La scuola di Atene

La scuola di Atene

sabato 1 dicembre 2018

PLAUTO, PSEUDOLUS

IL SERVO-POETA
Dopo che se ne è andato, tu resti qua da solo, Pseudolo. Ebbene, che farai adesso, dopo che generosamente hai elargito promesse al tuo padroncino?
Su che cosa si fondano quelle promesse? Non hai niente di pronto: neppure l'ombra di un piano sicuro,  né un tantino di denaro...
Né ho un'idea di quel che devo fare! Non sai da dove cominciare a ordire la tua tela, né sai con certezza dove finirai di tesserla.
Ma come un poeta, prese le sue le tavolette, cerca ciò che non esiste da nessuna parte del mondo, e tuttavia lo trova, riuscendo a rendere verosimile quello che è invenzione (menzogna), così farò io: ora io diventerò poeta, e le  venti mine, che adesso non esistono in nessuna parte del mondo, tuttavia le troverò.
(Pseudolus, atto I, scena 4, vv. 394-405)
http://www.edu.lascuola.it/edizioni-digitali/Cappelli/HortusApertus

IL SERVO-GENERALE
http://online.scuola.zanichelli.it/perutelliletteratura/files/2010/01/testi-it_plauto_t22.pdf/vol_1/Plauto/03_Contesti.pdf

giovedì 18 ottobre 2018

LA SOCIETÀ DELLO SPETTACOLO


I greci innamorati ci lasciarono la statua di Venere,
noi lasceremo il cancan litografato sugli scatolini da fiammiferi. Non discutiamo nemmeno sulle proporzioni; l’arte allora era una civiltà, oggi è un lusso: anzi un lusso da scioperati.
(G. Verga, Prefazione a Eva, 1873)

E. Degas, Ballerina con bouquet, 1877

Con i personaggi di Eva e Enrico Lanti, Verga affronta il problema della crisi dell’arte nella società industriale, in cui dominano gli interessi materiali. La ballerina diventa per l’artista oggetto di identificazione simbolica, rappresenta la sua dipendenza dal mercato. Come, infatti, la ballerina deve il suo successo ai gusti di un pubblico pagante, così l’artista, lo scrittore dipende dal mercato, dai gusti dei lettori, dalle imposizioni dell’industria editoriale che, a sua volta, dalle tendenze del pubblico è condizionata. Il senso sacro dell’arte è ora degradato a mera esibizione, spettacolo, esposizione di sé come merce offerta a chi spende; perciò le metafore dell’artista ora sono costituite da ballerine, clown, saltimbanchi. E il genio creativo è sostituito dal virtuosismo tecnico, dall’artificio di un’arte che “vende” se sta alle regole del gioco industriale, ma che perde, così, i suoi stessi connotati di arte per diventare “prodotto”.
In un’atmosfera di Banche e Imprese industriali  - conclude Verga - non c’è più spazio per l’arte, ma solo per gli affari, per gli utili.

Nella società contemporanea si assiste ad una dilatazione esponenziale del rapporto tra spettacolo e realtà, mediato dal capitale.
Lo spettacolo è l'erede di tutta la debolezza del progetto filosofico occidentale.
[…]
Il capitalismo nella sua forma ultima si presenta come una immensa accumulazione di spettacoli in cui tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione. […]
Lo spettacolo è un rapporto sociale fra persone, mediato attraverso le immagini. […]
Lo spettacolo è il capitale a un tale grado di accumulazione da divenire immagine. […]
Lo spettacolo si è mescolato a ogni realtà, permeandola. Com’era prevedibile in teoria, l’esperienza pratica del compimento sfrenato della volontà e della ragione mercantile mostra, rapidamente e senza eccezioni, che il diventar-mondo della falsificazione era anche un diventar-falsificazione del mondo.
Se si eccettua un’eredità ancora consistente, ma destinata a ridursi sempre più, di libri e edifici antichi che, del resto, sono sempre più spesso selezionati e messi in prospettiva secondo la convenienza dello spettacolo, non esiste più nulla, nella cultura e nel mondo, che non sia stato trasformato e inquinato secondo i mezzi e gli interessi dell’industria moderna.
(Guy Debord, La società dello spettacolo, 1967)

L’invasione dello spettacolo
Debord, dopo aver proposto una serie di definizioni di “spettacolo”, mostra come esso domini la realtà e finisca per sostituirla (lo spettacolo si è mescolato a ogni realtà, permeandola), causando un diventar-falsificazione del mondo. Infatti contamina anche le relazioni umane, sempre più filtrate dalle immagini piuttosto che dagli incontri. 
Secondo Debord, inoltre,  nulla sopravvive nella cultura e nel mondo, che non sia stato trasformato e inquinato secondo i mezzi e gli interessi dell’industria moderna.

Un manifesto di idee
Il brano proposto è di tipo saggistico, procede per aforismi, brevi affermazioni, come una sorta di “manifesto”. Debord riprende una celebre frase di Marx, (il capitalismo nella sua forma ultima si presenta come un a immensa accumulazione di merci) e sostituisce alla parola merci, la parola spettacoli, lasciando per il resto inalterata la frase di Marx.
L’accumulazione del capitale e l’espansione delle tecnologie, secondo Debord della comunicazione hanno permesso di spingere il “feticismo delle merci” ad un grado prima impensabile. La spettacolarizzazione del proprio sé  - oggi sui social - incrementa la struttura stessa del capitale.
Ne deriva, d’altra parte, un forte condizionamento delle relazioni umane nella società spettacolarizzata: lo spettacolo è un rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini
E la società che poggia sull’industria moderna non è fortuitamente o superficialmente spettacolare, è fondamentalmente “spettacolista”, osserva G. Debord. 

La sovraesposizione mediatica della dimensione intima viene, di conseguenza, spesso commercializzata (attraverso pubblicità sui siti, con la nascita di nuove professioni legate alla esposizione della vita privata: influencer, you tuber).
Nel contempo lo spettatore è oggi completamente dominato dal flusso delle immagini che si è ormai sostituito alla realtà, egli è immerso in un mondo virtuale nel quale la distinzione tra vero e falso ha perso ogni significato. L'uomo preferisce essere spettatore più che protagonista:

a un concerto non vive la musica, riprende lo spettacolo e lo vede dal filtro del suo smartphone. Nel flusso delle immagini selezionate dai media, poi, è vero ciò che lo spettacolo ha interesse a mostrare. Tutto ciò che non rientra nel flusso delle immagini selezionato dal potere, è falso, o non esiste. 
Situazione reale in Libia
Immagine pubblicitaria sulla Libia
Quando l’immagine costruita e scelta da “qualcun altro” è diventata il rapporto principale dell’individuo col mondo, che egli prima guardava da sé da ogni luogo in cui poteva andare, evidentemente non si ignora che l’immagine reggerà tutto. […] Il flusso delle immagini travolge tutto, e analogamente è qualcun altro a dirigere a suo piacimento questa sintesi semplificata del mondo sensibile. (Commentari sulla Società dello Spettacolo).
Ne consegue una trasformazione diretta dello spettatore in consumatore-cliente: mostrare un dato da un solo punto di vista a fini propagandistici e pubblicitari significa, per converso, occultare intenzionalmente tutti gli altri aspetti che pure connotano quel dato, ma che non risultano funzionali alle strategie di marketing adottate ai fini di un incremento dei profitti.

Come l’immagine si sostituisce alla realtà, la visione dello spettacolo si sostituisce alla vita. I consumatori piuttosto che fare esperienze dirette, si accontentano di osservare nello spettacolo tutto ciò che a loro manca. Per questo lo spettacolo è il contrario della vita. Debord descrive in questi termini tale alienazione del consumatore: più egli contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio. (La Società dello Spettacolo).


 Il testo di Debord è molto attuale, descrive ciò che è oggi in atto, cioè la scomparsa del mondo delle cose e dell’esperienza concreta, rimpiazzati da una realtà sempre più virtuale. L’autore francese anticipa anche l’idea del collasso delle tradizionali forme culturali e intellettuali (libri, monumenti antichi) a vantaggio dello spettacolo. Si pensi al successo di trasmissioni come “Il grande fratello” o “L’isola dei famosi” o, ancora, “C’è posta per te”:
si tratta di format costruiti sulla spettacolarizzazione del privato, della vita e dei sentimenti, con una speculazione capitalistica in termini di ascolti e, dunque, di guadagni. È un processo che somiglia molto alla realtà distopica descritta da Ray Bradbury in Fahrenheit 451, dove case con pareti interattive creavano una confluenza costante tra spettacolo e vita reale.

Vanni Codeluppi, sviluppa ulteriormente il pensiero di Debord, introducendo la categoria di iperrealtà.

