con la diagnosi di infermità mentale. Nel 1928, durante una conferenza sulle discipline religiose, mentre legge gli Acta Martyrum, ha una crisi religiosa che lo avvicinerà alla fede cattolica. Nel 1929, infatti, prende i sacramenti e nel 1930, dopo aver distrutto tutti i libri e le carte, entra come novizio nel Collegio Rosmini. Pronuncia i voti perpetui nel 1936 e viene ordinato sacerdote a Domodossola, dove dice la sua prima Santa Messa. Continua a scrivere poesie a carattere religioso che vennero pubblicate in gran parte postume.
I temi della sua poesia sono: l'esistenza come caos, città come luogo degradato e ostile, il volontarismo etico, cioè la scelta morale fondata su un"tu devi" che non trova giustificazioni esterne. Tale tensione dei contenuti si traduce in uno stile espressionistico e in una tendenza al frammentismo che concentra nella brevità la massima energia espressiva.

Voce di vedetta morta
C’è un corpo in poltiglia
con crespe di faccia, affiorante
sul lezzo dell’aria sbranata.
Frode la terra.
Forsennato non piango:
affar di chi può, e del fango.
Però se ritorni,
tu, uomo, di guerra
a chi ignora non dire;
non dire la cosa, ove l’uomo
e la vita s’intendono ancora.
Ma afferra la donna
una notte, dopo un gorgo di baci,
se tornare potrai;
soffiale che nulla del mondo
redimerà ciò che è perso
di noi, i putrefatti di qui;
stringile il cuore a strozzarla:
e se t’ama, lo capirai nella vita
più tardi, o giammai.
(Clemente Rebora, Voce di vedetta morta, da Poesie varie, 1913-18)

L'occasione della poesia è offerta dal corpo in putrefazione di un soldato (la vedetta). La vita è insensatezza, la guerra lo dimostra, ma l'uomo comune non lo sa e non può capirlo. Il poeta immaginando di parlare a nome di quel morto, invita se stesso e i compagni a cercare nella vita un valore degno di riscattare la morte e la sofferenza. Si tratta di una ricerca difficile e forse solo in condizioni eccezionali si può pervenire a una risposta. comunque la sconvolgente scoperta non va confidata a chi non può capirla per non aver vissuti l'esperienza della guerra e della precarietà dell'esistenza. Forse una tale rivelazione potrà essere fatta solo in una notte d'amore, di massima vitalità. Forse l'amore è il solo riscatto possibile e se è così la vita lo dimostrerà nel suo trascorrere, nel futuro. Non ci sono valori assoluti: la passione, l'amore, l'intesa umana più profonda, tuttavia, lasciano intravedere una possibile speranza di riscatto.

Veglia 
Cima Quattro il 23 dicembre 1915 
  
Un'intera nottata 
buttato vicino 
a un compagno 
massacrato 
con la sua bocca 
digrignata 
volta al plenilunio 
con la congestione 
delle sue mani 
penetrata 
nel mio silenzio 
ho scritto 
lettere piene d'amore 
  
Non sono mai stato 
tanto 
attaccato alla vita 
(G. Ungaretti, da L'allegria)


FUTURISMO
Fondato da Filippo Tommaso Marinetti, il futurismo orienta la propria azione sulla base di programmi precisi espressi nella forma del Manifesto.

Manifesto del futurismo

1-Noi vogliamo cantare l'amor del pericolo, l'abitudine all'energia e alla temerità. 
2-Il coraggio, l'audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia.
3-La letteratura esaltò fino ad oggi l'immobilità penosa, l'estasi ed il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno.
4-Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa (…) un automobile ruggente (…) è più bello della Nike di Samotracia.
5-Noi vogliamo inneggiare all'uomo che tiene il volante, la cui asta attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita.
6-Bisogna che il poeta si prodighi con ardore, sfarzo e magnificenza, per aumentare l'entusiastico fervore degli elementi primordiali.
7-Non vi è più bellezza se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro.
8-Noi siamo sul patrimonio estremo dei secoli!  Poichè abbiamo già creata l'eterna velocità onnipresente.
9-Noi vogliamo glorificare la guerra - sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore 
10-Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d'ogni specie e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria.
11-Noi canteremo (…) le locomotive dall'ampio petto,  il volo scivolante degli areoplani. E' dall'Italia che lanciamo questo manifesto di violenza travolgente e incendiaria col quale fondiamo oggi il Futurismo, perchè vogliamo liberare questo Paese dalla sua fetida cancrena di professori, d’archeologhi, di ciceroni e d’antiquarii (…) Suvvia! Date fuoco agli scaffali delle biblioteche!