Le tecnologie digitali hanno finito con il sostituirsi alla realtà, perché pur non essendo vere, vengono considerate più affascinanti e convincenti. Ascoltare un concerto nella propria abitazione attraverso la sua riproduzione in digitale con un impianto ad alta qualità, consente di ascoltare nel luogo dove i musicisti hanno suonato e, al contempo, tuttavia, senza i problemi che si percepirebbero se si fosse realmente presenti al concerto: rumori dovuti agli altri spettatori, errori dei musicisti, distrazioni prodotte dall’ambiente. L’esperienza che si fa a casa, dunque, grazie al digitale, può essere più reale della realtà, iperreale.
L’acme di questo processo di sostituzione del virtuale al reale è raggiunto, nota Codeluppi, da una particolare forma di cura: ormai ci si preoccupa, dunque, più che essere attraenti dal vero, di risultare attraenti all’interno dei social, in una rappresentazione che non corrisponde alla realtà.

Recentemente Roberto Calasso e Maurizio Ferraris,

infine, hanno ampiamente dimostrato che una società dello spettacolo e della sovraesposizione del sé, contribuisce in modo esponenziale ai guadagni dei mercati, fornendo gratis al sistema dei Big Data quantità enormi di dati e informazioni che il mercato sfrutta.

La deriva attuale, osserva a tale proposito Vanni Codeluppi in Il tramonto della realtà, sta nel fatto che secondo un male inteso principio di trasparenza ("Io non ho niente da nascondere!"), oggi le persone ritengono di avere un valore nella società solamente quando sono connesse alle altre sul web e si sottopongono, perciò, in modo costante allo sguardo di altri occhi. E, va detto, c'è un intreccio diretto tra la spinta individuale ad esporsi e il condizionamento a farlo da parte dell'industria pubblicitaria, che fornisce un grande sostegno economico ai media in cambio di una conoscenza chiara e dettagliata di tutti i tratti del pubblico cui i media si rivolgono, in modo da indirizzare i messaggi pubblicitari con sempre maggiore precisione e definizione.
I dati che si accumulano e che lasciano tracce di noi, una volta raccolti ed elaborati da opportuni algoritmi, possono dare vita a dei "metadati". Producono, cioè ulteriori informazioni. Attraverso i nostri semplici "like" noi forniamo gratis informazioni  sui nostri gusti, sulla nostra personalità, consentendo al sistema dei Big Data di comprendere e interpretare molti dei nostri desideri più profondi di cui noi stessi, forse, non siamo pienamente consapevoli.


Bibliografia e sitografia
Per le riflessioni su Verga, cfr. Luperini, Cataldi, Marchiani, Marchese, Le parole e le cose, vol. 3°, Palumbo editore, 2016
Guy Debord, La società dello spettacolo, 1967
Per le osservazioni su Debord cfr. Cataldi, Angioloni, Panichi, L’esperienza della letteratura, vol.3b, Palumbo editore, 2012 e http://www.filosofico.net/debord.htm
Per il concetto di iperrealtà, cfr. Vanni Codeuppi, Il tramonto della realtà, Carocci, 2018
 Per il rapporto tra soggetti e Big Data cfr. Maurizio Ferraris, Mobilitazione totale, Laterza, 2015 e 
Roberto Calasso, L’innominabile attuale, Adelphi, 2017.

domenica 14 ottobre 2018

IPPOLITO NIEVO

IPPOLITO NIEVO - BIOGRAFIA
http://www.treccani.it/enciclopedia/ippolito-nievo/

LE CONFESSIONI DI UN ITALIANO  – Trama
Personaggio principale e narratore in prima persona è Carlo Altoviti (Carlino) che, ormai più che ottantenne, rievoca la sua vita dal 1755 al 1858 e, poiché le vicende personali del protagonista si intrecciano strettamente agli accadimenti politici italiani, il romanzo assume anche le caratteristiche di un vasto e movimentato affresco storico.

Creduto orfano e povero, Carlo è allevato senza amore dagli zii, i Conti di Fratta, in un vecchio e grande castello vicino a Portogruaro, nell’ambito del quale si muove una nutrita schiera di personaggi; tra essi le due contessine, la Pisana e la Clara: della prima Carlino è perdutamente innamorato fin dalla più tenera età, la seconda sarà protagonista di una travagliata storia d’amore con il medico e patriota Lucilio, che si sviluppa lungo tutto il romanzo in parallelo con quella di Carlo e la Pisana. Qust’ultima, nel corso degli anni, matura nei confronti di Carlo un amore intenso e passionale, che attaverso infinite separazioni, ripicche, vicissitudini (tra cui un matrimonio d’interesse con un «frollo fidanzato») costituisce uno dei perni intorno ai quali ruota il romanzo.

Cresciuto, Carlo viene inviato all’Università di Padova per seguire gli studi di giurisprudenza. A Padova Carlo, a contatto con gruppi di studenti democratici, aderisce alle idee egualitarie della Rivoluzione francese e si entusiasma per le vittorie di Napoleone, fiducioso che questi porterà la libertà anche agli italiani.

Amaramente deluso dal trattato di Campoformio con cui Napoleone ha ceduto il Veneto all’Austria, Carlo Altoviti continua tuttavia a ritenere positiva politicamente la guerra che l’esercito francese sta conducendo ed egli stesso diventa ufficiale della Legione Partenopea di Ettore Carafa.

Intanto si è riacceso l’antico amore infantile fra Carlo e la Pisana che per lui lascia il marito, l’anziano Mauro Navagero, sposato per capriccio e per interesse. Ben presto però la Pisana abbandona anche Carlo: lo ritroverà nel 1799, quando egli, fatto prigioniero dalle bande del brigante Mammone, è salvato proprio dalla Pisana, in un susseguirsi di avventurose vicende.

Carlo cade gravemente ammalato e la Pisana lo cura con devozione, convincendolo infine a sposare l’Aquilina, una fanciulla tranquilla e semplice con cui Carlo trascorre un lungo periodo di quieta familiare mentre sulla scena politica si susseguono i trionfi e poi la caduta di Napoleone e infine la Restaurazione.

Dopo anni «muti e avviliti», nel 1820 scoppiano nel Regno di Napoli i primi moti carbonari e Carlo vi prende parte con entusiasmo ma, fallita l’insurrezione, viene condannnato a morte. Lo salva il deciso intervento della Pisana che fa commutare in esilio la sua condanna a morte e poi lo segue nel suo esilio a Londra, dove lo assiste con grande dedizione, giungendo fino a mendicare per lui che in prigione è diventato quasi cieco.
Grazie alle amorevoli cure della donna e a Lucilio, anch’egli esule a Londra, Carlo recupera la vista ma, intanto la Pisana, stremata dalle fatiche e dagli stenti, muore.

Rientrato in Italia, Carlo è spettatore di altre importanti vicende storiche, quali la rivoluzione contro i turchi in Grecia, l’elezione di Pio IX e i moti del 1848.
Provato da una vita lunga e intensa, «dopo tanti errori, tante gioie, tante disgrazie», Carlo trascorre i suoi ultimi anni nella «pace della coscienza» circondato dai figli e dai nipoti.
(dal sito studiarapido.it)
Incipit del romanzo

1) https://www.unive.it/media/allegato/Edizioni_cafoscari/ECF21x28.pdf
2) https://prometeo3.palumboeditore.it/biblioteca#modal-one

Ricezione critica
http://www.repubblica.it/speciale/2004/biblioteca/intro/nievo.html


domenica 30 settembre 2018

LA FAVOLA E LA FIABA

La favola classica
I più noti rappresentanti del genere favolistico in età antica furono Esopo in Grecia e Fedro a Roma.


Tratti caratteristici del genere:
- Brevità
- Personaggi zoomorfi con funzione allegorica
- Contesto realistico e quotidiano
- Morale esplicita o implicita
- Schema narrativo standardizzato (prologo - situazione iniziale; svolgimento; epilogo-conclusione)
Esempiohttp://tuttoscuola.altervista.org/favole/favole-cervo.htm


FEDRO - TESTI LATINI

Dichiarazione di poetica
Libro I, Prologus
Aesopus auctor quam materiam repperit,
hanc ego polivi versibus senariis.
Duplex libelli dos est: quod risum movet,
et quod prudenti vitam consilio monet.
Calumniari si quis autem voluerit,
quod arbores loquantur, non tantum ferae,
fictis iocari nos meminerit fabulis

La legge del più forte
LUPUS ET AGNUS (I,1)
Ad rivum eundem lupus et agnus venerant,
siti compulsi. Superior stabat lupus,
longeque inferior agnus. Tunc fauce improba
latro incitatus iurgii causam intulit:
"Cur - inquit - turbulentam fecisti mihi
aquam bibenti?".  Laniger contra timens:
"Quomodo possum, quaeso, facere quod quereris, lupe?
A te decurrit ad meos haustus liquor".
Repulsus ille veritatis viribus:
"Ante hos sex menses male - ait - dixisti mihi".
Respondit agnus: "Equidem natus non eram".
"Pater hercle tuus ibi - ille inquit - male dixit mihi".
Atque ita correptum lacerat iniusta nece.
Haec propter illos scripta est homines fabula

qui fictis causis innocentes opprimunt.




La favola moderna
Mentre la favola classica è impostata sul contrasto vizio/virtù, secondo uno schema esclusivamente moraleggiante e si basa su pochi personaggi, la favola moderna ha una maggiore ricchezza narrativa, presenta temi di impegno sociale e civile (amore per la natura, solidarietà, rispetto per gli altri, generosità disinteressata) e risulta propositiva, rispetto ai modelli di Esopo e Fedro, caratterizzati, invece, dall'etica della rassegnazione (prevale la legge del più forte, i prepotenti vincono sempre, sembra inutile ogni sforzo per modificare la realtà).

Luis Sepúlveda, La gabbianella e il gatto che le insegnò a volare
- Banco di aringhe a sinistra! - annunciò il gabbiano di vedetta, e lo stormo del Faro della Sabbia Rossa accolse la notizia con strida di sollievo. Da sei ore volavano senza interruzione, e anche se i gabbiani pilota li avevano guidati lungo correnti di aria calda che rendevano piacevole planare sopra l'oceano, sentivano il bisogno di rimettersi in forze, e cosa c'era di meglio per questo di una buona scorpacciata di aringhe? Volavano sopra la foce del fiume Elba, nel mare del Nord. Dall'alto vedevano le navi in fila indiana, come pazienti e disciplinati animali acquatici, in attesa del loro turno per uscire in mare aperto e poi far rotta per tutti i porti della Terra. A Kengah, una gabbiana dalle piume color argento, piaceva particolarmente osservare le bandiere delle navi, perché sapeva che ognuna rappresentava un modo di parlare, di chiamare le stesse cose con parole diverse. - Com'è difficile per gli umani. Noi gabbiani, invece, stridiamo nello stesso modo in tutto il mondo - commentò una volta Kengah con un compagno di volo. - Proprio così. E la cosa più straordinaria è che ogni tanto riescono anche a capirsi stridette l'altro.

(…) Seguendo le istruzioni dei gabbiani pilota, lo stormo del Faro della Sabbia Rossa imboccò una corrente d'aria fredda e si lanciò in picchiata sul banco di aringhe. Centoventi corpi bucarono l'acqua come frecce e, quando risalirono a galla, ogni gabbiano stringeva un pesce nel becco. Aringhe saporite. Saporite e grasse.

(…) Kengah infilò la testa sott'acqua per acchiappare la quarta aringa, e così non sentì il grido d'allarme che fece tremare l'aria: - Pericolo a dritta! Decollo d'emergenza! Quando Kengah tirò di nuovo fuori la testa, si ritrovò sola nell'immensità dell'oceano.

(…) Kengah aprì le ali per spiccare il volo, ma l'onda densa fu più rapida e la sommerse completamente. Quando tornò a galla la luce del giorno era scomparsa, e dopo aver scosso il capo con energia capì che la maledizione dei mari le stava oscurando la vista. Kengah, la gabbiana dalle piume d'argento, tuffò varie volte la testa sott'acqua, sinché qualche filo di luce non raggiunse le sue pupille coperte di petrolio. La macchia vischiosa, la peste nera, le incollava le ali al corpo, così iniziò a muovere le zampe sperando di potersi allontanare rapidamente a nuoto dal centro dell'onda scura.   Con tutti i muscoli tormentati dai crampi per lo sforzo, raggiunse finalmente il limite della macchia di petrolio e sentì il fresco contatto dell'acqua pulita. Quando, a forza di sbattere le palpebre e di tuffare la testa, riuscì a pulirsi gli occhi, guardò il cielo, ma vide solo alcune nuvole che si frapponevano tra il mare e l'immensità della volta celeste. I suoi compagni dello stormo del Faro della Sabbia Rossa dovevano volare ormai lontano, molto lontano.

Era la legge. Anche lei aveva visto altri gabbiani sorpresi dalle mortifere onde nere, e nonostante il desiderio di scendere a offrire loro un aiuto tanto inutile quanto impossibile, si era allontanata, rispettando la legge che proibisce di assistere alla morte dei compagni. Con le ali immobilizzate, incollate ai corpi, i gabbiani erano facile preda dei grandi pesci, o morivano lentamente, asfissiati dal petrolio che penetrando fra le piume tappava loro tutti i pori.

Era questa la morte che la aspettava, e desiderò scomparire presto tra le fauci di un grosso pesce.

La macchia nera. La peste nera. Mentre aspettava la fine fatale, Kengah maledisse gli umani. - Ma non tutti. Non devo essere ingiusta - stridette debolmente. Spesso, dall'alto, aveva visto come grandi petroliere approfittavano delle giornate di nebbia costiera per andare al largo a lavare le loro cisterne. Rovesciavano in mare migliaia di litri di una sostanza densa e pestilenziale che veniva trascinata via dalle onde. Ma a volte aveva visto anche delle piccole imbarcazioni che si avvicinavano alle petroliere e impedivano loro di svuotare le cisterne. Disgraziatamente quelle barche ornate dai colori dell'arcobaleno non sempre arrivavano in tempo per impedire l'avvelenamento dei mari. Kengah passò le ore più lunghe della sua vita posata sull'acqua, chiedendosi atterrita se per caso non la aspettava la più terribile delle morti: peggio che essere divorata da un pesce, peggio che patire l'angoscia dell'asfissia, era morire di fame.

Disperata all'idea di una fine lenta si agitò e con stupore si accorse che il petrolio non le aveva incollato le ali al corpo. Aveva le piume impregnate di quella sostanza densa, ma almeno poteva spiegarle. - Forse ho ancora una possibilità di uscire da qui, e volando in alto, molto in alto, forse il sole scioglierà il petrolio - stridette Kengah. 8 Le tornò alla mente una storia, raccontatale da un vecchio gabbiano delle isole Frisoni, che parlava di un umano chiamato Icaro che, per realizzare il sogno del volo, si era costruito delle ali con piume di aquila ed era volato in alto, vicinissimo al sole, tanto che il calore aveva sciolto la cera con cui aveva incollato le piume ed era precipitato. Kengah batté energicamente le ali, ritirò le zampe, si innalzò di un paio di palmi, e ricadde sulle onde. Prima di tentare ancora si immerse e agitò le ali sott'acqua. Questa volta salì di un metro prima di cadere.

Quel dannato petrolio le incollava le piume della coda, di modo che non riusciva a governare il decollo. Si tuffò ancora una volta e con il becco cercò di tirar via lo strato di sporco che le copriva la coda.

(…) Al quinto tentativo Kengah riuscì a spiccare il volo. Batteva le ali con disperazione perché il peso della cappa di petrolio non le permetteva di planare. Un solo attimo di riposo e sarebbe precipitata. Per fortuna era una gabbiana giovane e i suoi muscoli rispondevano adeguatamente. Guadagnò quota. Senza mai smettere di battere le ali guardò giù e vide la costa profilarsi appena come una linea bianca.

(…)  Kengah capì che le forze non le sarebbero durate ancora a lungo e, cercando un posto per scendere, volò verso l'entroterra, seguendo la serpeggiante linea verde dell'Elba. Il movimento delle sue ali si fece sempre più lento e pesante. Perdeva vigore. Adesso non volava più così in alto. In un disperato tentativo di riprendere quota chiuse gli occhi e batté le ali con le ultime energie. Non sapeva per quanto tempo era rimasta a occhi chiusi, ma quando li riaprì stava sorvolando un'alta torre ornata da una banderuola d'oro. - San Michele! - stridette riconoscendo il campanile della chiesa di Amburgo. Le sue ali si rifiutarono di continuare a volare.

Il gatto nero grande e grosso prendeva il sole sul balcone, facendo le fusa e meditando su come si stava bene lì, a pancia all'aria sotto quei raggi tiepidi, con tutte e quattro le zampe ben ritratte e la coda distesa. Nel preciso istante in cui si girava pigramente per farsi scaldare la schiena dal sole, sentì il sibilo provocato da un oggetto volante che non seppe identificare e che si avvicinava a grande velocità. Vigile, balzò in piedi sulle zampe e fece appena in tempo a scansarsi per schivare la gabbiana che cadde sul balcone. Era un uccello molto sporco. Aveva tutto il corpo impregnato di una sostanza scura e puzzolente.

Zorba si avvicinò e la gabbiana tentò di alzarsi trascinando le ali.

- Non è stato un atterraggio molto elegante - miagolò.

- Mi dispiace. Non ho potuto evitarlo - ammise la gabbiana.

- Senti, sembri ridotta malissimo. Cos'è quella roba che hai addosso? E come puzzi! - miagolò Zorba. - Sono stata raggiunta da un'onda nera. Dalla peste nera. La maledizione dei mari. Morirò - stridette accorata la gabbiana.