(Queste le parole con cui Filippo Tommaso Marinetti fonda il 20 Febbraio 1909 a Parigi il Manifesto futurista.) 

Marinetti tesse le lodi della modernità, della macchina, della tecnica, della città industriale, che assurgono a nuovi criteri di bellezza. I nuovi principi estetici a cui bisogna attenersi sono la velocità, il dinamismo, l’attivismo esasperato delle metropoli, il traffico cittadino, i tram, il nuovo idolo cui l’artista deve guardare è la civiltà industriale.
Nel Manifesto c’è una componente critico-negativa di matrice nietzschiana, volta a distruggere ogni traccia della tradizione, a celebrare la gioia della distruzione, l’amore per la guerra, la velocità, l’aggressività, l’azione violenta, gli atteggiamenti militareschi, virili, eroici, con conseguente disprezzo della donna e del femminismo.
Umberto Boccioni, Carica di lancieri
L’ardore distruttivo verso il passato e l’adesione provocatoria alle forme della civiltà industriale sono espressioni di un preciso programma: creare un’arte produttiva, integrata nei meccanismi economici della nuova società industriale. Il Futurismo rivendica un’idea pratica  e anti-idealistica dell’opera d’arte.
Dietro il culto del nuovo, si nascondono, però, vecchie ideologie di dominio, care al superomismo dannunziano: l’esaltazione irrazionale della temerarietà, dell’aggressività, della violenza, spinte fino alla lode dello schiaffo e del pugno, fino alla difesa della guerra come sola igiene del mondo spianano la strada al militarismo fascista.


IL CREPUSCOLARISMO
In Italia il vero gruppo d’avanguardia che abbia un respiro europeo è il Futurismo. Tuttavia si registrano tendenze avanguardistiche anche nei crepuscolari.
I Crepuscolari raccolgono la lezioni del Pascoli di Myricae, delle “umili tamerici”, della poesia delle piccole cose.
Comune a tutti i crepuscolari è il rifiuto del ruolo tradizionale dell’intellettuale come uomo pubblico, interprete dei destini di un popolo, poeta-vate, guida e maestro di pensiero.
Entra in crisi anche la funzione oracolare della poesia e il mestiere dell’artista è amaramente deriso e ironizzato:
- Sergio Corazzini (in Desolazione del povero poeta sentimentale) scirve: io non sono un poeta./Io non sono che un povero fanciullo che piange;
- Guido Gozzano addirittura arriva a dire (in La signorina Felicita ovvero La Felicità): Io mi vergogno,/sì, mi vergogno d’essere un poeta!
I crepuscolari scelgono come sfondi per la loro poesia ambienti provinciali e dimessi, oggetti umili, le buone cose di pessimo gusto, come le definisce Gozzano ne L’amica di Nonna Speranza, espressione ossimorica che sintetizza nello stesso tempo, il senso di nostalgia del passato irrevocabile  e la consapevolezza del suo anacronismo. Soffitte polverose, ville in declino, camere d’ospedale, mobilio antico e fuori moda: tutto deve suggerire lo stato di emarginazione dell’artista, il suo sradicamento, il suo essere “fuori moda”, fuori tempo.
I brandelli di vita cantati dai crepuscolari, gli oggetti dei loro versi non vengono, però, innalzati trasfigurati in simboli, alla maniera pascoliana, ma sono colti nella loro frantumazione, come espressione di un mondo languente e in irreversibile decadimento, tramonto, crepuscolo.

GUIDO GOZZANO
La poesia di Gozzano ha una forte impronta antidannunziana:
alla vita inimitabile di D'Annunzio si oppone quella di malato di Gozzano, effettivamente malato di tubercolosi e per questo tendente a una vita schiva. Tuttavia nell'immagine di sé come malato, si cela un riferimento sveviano alla metafora della letteratura-malattia che traduce il senso di crisi vissuto dall'intellettuale nella nuova società massificata dominata dalla "salute", cioè dalla produttività dalla forza, dall'energia, dal divertimento.
L'arte è per Gozzano una consolazione privata che lo protegge dal mondo (anche Svevo parla di "letteraturizzazione della vita"), ma non comunica più valori costruttivi, perché riguarda un mondo ormai scomparso che può essere guardato solo con un velo di ironia per la semplicità e la genuinità di un mondo che non tornerà più, scavalcato dall'ipocrisia di una società che sommerge il passato.