- Morire? Non dire così. Sei solo stanca e sporca. Tutto qua. Perché non voli fino allo zoo? Non è lontano e là hanno veterinari che potranno aiutarti - miagolò Zorba.

- Non ce la faccio. Questo è stato il mio ultimo volo - stridette la gabbiana con voce quasi impercettibile e chiuse gli occhi.

- Non morire! Riposati un po' e vedrai che ti riprendi. Hai fame? Ti porterò un po' del mio cibo, ma non morire - pregò Zorba avvicinandosi alla gabbiana esausta. Vincendo la ripugnanza, il gatto le leccò la testa. La sostanza di cui era coperta aveva anche un sapore orribile. Mentre le passava la lingua sul collo notò che la respirazione dell'uccello si faceva sempre più debole.

- Senti, amica, io vogIio aiutarti, ma non so come. Cerca di riposare mentre vado a chiedere cosa si fa con un gabbiano ammalato - miagolò Zorba prima di arrampicarsi sul tetto. Si stava allontanando in direzione dell'ippocastano quando sentì che la gabbiana lo chiamava.

- Vuoi che ti lasci un po' del mio cibo? - suggerì, leggermente sollevato.

- Voglio deporre un uovo. Con le ultime forze che mi restano voglio deporre un uovo. Amico gatto, si vede che sei un animale buono e di nobili sentimenti. Per questo ti chiedo di farmi tre promesse. Mi accontenterai? - stridette agitando goffamente le zampe nel vano tentativo di alzarsi in piedi. Zorba pensò che la povera gabbiana stava delirando e che con un uccello in uno stato così pietoso si poteva solo essere generosi.

- Ti prometto tutto quello che vuoi. Ma ora riposa - miagolò impietosito.

- Non ho tempo di riposare. Promettimi che non ti mangerai l'uovo - stridette aprendo gli occhi. - Prometto che non mi mangerò l'uovo - ripeté Zorba.

- Promettimi che ne avrai cura finché non sarà nato il piccolo - stridette sollevando il capo.

- Prometto che avrò cura dell'uovo finché non sarà nato il piccolo.

- E promettimi che gli insegnerai a volare - stridette guardando fisso negli occhi il gatto. Allora Zorba si rese conto che quella sfortunata gabbiana non solo delirava, ma era completamente pazza.

- Prometto che gli insegnerò a volare. E ora riposa, io vado in cerca di aiuto - miagolò Zorba balzando direttamente sul tetto.

Kengah guardò il cielo, ringraziò tutti i buoni venti che l'avevano accompagnata e proprio mentre esalava l'ultimo respiro, un ovetto bianco con delle macchioline azzurre rotolò accanto al suo corpo impregnato di petrolio.


(...)

“Ho paura” stridette Fortunata.
“Ma vuoi volare, vero?” miagolò Zorba.
Dal campanile di San Michele si vedeva tutta la città. La pioggia avvolgeva la torre della televisione, e al porto le gru sembravano animali in riposo.
“Guarda si vede il bazar di Harry. I nostri amici sono laggiù” miagolò Zorba.
“Ho paura! Mamma! ” stridette Fortunata.
Zorba saltò sulla balaustra che girava attorno al campanile. In basso le auto sembravano insetti dagli occhi brillanti. L’umano prese la gabbiana tra le mani.
“No! Ho paura! Zorba! Zorba!” stridette Fortunata beccando le mani dell’umano.
“Aspetta. Posala sulla balaustra” miagolò Zorba.
“Non avevo intenzione di buttarla giù” disse l’umano.
“Ora volerai ,Fortunata. Respira. Senti la pioggia. E’ acqua. Nella tua vita avrai molti motivi per essere felice, uno di questi si chiama acqua, un altro si chiama vento, un altro ancora si chiama sole e arriva sempre come ricompensa dopo la pioggia. Senti la pioggia. Apri le ali.” Miagolò Zorba.
La gabbianella spiegò le ali. I riflettori la inondavano di luce e la pioggia le copriva di perle le piume. L’umano e il gatto la videro sollevare la testa con gli occhi chiusi.
“La pioggia. L’acqua. Mi piace!” stridette.
“Ora volerai” miagolò Zorba.
“Ti voglio bene. Sei un gatto molto buono” stridette Fortunata avvicinandosi al bordo della balaustra.
“Ora volerai. Il cielo sarà tutto tuo” miagolò Zorba.
“Non ti dimenticherò mai. E neppure gli altri gatti.” stridette lei già con metà delle zampe fuori dalla balaustra, perchè come dicevano i versi di Atxaga, il suo piccolo cuore era lo stesso degli equilibristi.
“Vola!” miagolò Zorba allungando una zampa e toccandola appena.
Fortunata scomparve alla vista , e l’umano e il gatto temettero il peggio. Era caduta giù come un sasso. Col fiato sospeso si affacciarono alla balaustra, e allora la videro che batteva le ali sorvolando il parcheggio, e poi seguirono il suo volo in alto, molto più in alto della banderuola dorata che corona la singolare bellezza di San Michele.
Fortunata volava solitaria nella notte amburghese. Si allontanava battendo le ali con energia fino a sorvolare le gru del porto, gli alberi delle barche, e subito dopo tornava indietro planando, girando più volte attorno al campanile della chiesa.
” Volo! Zorba! So volare!” strideva euforica dal vasto cielo grigio.
L’umano accarezzò il dorso del gatto.
“Bene, gatto. Ci siamo riusciti” disse sospirando.
” Sì, sull’orlo del baratro ha capito la cosa più importante” miagolò Zorba.
” Ah sì? E che cosa ha capito?” chiese l’umano.
” Che VOLA SOLO CHI OSA FARLO”  miagolò Zorba.
“Immagino che adesso tu preferisca rimanere solo. Ti aspetto giù” lo salutò l’umano.
Zorba rimase a contemplarla finchè non seppe se erano gocce di pioggia o lacrime ad annebbiare i suoi occhi gialli di gatte nero grande e grosso, di gatto buono, di gatto nobile, di gatto del porto
.
(Luis Sepùlveda, La gabbianella e il gatto che le insegnò a volare, Salani, Firenze, 1997)


CARATTERISTICHE DELLA FIABA

Il valore delle fiabe:
l'interpretazione dell'antropologa Laura Marchetti
https://www.cooperazione.tv/video/leversivo-universo-delle-fiabe-incontro-con-laura-marchetti


LA FIABA MODERNA
La ragazza mela (da I. Calvino, Fiabe italiane)

Il palazzo delle scimmie (da I. Calvino, Fiabe italiane)

Il cavaliere del secchio ( F.Kafka, da Tutti i racconti, a cura di E. Porcar, Mondadori, Milano)


Commento di I. Calvino al racconto di Kafka, Il cavaliere del secchio

Vorrei chiudere questa conferenza ricordando un racconto di Kafka, Der Kübelreiter (Il cavaliere del secchio).

E' un breve racconto in prima persona, scritto nel 1917 e il suo punto di partenza è evidentemente una situazione ben reale in quell'inverno di guerra, il più terribile per l'impero austriaco: la mancanza di carbone. Il narratore esce col secchio vuoto in cerca di carbone per la stufa. Per la strada il secchio gli fa da cavallo, anzi lo solleva all'altezza dei primi piani e lo trasporta ondeggiando come sulla groppa d'un cammello. La bottega del carbonaio è sotterranea e il cavaliere del secchio è troppo in alto; stenta a farsi intendere dall'uomo che sarebbe pronto ad accontentarlo, mentre la moglie non lo vuole sentire. Lui li supplica di dargli una palata del carbone più scadente, anche se non può pagare subito. La moglie del carbonaio si slega il grembiule e scaccia l'intruso come caccerebbe una mosca. Il secchio è così leggero che vola via col suo cavaliere, fino a perdersi oltre le Montagne di Ghiaccio.

Molti dei racconti brevi di Kafka sono misteriosi e questo lo è particolarmente. Forse Kafka voleva solo raccontarci che uscire alla ricerca d'un po' di carbone, in una fredda notte del tempo di guerra, si trasforma in quête di cavaliere errante, traversata di carovana nel deserto, volo magico, al semplice dondolio del secchio vuoto. Ma l'idea di questo secchio vuoto che ti solleva al di sopra del livello dove si trova l'aiuto e anche l'egoismo degli altri, il secchio vuoto segno di privazione e desiderio e ricerca, che ti eleva al punto che la tua umile preghiera non potrà più essere esaudita, - apre la via a riflessioni senza fine.

Avevo parlato dello sciamano e dell'eroe delle fiabe, della privazione sofferta che si trasforma in leggerezza e permette di volare nel regno in cui ogni mancanza sarà magicamente risarcita. Avevo parlato delle streghe che volavano su umili arnesi domestici come può essere un secchio. Ma l'eroe di questo racconto di Kafka, non sembra dotato di poteri sciamanici né stregoneschi; né il regno al di là delle Montagne di Ghiaccio sembra quello in cui il secchio vuoto troverà di che riempirsi. Tanto più che se fosse pieno non permetterebbe di volare. Così, a cavallo del nostro secchio, ci affacceremo al nuovo millennio, senza sperare di trovarvi nulla di più di quello che saremo capaci di portarvi. La leggerezza, per esempio, le cui virtù questa conferenza ha cercato d'illustrare.
(da Italo Calvino, Lezioni americane, Leggerezza, 1988)



venerdì 14 settembre 2018

DINO BUZZATI

Biografia e curiosità 


Racconto breve
I GIORNI PERDUTI


Poetica di Buzzati
Con un tono narrativo fiabesco, Buzzati affronta temi e sentimenti quali l'angoscia, la paura della morte, la magia e il mistero, la ricerca dell'assoluto e del trascendente, la disperata attesa di un'occasione di riscatto da un'esistenza mediocre, l'ineluttabilità del destino, spesso accompagnata dall'illusione.
Il grande protagonista dell'opera buzzatiana è il destino, onnipotente e imperscrutabile, spesso beffardo (come ne Il deserto dei Tartari). Perfino i rapporti amorosi sono letti con quest'ottica di imperscrutabilità (Un amore). La letteratura di Buzzati appartiene al genere fantastico con molteplici spunti, talvolta con vicinanze al surrealismo, l'orrore e alla fantascienza (Il grande ritratto).
(https://it.wikipedia.org/wiki/Dino_Buzzati#Carriera_letteraria)


Racconto breve
Una goccia
http://www.icbriatico.it/images/pdf/Biblioteca_Digitale/Letteratura_per_Ragazzi/La_Boutique_del_mistero.pdf


Il valore dell'allegoria nella narrativa di Buzzati
http://www.lafrusta.net/riv_buzzati_allegoria.html


Racconto breve
La notizia
Il maestro Arturo Saracino, di 37 anni, già nel fulgore della fama, stava dirigendo al teatro Argentina la ottava Sinfonia di Brahms in la maggiore, op. 137, e aveva appena attaccato l'ultimo tempo, il glorioso "allegro appassionato". Egli dunque filava via sull'iniziale esposizione del tema, quella specie di monologo liscio, ostinato e in verità un po' lungo, col quale tuttavia si concentra a poco a poco la carica potente di ispirazione che esploderà verso la fine, e chi ascolta non lo sa ma lui, Saracino, e tutti quelli dell'orchestra lo sapevano e perciò stavano godendo, cullati sull'onda dei violini, quella lieta e ingannevole vigilia del prodigio che fra poco avrebbe trascinato loro, esecutori, e l'intero teatro, in un meraviglioso vortice di gioia.
Quand'ecco egli si accorse che il pubblico lo stava abbandonando. È questa, per un direttore d'orchestra, l'esperienza più angosciosa. La partecipazione di chi sta ascoltando per inesplicabili ragioni viene meno. Misteriosamente, egli se ne accorge subito. Allora l'aria stessa sembra diventare vuota quei mille, duemila, tremila arcani fili, tesi fra gli spettatori e lui, da cui gli vengono la vita, la forza, l'alimento, si afflosciano o dissolvono. Finché il maestro resta solo e nudo su un deserto gelido, a trascinare faticosamente un'armata che non gli crede più.
Ma erano almeno dieci anni che aveva smesso quella terribile esperienza. Ne aveva perso anche il ricordo e perciò adesso il colpo era più duro. Stavolta poi il tradimento del pubblico era stato così repentino e perentorio da lasciarlo senza fiato.
"Impossibile" pensò "non c'è motivo che sia colpa mia. Io stasera mi sento perfettamente in forma, e l'orchestra sembra un giovanotto di venti anni. Deve esserci un'altra spiegazione."
Difatti, tendendo allo spasimo le orecchie, gli parve di percepire nel pubblico, alle sue spalle, e intorno, e sopra, serpeggiare un sommesso brusio. Da un palco proprio alla sua destra giunse un esile stridore. Con l'estrema coda dell'occhio intravide due tre ombre che in platea sgusciavano verso un'uscita laterale.
Dal loggione qualcuno zittì imperiosamente, imponendo il silenzio. Ma la tregua fu breve. Ben presto, come per una fermentazione incoercibile, il sussurro riprese, accompagnato da fruscii, sussurri, passi furtivi, stropiccii clandestini, spostamenti di sgabelli, porticine aperte e chiuse. Che stava succedendo? All'improvviso, come se in quell'istante lo avesse letto su una pagina stampata, il maestro Saracino seppe. Trasmessa probabilmente dalla radio poco prima e portata in teatro da un ritardatario, era giunta una notizia. Qualcosa di spaventoso doveva essere accaduto in qualche parte della terra, e ora stava precipitando su di Roma. La guerra? L'invasione? Il preannuncio di un attacco atomico? In quei giorni, erano lecite le più rovinose ipotesi. E sgusciando fra le note di Brahms, mille pensieri angosciosi e meschini lo assalirono.
Se scoppiava la guerra, dove avrebbe mandato i suoi? Fuggire all'estero? Ma la villa appena costruita, in cui aveva speso tutti i suoi risparmi, che fine avrebbe fatto? Sì, come mestiere, lui Saracino era fortunato. In qualsiasi parte del mondo, con la sua celebrità, di fame non sarebbe sicuramente morto. E poi i russi, per gli artisti hanno notoriamente un debole. Ma a questo punto, con orrore, si ricordò che due anni prima egli si era alquanto compromesso firmando, con tanti altri intellettuali, un manifesto antisovietico. Figurarsi se i colleghi non l'avrebbero fatto sapere alle autorità d'occupazione. No, no, meglio fuggire. E sua mamma, oramai vecchia? E sua sorella minore? E i cani? Precipitava in un pozzo di sgomento.
Del resto, che fosse giunta una informazione di catastrofe fulminea, non c'era ormai più ombra di dubbio. Con la minima decenza imposta dalla tradizione del teatro, il pubblico stava scandalosamente disertando. Saracino, alzando gli occhi verso i palchi, notava sempre più numerosi vuoti. A uno a uno, se ne andavano. La pelle, i soldi, le provviste, lo sfollamento, non c'era da perdere un minuto. Altro che Brahms. "Che vigliacchi" pensò Saracino, che aveva dinanzi a sé ancora dieci minuti buoni di sinfonia, prima di potersi muovere. "Che vigliacco" si disse però subito dopo, misurando l'abbietto panico, da cui si era lasciato impossessare. Tutto infatti andava disfacendosi, dentro e dinanzi a lui. I cenni, ormai puramente meccanici, della bacchetta, non trasmettevano più nulla all'orchestra la quale inevitabilmente si era a sua volta resa conto della dissoluzione generale. E fra poco si sarebbe giunti al punto decisivo della sinfonia, alla liberazione, al grande colpo d'ala. "Che vigliacco" si ripeté Saracino, nauseato. La gente se ne andava? La gente stava fregandosene di lui, della musica, di Brahms per correre a salvare le loro esistenze miserabili? E con questo?
Improvvisamente capì che la salvezza, l'unica via di scampo, la sola utile e degna fuga era, per lui, come per tutti gli altri, stare fermo, non lasciarsi trascinare via, continuare il proprio lavoro fino in fondo. Una rabbia lo prese al pensiero di ciò che accadeva nella penombra alle sue spalle, che stava per accadere pure a lui. Si riscosse, alzò la bacchetta gettando a quelli dell'orchestra una spavalda e allegra occhiata, d'incanto ristabilì il flusso vitale. Un tipico arpeggio discendente di clarino lo avvertì che erano ormai vicini: stava per cominciare lo stacco, la selvaggia impennata con cui la ottava Sinfonia, dalla pianura della mediocrità scatta verso l'alto e con gli accavallamenti tipici di Brahms, a potenti folate, si leva verticalmente, fino a torreggiare vittoriosa in una suprema luce, come nuvola. Vi si buttò dentro con l'impeto moltiplicato dalla collera. Scossa da un brivido, anche l'orchestra si impennò, oscillando paurosamente per una frazione di secondo, quindi partì al galoppo, irresistibile.
E allora il brusio, i sussurri, i colpi, i tramestii, i passi, il viavai tacquero, nessuno si mosse né fiatava più, inchiodati tutti restarono, non più paura ma vergogna, mentre dalle argentee antenne delle trombe, lassù, le bandiere sventolavano.
(Dino Buzzati, La notizia, da Sessanta racconti)

domenica 20 maggio 2018

IL ROMANZO POSTMODERNO

Definizione di "postmoderno"
http://www.treccani.it/enciclopedia/postmoderno/

IL POSTMODERNO (da Cataldi-Angioloni-Panichi, Letteratura Mondo, ed rossa, Palumbo)





ITALO CALVINO, Le città invisibili (1972)
http://www.p4lmedia.net/pdf/lup_rossa/v6/Parte_XIV/OnLine_NeRossa_PXIV_cap_CALVINO_PP_vol_6.pdf
Quello che sta a cuore al mio Marco Polo è scoprire le ragioni segrete che hanno portato gli uomini a vivere nella città, ragioni che potranno valere al di là di tutte le crisi. Le città sono un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni d’un linguaggio; le città sono luoghi di scambio, come spiegano i libri di storia dell’economia, ma questo scambi non sono soltanto scambi di merci, sono scambi diparole, di desideri, di ricordi. Il mio libro s’apre e si chiude su immagini di città felici che continuamente prendono forma e svaniscono,nascoste nelle città infelici.
da I. Calvino, Presentazione, in Le città invisibili, Mondadori, Milano 1999, pp. VII-X.