10 luglio: Santa Felicita.
I
Signorina Felicita, a quest’ora
scende la sera nel giardino antico
della tua casa. Nel mio cuore amico
scende il ricordo. E ti rivedo ancora,
e Ivrea rivedo e la cerulea Dora
e quel dolce paese che non dico.

Signorina Felicita, è il tuo giorno!
A quest’ora che fai? Tosti il caffè:
e il buon aroma si diffonde intorno?
O cuci i lini e canti e pensi a me,
all’avvocato che non fa ritorno?
E l’avvocato è qui: che pensa a te.

Pensa i bei giorni d’un autunno addietro,
Vill’Amarena a sommo dell’ascesa
coi suoi ciliegi e con la sua Marchesa
dannata, e l'orto dal profumo tetro
di busso e i cocci innumeri di vetro
sulla cinta vetusta, alla difesa....
(...)
VI
Tu m’hai amato. Nei begli occhi fermi
luceva una blandizie femminina;
tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina;
e più d’ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!

Unire la mia sorte alla tua sorte
per sempre, nella casa centenaria!
Ah! Con te, forse, piccola consorte
vivace, trasparente come l’aria,
rinnegherei la fede letteraria
che fa la vita simile alla morte....

Oh! questa vita sterile, di sogno!
Meglio la vita ruvida concreta
del buon mercante inteso alla moneta,
meglio andare sferzati dal bisogno,
ma vivere di vita! Io mi vergogno,
sì, mi vergogno d’essere un poeta!

Tu non fai versi. Tagli le camicie
per tuo padre. Hai fatta la seconda
classe, t’han detto che la Terra è tonda,
ma tu non credi.... E non mediti Nietzsche....
Mi piaci. Mi faresti più felice
d’un’intellettuale gemebonda....

Tu ignori questo male che s’apprende
in noi. Tu vivi i tuoi giorni modesti,
tutta beata nelle tue faccende.
Mi piaci. Penso che leggendo questi
miei versi tuoi, non mi comprenderesti,
ed a me piace chi non mi comprende.

Ed io non voglio più essere io!
Non più l’esteta gelido, il sofista,
ma vivere nel tuo borgo natio,
ma vivere alla piccola conquista
mercanteggiando placido, in oblio
come tuo padre, come il farmacista....

Ed io non voglio più essere io!
(Guido Gozzano, La signorina Felicita ovvero La Felicità da I colloqui))


Il poemetto di Gozzano La signorina Felicita ovvero La Felicità descrive l'incontro tra il poeta e una giovane donna di provincia che vive in una villa (Villa Amarena), presso Torino, con il padre. Il componimento trae spunto dall'onomastico (10 luglio: Santa Felicita) della ragazza che nella sua semplice ingenuità e mancanza di cultura, incarna un ideale di vita sano, lontano dalle astrazioni intellettuali del poeta. Il legame tra i due però si interrompe, per ragioni di opportunità (i pettegolezzi del paese) e il poeta parte per un viaggio di cui lui stesso ignora la destinazione. Il loro addio ha il sapore dei grandi copioni tipici del Romanticismo, ma è filtrato da un velo ironico: gli innamorati romantici che lasciavano le loro donne partivano per le guerre risorgimentali, Gozzano invece parte per un viaggio senza meta (Dove andrò? Non so...): anche in questo caso si può parlare di un abbassamento di toni e modelli, in linea con la degradazione del ruolo intellettuale.
Il tema centrale, dunque, del poemetto è la vergogna d'essere un poeta, la consapevolezza dell'inutilità della letteratura, l'inconsistenza della poesia in una società che ormai può fare a meno di lei.

Se D'Annunzio converte la marginalità dell'artista in mito autopropulsivo e superomistico e Pascoli rilancia la funzione armonizzante della poesia come alternativa alla lotta di classe, ribadendo la centralità del poeta come mediatore di valori; se, ancora, gli inetti di Svevo e Pirandello si propongono come acuti osservatori della società e delle sue disfunzioni, trasformando la letteratura in un osservatorio privilegiato, i Crepuscolari si abbandonano solo al lamento per la perdita irreversibile della sacralità dell'arte e per la marginalità della funzione intellettuale nella società di massa.