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.
Italo Calvino, Le città invisibili, conclusione

Dalla sezione Le città continue
Leonia
La città di Leonia rifà se stessa tutti i giorni: ogni mattina la popolazione si risveglia tra lenzuola fresche, si lava con saponette appena sgusciate dall'involucro, indossa vestaglie nuove fiammanti, estrae dal più perfezionato frigorifero barattoli di latta ancora intonsi, ascoltando le ultime filastrocche che dall'ultimo modello d'apparecchio.
Sui marciapiedi, avviluppati in tersi sacchi di plastica, i resti di Leonia d'ieri aspettano il carro dello spazzaturaio. Non solo i tubi di dentifricio schiacciati, lampadine fulminate, giornali, contenitori, materiali d'imballaggio, ma anche scaldabagni, enciclopedie, pianoforti, servizi di porcellana: più che dalle cose di ogni giorno vengono fabbricate vendute comprate, l'opulenza di Leonia si misura dalle cose che ogni giorno vengono buttate via per far posto alle nuove. Tanto che ci si chiede se la vera passione di Leonia sia davvero come dicono il godere delle cose nuove e diverse, o non piuttosto l'espellere, l'allontanare da sé, il mondarsi d'una ricorrente impurità. Certo è che gli spazzaturai sono accolti come angeli, e il loro compito di rimuovere i resti dell'esistenza di ieri è circondato d'un rispetto silenzioso, come un rito che ispira devozione, o forse solo perché una volta buttata via la roba nessuno vuole più averci da pensare.
Dove portino ogni giorno il loro carico gli spazzaturai nessuno se lo chiede: fuori dalla città, certo; ma ogni anno la città s'espande, e gli immondezzai devono arrestare più lontano; l'imponenza del gettito aumenta e le cataste s'innalzano, si stratificano, si dispiegano su un perimetro più vasto. Aggiungi che più l'arte di Leonia eccelle nel fabbricare nuovi materiali, più la spazzatura migliora la sua sostanza, resiste al tempo, alle intemperie, a fermentazioni e combustioni. E' una fortezza di rimasugli indistruttibili che circonda Leonia, la sovrasta da ogni lato come un acrocoro di montagne.
Il risultato è questo: che più Leonia espelle roba più ne accumula; le squame del suo passato si saldano in una corazza che non si può togliere; rinnovandosi ogni giorno la città conserva tutta se stessa nella sola forma definitiva: quella delle spazzature d'ieri che s'ammucchiano sulle spazzature dell'altroieri e di tutti i suoi giorni e anni e lustri.
Il pattume di Leonia a poco a poco invaderebbe il mondo, se sullo sterminato immondezzaio non stessero premendo, al di là dell'estremo crinale, immondezzai d'altre città, che anch'esse respingono lontano da sé le montagne di rifiuti. Forse il mondo intero, oltre i confini di Leonia, è ricoperto da crateri di spazzatura, ognuno con al centro una metropoli in eruzione ininterrotta. I confini tra le città estranee e nemiche sono bastioni infetti in cui i detriti dell'una e dell'altra si puntellano a vicenda, si sovrastano, si mescolano.
Più ne cresce l'altezza, più incombe il pericolo delle frane: basta che un barattolo, un vecchio pneumatico, un fiasco spagliato rotoli dalla parte di Leonia e una valanga di scarpe spaiate, calendari d'anni trascorsi, fiori secchi sommergerà la città nel proprio passato che invano tentava di respingere, mescolato con quello delle altre città limitrofe, finalmente monde: un cataclisma spianerà la sordida catena montuosa, cancellerà ogni traccia della metropoli sempre vestita a nuovo. Già dalle città vicine sono pronti coi rulli compressori per spianare il suolo, estendersi nel nuovo territorio, ingrandire se stesse, allontanare i nuovi immondezzai.

Riflessioni sul testo di Leonia
http://www.lacooltura.com/2017/04/leonia-la-citta-del-consumismo-calvino/







Dalla sezione Le città sottili
Ottavia
Se volete credermi, bene. Ora dirò come è fatta Ottavia, città - ragnatela. C'è un precipizio in mezzo a due montagne scoscese: la città è sul vuoto, legata alle due creste con funi e catene e passerelle. Si cammina sulle traversine di legno, attenti a non mettere il piede negli intervalli, o ci si aggrappa alle maglie di canapa. Sotto non c'è niente per  centinaia e centinaia di metri: qualche nuvola scorre; s'intravede più in basso il fondo del burrone. Questa è la base della città: una rete che serve da passaggio e da sostegno.
Tutto il resto, invece d'elevarsi sopra, sta appeso sotto: scale di corda, amache, case fatte a sacco, attaccapanni, terrazzi come navicelle, otri d'acqua, becchi del gas, girarrosti, cesti appesi a spaghi, montacarichi, docce, trapezi e anelli per i giochi, teleferiche, lampadari, vasi con piante dal fogliame pendulo.
Sospesa sull'abisso, la vita degli abitanti d'Ottavia è meno incerta che in altre città.
Sanno  che più di tanto la rete non regge.



UMBERTO ECO, Il nome della rosa (1980)
Conclusione
Il rogo della Biblioteca

Rovistando tra le macerie trovavo a tratti brandelli di pergamena, precipitati dallo scriptorium e dalla biblioteca e sopravvissuti come tesori sepolti nella terra; e incominciai a raccoglierli, come se dovessi ricomporre i fogli di un libro. Poi mi avvidi che da uno dei torrioni saliva ancora, pericolante e quasi intatta, una scala a chiocciola allo scriptorium, e di lì, inerpicandosi per un pendio di macerie, si poteva arrivare all'altezza della biblioteca: la quale era però soltanto una sorta di galleria rasente le mura esterne, che dava in ogni punto sul vuoto.
Lungo un tratto di muro trovai un armadio, ancora miracolosamente ritto lungo la parete, non so come sopravvissuto al fuoco, marcio d'acqua e di insetti. Dentro vi stava ancora qualche foglio. Altri lacerti trovai frugando le rovine da basso. Povera messe fu la mia, ma passai una intera giornata a raccoglierla, come se da quelle disiecta membra della biblioteca dovesse pervenirmi un messaggio. Alcuni brandelli di pergamena erano scoloriti, altri lasciavano intravvedere l'ombra di una immagine,
a tratti il fantasma di una o più parole. Talora trovai fogli su cui erano leggibili intere frasi, più facilmente rilegature ancora intatte, difese da quelle che erano state borchie di metallo... Larve di libri, apparentemente ancora sane di fuori ma divorate all'interno: eppure qualche volta si era salvato un mezzo foglio, traspariva un incipit, un titolo...
Raccolsi ogni reliquia che potei trovare, e ne empii due sacche da viaggio, abbandonando cose che mi erano utili pur di salvare quel misero tesoro.
Lungo il viaggio di ritorno e poi a Melk passai molte e molte ore a tentar di decifrare quelle vestigia. Spesso riconobbi da una parola o da una immagine residua di quale opera si trattasse.
Quando ritrovai nel tempo altre copie di quei libri, li studiai con amore, come se il fato mi avesse lasciato quel legato, come se l'averne individuato la copia distrutta fosse stato un segno chiaro del cielo che diceva tolle et lege. Alla fine della mia paziente ricomposizione mi si disegnò come una biblioteca  minore, segno di quella maggiore scomparsa, una biblioteca fatta di brani, citazioni,
periodi incompiuti, moncherini di libri.