I VOCIANI
A Firenze, fondata da Giuseppe Prezzolini, nasce la rivista «La Voce», (1908) con l’ambizione di consentire agli intellettuali di inserirsi nel dibattito civile e sociale del paese, favorire un’apertura della cultura italiana a nuovi fermenti ideologici. L’obiettivo è saldare politica e cultura, restituire serietà morale e civile all’arte dopo gli eccessi dannunziani, contribuire al rinnovamento morale del Paese.
Sul piano letterario, caduta la fiducia nell’idea positivistica del mondo come successione ordinata di cose, di pensieri, di azioni, spiegabili razionalmente, per i vociani viene meno la possibilità di rappresentare il mondo in forma organica e razionale e si fa strada la scelta del frammento: il mondo, la realtà, le esperienze si condensano in brevi liriche che colgano attimi, grumi di emozioni, immagini immediate, visioni episodiche e epifaniche.
Guidata poi da Giuseppe De Robertis (a partire dal 1914) la rivista fiorentina  si orienta in senso umanistico-letterario: è la fase della «Voce bianca», così denominata dal colore della copertina. I vociani abbandonano la loro vocazione impegnata e  rivendicano, all’opposto, il primato delle lettere: fallisce il progetto iniziale di saldare politica e cultura e si afferma il valore puramente lirico dell’espressione artistica.
La realtà è percepita come assurda e inspiegabile, contraddittoria e indecifrabile, perciò i vociani circoscrivono la loro arte alla sola dimensione interiore, l’unica nota per esperienza diretta. Da qui scaturisce il loro tormentato autobiografismo, il gusto per lo scavo esasperato  nell’interiorità, attraverso versi-frammento che danno voce a rapide e fulminee intuizioni, le sole possibili forme di conoscenza a-razionale, nell’assurdità del mondo.
Da un punto di vista stilistico, i cardini del vocianesimo  si sintetizzano nei seguenti aspetti: 
- frammentismo
-  autobiografismo
- analogismo spinto
- espressionismo (come si è notato a proposito dello stile di Rebora e del primo Ungaretti).
Si collegano all’esperienza vociana poeti come Sbarbaro, Rebora, Dino Campana e Ungaretti.

CAMILLO SBARBARO
Originario di santa Margherita Ligure, trascorre una vita appartata lontano dagli ambienti letterari. Partecipa alla Prima guerra mondiale e al ritorno vive dando lezioni di latino e greco.
Nelle sue poesie la condizione del poeta non è quella del vate, ma quella degradata dell'anonimato, dell'uomo immerso nella società di massa.
I temi ricorrenti nei suoi testi sono l'inerzia vitale e lo sdoppiamento tra il desiderio di vitalità e la consapevolezza della sua irrealizzabilità determinata dal "deserto" cittadino che impedisce di entrare in relazione con le persone e di costruire con loro rapporti autentici. Le cose esistono nella loro nuda "datità", tutto è degradato a oggetto.

Taci, anima stanca di godere (Camillo Sbarbaro)  
Taci, anima stanca di godere
e di soffrire (all’uno e all’altro vai
rassegnata).
Nessuna voce tua odo se ascolto:
non di rimpianto per la miserabile
giovinezza, non d’ira o di speranza,
e neppure di tedio.
                 Giaci come
il corpo, ammutolita, tutta piena
d’una rassegnazione disperata.
Non ci stupiremmo,
non è vero, mia anima, se il cuore
si fermasse, sospeso se ci fosse 
il fiato…
               Invece camminiamo. 
Camminiamo io e te come sonnambuli.
E gli alberi son alberi, le case 
sono case, le donne
che passano son donne, e tutto è quello
che è, soltanto quel che è.
La vicenda di gioia e di dolore 
non ci tocca. Perduto ha la voce 
la sirena del mondo, e il mondo è un grande 
deserto.
           Nel deserto 
io guardo con asciutti occhi me stesso.  
(C. Sbarbaro, Taci, anima stanca di godere, da Pianissimo, 1914)

Sbarbaro registra una condizione di inerzia, di assenza di vitalità: il soggetto lirico si presenta come fantoccio o sonnambulo, immagini che traducono una  condizione di alienazione, reificazione e assenza di punti di riferimento.
Il poeta si vede vivere, diventa spettatore di se stesso, rassegnandosi alla scissione dell’io.
La dimensione sociale entro cui si svolge la vicenda esistenziale è la città, espressionisticamente deformata come deserto, non luogo, dimensione in cui è impossibile costruire relazioni umane fondate sul contatto concreto.
La città è il luogo dell’insignificanza: le cose esistono in se stesse, nella loro materialità, nella loro neutralità oggettiva, senza alcun significato oltre quello della loro stessa esistenza: anche l’individuo è cosa tra le cose, frammento privo di senso che rimanda solo a se stesso.
A questa condizione non c’è rimedio: il mondo, persa ogni attrattiva, si è desertificato e può essere guardato solo con occhi asciutti, con rassegnazione disperata. Si tratta di un lessico di matrice leopardiana e verghiana che non lascia spazio a orizzonti di speranza


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