Più rileggo questo elenco più mi convinco che esso è effetto del caso e non contiene alcun messaggio. Ma queste pagine incomplete mi hanno accompagnato per tutta la vita che da allora mi è restata da vivere, le ho spesso consultate come un oracolo, e ho quasi l'impressione che quanto ho scritto su questi fogli, che tu ora leggerai, ignoto lettore, altro non sia che un centone, un carme a figura, un immenso acrostico che non dice e non ripete altro che ciò che quei frammenti mi hanno suggerito, né so più se io abbia sinora parlato di essi o essi abbiano parlato per bocca mia. Ma quale delle due venture si sia data, più recito a me stesso la storia che ne è sortita, meno riesco a capire se in essa vi sia una trama che vada al di là della sequenza naturale degli eventi e dei tempi che li connettono. Ed è cosa dura per questo vecchio monaco, alle soglie della morte, non sapere se la lettera che ha scritto contenga un qualche senso nascosto, e se più d'uno, e molti, o nessuno. 
Ma questa mia inabilità a vedere è forse effetto dell'ombra che la grande tenebra che si avvicina sta gettando sul mondo incanutito.
Est ubi gloria nunc Babylonia? Dove sono le nevi di un tempo? La terra danza la danza di Macabré, mi sembra a tratti che il Danubio sia percorso da battelli carichi di folli che vanno verso un luogo oscuro.
Non mi rimane che tacere. O quam salubre, quam iucundum et suave est sedere in solitudine et tacere et loqui cum Deo! Tra poco mi ricongiungerò col mio principio, e non credo più che sia il Dio di gloria di cui mi avevano parlato gli abati del mio ordine, o di gioia, come credevano i minoriti di allora, forse neppure di pietà. Gott ist ein lautes Nichts, ihn rührt kein Nun noch Hier... Mi inoltrerò presto in questo deserto amplissimo, perfettamente piano e incommensurabile, in cui il cuore veramente pio soccombe beato. Sprofonderò nella tenebra divina, in un silenzio muto e in una unione ineffabile, e in questo sprofondarsi andrà perduta ogni eguaglianza e ogni disuguaglianza, e in quell'abisso il mio spirito perderà se stesso, e non conoscerà
né l'uguale né il disuguale, né altro: e saranno dimenticate tutte le differenze, sarò nel fondamento semplice, nel deserto silenzioso dove mai si vide diversità, nell'intimo dove nessuno si trova nel proprio luogo. Cadrò nella divinità silenziosa e disabitata dove non c'è opera né immagine.

Fa freddo nello scriptorium, il pollice mi duole. Lascio questa scrittura, non so per chi, non so più intorno a che cosa: stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus. 

Guida alla lettura
http://www.cogitoetvolo.it/files/materiali%20libri/Guida%20alla%20lettura%20de%20Il%20nome%20della%20rosa(1).pdf

mercoledì 2 maggio 2018

LA NARRATIVA IN ITALIA DALLO SPERIMENTALISMO DI GADDA AL NEOREALISMO

La deformazione linguistica in Gadda
http://www.raiscuola.rai.it/articoli/carlo-emilio-gadda-si-racconta/4087/default.aspx

Quer pasticciaccio brutto de via Merulana

Capitolo 1
Tutti oramai lo chiamavano don Ciccio. Era il dottor Francesco Ingravallo comandato alla mobile: uno dei più giovani e, non si sa perché, invidiati funzionari della sezione investigativa: ubiquo ai casi, onnipresente su gli affari tenebrosi. Di statura media, piuttosto rotondo della persona, o forse un po’ tozzo, di capelli neri e folti e cresputi che gli venivan fuori dalla metà della fronte quasi a riparargli i due bernoccoli metafisici dal bel sole d’Italia, aveva un’aria un po’ assonnata, un’andatura greve e
dinoccolata, un fare un po’ tonto come di persona che combatte con una laboriosa digestione: vestito come il magro onorario statale gli permetteva di vestirsi, e con una o due macchioline d’olio sul bavero, quasi impercettibili però, quasi un ricordo della collina molisana. Una certa prati- caccia del mondo, del nostro mondo detto «latino», benché giovine (trentacinquenne), doveva di certo avercela: una certa conoscenza degli uomini: e anche delle donne. La sua padrona di casa lo venerava, a non dire adorava: in ragione di e nonostante quell’arruffio strano d’ogni trillo e d’ogni busta gialla imprevista, e di chiamate notturne e d’ore senza pace, che formavano il tormentato contesto del di lui tempo. «Non ha orario, non ha orario! Ieri mi è tornato che faceva giorno! » Era, per lei, lo « statale distintissimo » lungamente sognato, preceduto da cinque A sulla inserzione del Messaggero, evocato, pompato fuori dall’assortimento infinito degli statali con quell’esca della «bella assolata affittasi» e nonostante la perentoria intimazione in chiusura: «Escluse donne»: che nel gergo delle inserzioni del Messaggero offre, com’è noto, una duplice possibilità d’interpretazione. E poi era riuscito a far chiudere un occhio alla questura su quella ridicola storia dell’ammenda... sì, della multa per la mancata richiesta della licenza di locazione.., che se la dividevano a metà, la multa, tra governatorato e questura. «Una signora come me! Vedova del commendatore Antonini! Che si può dire che tutta
Roma lo conosceva: e quanti lo conoscevano, lo portavano tutti in parma de mano, non dico perché fosse mio marito, bon’anima! E mo me prendono per un’affittacamere! Io affittacamere? Madonna santa, piuttosto me butto a fiume. 
 Nella sua saggezza e nella sua povertà molisana, il dottor Ingravallo, che pareva vivere di silenzio e di sonno sotto la giungla nera di quella parrucca, lucida come pece e riccioluta come d’agnello d’Astrakan, nella sua saggezza interrompeva talora codesto sonno e silenzio per enunciare qualche teoretica idea (idea generale s’intende) sui casi degli uomini: e delle donne. A prima vista, cioè al primo udirle, sembravano banalità. Non erano banalità. Così quei rapidi enunciati, che facevano sulla sua bocca il crepitio improvviso d’uno zolfanello illuminatore, rivivevano poi nei timpani della gente a distanza di ore, o di mesi, dalla enunciazione: come dopo un misterioso tempo incubatorio. « Già! » riconosceva l’interessato: « il dottor Ingravallo me l’aveva pur detto. » Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuoi dire gomitolo. Ma il termine giuridico « le causali, la causale » gli sfuggiva preferentemente di bocca: quasi contro sua voglia. L’opinione che bisognasse «riformare in noi il senso della categoria di causa » quale avevamo dai filosofi, da Aristotele o da Emmanuele Kant, e sostituire alla causa le cause era in lui una opinione centrale e persistente: una fissazione, quasi: che gli evaporava dalle labbra carnose, ma piuttosto bianche, dove un mozzicone di sigaretta spenta pareva, pencolando da un angolo, accompagnare la
sonnolenza dello sguardo e il quasi-ghigno, tra amaro e scettico, a cui per «vecchia» abitudine soleva atteggiare la metà inferiore della faccia, sotto quel sonno della fronte e delle palpebre e quel nero pìceo della parrucca. Così, proprio così, avveniva dei «suoi» delitti. «Quanno me chiammeno! ... Già. Si me chiammeno a me... può stà ssicure ch’è nu guaio: quacche gliuommero... de sberretà... » diceva, contaminando napolitano, molisano, e italiano.
La causale apparente, la causale principe, era sì, una. Ma il fattaccio era l’effetto di tutta una rosa di causali che gli eran soffiate addosso a molinello (come i sedici venti della rosa dei venti quando s’avviluppano a tromba in una depressione ciclonica) e avevano finito per strizzare nel vortice del delitto la debilitata «ragione del mondo». Come si storce il collo a un pollo. E poi soleva dire, ma questo un po’ stancamente, «ch’i femmene se retroveno addò n’i vuò truvà». Una tarda riedizione italica del vieto « cherchez la femme ». E poi pareva pentirsi, come d’aver calunniato ‘e femmene, e
voler mutare idea. Ma allora si sarebbe andati nel difficile. Sicché taceva pensieroso, come temendo d’aver detto troppo. Voleva significare che un certo movente affettivo, un tanto o, direste oggi, un quanto di affettività, un certo « quanto di erotia », si mescolava anche ai «casi d’interesse», ai delitti apparentemente più lontani dalle tempeste d’amore. Qualche collega un tantino invidioso delle sue trovate, qualche prete più edotto dei molti danni del secolo, alcuni subalterni, certi uscieri, i superiori,
sostenevano che leggesse dei libri strani: da cui cavava tutte quelle parole che non vogliono dir nulla, o quasi nulla, ma servono come non altre ad accileccare gli sprovveduti, gli ignari. Erano questioni un po’ da manicomio: una terminologia da medici dei matti. Per la pratica ci vuol altro! I fumi e le filosoficherie son da lasciare ai trattatisti: la pratica dei commissariati e della squadra mobile è tutt’un altro affare: ci vuole della gran pazienza, della gran carità: uno stomaco pur anche a posto: e, quando
non traballi tutta la baracca dei taliani, senso di responsabilità e decisione sicura, moderazione civile; già: già: e polso fermo. Di queste obiezioni così giuste lui, don Ciccio, non se ne dava per inteso: seguitava a dormire in piedi, a filosofare a stomaco vuoto, e a fingere di fumare la sua mezza sigheretta, regolarmente spenta. 

Capitolo 2
I parenti furono «avvertiti» ufficialmente a sera tardi, ma Ingravallo, fin da la matina, aveva proibito de falli entrà. Rinnovate inchieste e puntuali contestazioni autoptiche, tanto der capoccione don Ciccio che der maresciallo Valiani, be’, se sa, non significarono gran che. Be’, cioè: qualche evidenza di furto. Nessun’arme fu rinvenuta. Ma diversi tiretti e cassetti, a guardacce dentro, se capì che quarche cosa aveveno da sapé. Non apparvero poi tanto ignari, quanto dal di fuori si davan l’aria. Armi, no. E nessuna indicazione, eccettoché le gocce rosse per terra, e quel sangue... trascinato dai tacchi. Presso lo sciacquatore, in cucina, il pavimento a mattonelle era bagnato d’acqua. Un coltello «affilatissimo» e del tutto assente era il più indiziato d’aver potuto lavorare a quel modo. Le gocce, anziché da mano assassina, parevano gocciolate giù da un coltello. Nere, ora. La inopinata lucentezza, il tagliente e la breve acuità d’una lama. In lei uno sgomento. Lui, di certo, aveva colpito all’improvviso: e insistito poi nella gola, nella trachea, con efferata sicurezza. La «colluttazione» se pure era da credervi, doveva essere stata nient’altro che un misero conato, da parte della vittima, uno sguardo atterrito e subitamente implorante, l’abbozzo di un gesto: una mano levata appena, bianca, a stornare l’orrore, a tentar di stringere il polso villoso, la mano implacabile e nera dell’omicida, la sinistra, che già le adunghiava il volto e le arrovesciava il capo a ottener la gola più libera, interamente nuda e indifesa contro il balenare d’una lama: che la destra aveva già estratto a voler ferire, ad uccidere.
Una cerea mano si allentava, ricadeva... quando Liliana aveva già il cortello dentro il respiro, che le lacerava, le straziava la trachea: e il sangue, a tirà er fiato, le annava giù ner polmone: e il fiato le gorgogliava fuora in quella tosse, in quello strazio, da paré tante bolle de sapone rosse: e la carotide, la jugulare, buttaveno come due pompe de pozzo, lùf, lùf, a mezzo metro de distanza. Il fiato, l’ultimo, de traverso, a bolle, in quella porpora atroce della sua vita: e si sentiva il sangue, nella bocca, e vedeva quegli occhi, non più d’uomo, sulla piaga: ch’era ancora da lavorare: un colpo ancora: gli occhi! della belva infinita. La insospettata ferocia delle cose... le si rivelava d’un subito... brevi anni! Ma lo spasimo le toglieva il senso, annichilava la memoria, la vita. Una dolciastra, una tepida sapidità della notte.
Le mani, bianchissime, con quelle tenere unghie, color pervinca, ora, non presentavano tagli: non aveva potuto, non aveva osato afferrare il tagliente, o fermare la determinazione del carnefice. Si era conceduta al carnefice. Il viso e il naso apparivano sgraffiati, qua e là, nella stanchezza e nel pallore della morte, come se l’odio avesse oltrepassato la morte. Le dita erano prive di anelli, la fede era sparita. Né veniva in mente, allora, di imputarne la sparizione alla patria. Il coltello aveva lavorato da par suo. Liliana! Liliana! A don Ciccio pareva che ogni forma del mondo si ottenebrasse, ogni gentilezza del mondo.
L’incaricato dell’ufficio criminologico escluse il rasoio, che dà tagli più netti, ma più superficiali, così opinò, e, in genere, multipli: non potendo venir adibito di punta, né con tanta violenza. Violenza? Sì, la ferita era profondissima, orribile: aveva resecato metà il collo, a momenti. In tutta la camera da pranzo, no, nessun indizio... all’infuori der sangue. In giro pe l’altre camere nemmeno. Salvoché ancora sangue: delle tracce palesi ne lo sciacquatore de cucina: diluito, da parer quello d’una rana: e molte gocce scarlatte, o già nere, sur pavimento, rotonde e radiate come ne fa il sangue a lassallo gocciolà per terra: come sezioni d’asteroidi. Quelle gocce, orribili, davano segno d’un itinerario evidente: dal superstite ingombro del corpo, dalla tepida testimonianza di lei, morta!... Liliana! fino a lo sciacquatore de cucina, al gelo e al lavacro: al gelo che d’ogni memoria ci assolve. Molte gocce, nella camera da pranzo, ecco, di cui cinque o pure più ereno finitime all’altro sangue, a tutto quer pasticcio, alle macchie e alla pozza più grossa, de dove l’aveveno preso pe strascinallo in giro co le scarpe, queli maledetti caprari. Molte ner corridore, un po’ più piccole, molte in cucina: e alcune sfregate via come pe cancellalle co la sòla da nun falle vede su le mattonelle bianche, ad esagono. Furono tentati i mobili: undici fra cassetti e sportelli, d’armadi e de credenze, non li poterono aprire. Giuliano, in salotto, era guardato a vista da due agenti. Cristoforo j’aveva portato du panini e du aranci. Tutti quegli omacci seguitavano a girare e a scalpicciare per la casa. Un urto de nervi. Don Ciccio sedette, affranto, in anticamera, in attesa del giudice. Poi riandò là: guardò, come per un commiato, la povera creatura sopra a cui stavano a disputà sottovoce li fotografi, badando non insudiciarsi pure loro o le loro trappole, con lampade, schermi, fili, treppiedi, macchinoni a soffietto. Aveveno già scovato due prese de dietro a du portrone, e aveveno già fatto sartà la varvola du o tre vorte, una de le tre varvole de l’appartamento. Si decisero per il magnesio. Aggeggiavano come du angeloni sinistri pieni de voja de falla franca, al di sopra di quella terrificante stanchezza: un freddo, un povero relitto, ora, della cattiveria del mondo. Le loro manovre de mosconi, queli fili, quelo strigne li diaframmi, quer mettese d’accordo sottovoce pe vedé de nun faje pijà foco a tutta la baracca... erano il primo ronzare dell’eternità sui sensi opachi di lei, de quer corpo de donna che nun ciaveva più pudore né memoria. Operavano sulla «vittima» senza riguardarne la pena, e senza poterne riscattare l’ignominia. La bellezza, l’indumento, la spenta carne di Liliana era là: il dolce corpo, rivestito ancora agli sguardi. Nella turpitudine di quell’atteggiamento involontario - della quale erano motivi, certo, e la gonna rilevata addietro dall’oltraggio e l’ostensione delle gambe, su su, e del rilievo e della solcatura di voluttà che incupidiva i più deboli: e gli occhi affossati, ma orribilmente aperti nel nulla, fermi a una meta inane sulla credenza - la morte gli apparve, a don Ciccio, una decombinazione estrema dei possibili, uno sfasarsi di idee interdipendenti, armonizzate già nella persona. Come il risolversi d’una unità che non ce la fa più ad essere e ad operare come tale, nella caduta improvvisa dei rapporti, d’ogni rapporto con la realtà sistematrice.
Il dolce pallore del di lei volto, così bianco nei sogni opalini della sera, aveva ceduto per modulazioni funebri a un tono cianotico, di stanca pervinca: quasicché l’odio e l’ingiuria fossero stati troppo acerbi al conoscere, al tenero fiore della persona e dell’anima. Dei brividi gli correvano la schiena. Cercò a riflettere. Sudava.
(Carlo Emilio Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, in Romanzi e racconti II, a cura di Giorgio Pinotti, Dante Isella, Raffaella Rodondi, edizione diretta da Dante Isella, Garzanti, Milano 1989, pp. 67-70)

 ***
LA NASCITA DEL NEOREALISMO
Nel primo numero della rivista (29 settembre 1945) Vittorini spiega perché ha scelto di dare alla rivista da lui fondata, "Il Politecnico"lo stesso nome di quella fondata nel 1839 Carlo Cattaneo, scrittore e patriota:

L'altro Politecnico si pubblicava a Milano dal 1839 al '45 … Aveva un ideale pratico la cultura di Cattaneo: Primo bisogno è quello di conservare la vita, affermava il Manifesto d'Associazione al primo anno del Politecnico. Ma completava: La Pittura, la Scultura, l'Architettura, la Musica, la Poesia … e le altre arti dell'immaginazione scaturiscono da un bisogno che nel senso della civiltà diviene non meno imperioso di quello della sussistenza.

 Nell'articolo programmatico del Politecnico intitolato – non a caso – Una nuova cultura, Vittorini denuncia le responsabilità degli intellettuali di fronte agli orrori della guerra e auspica la nascita di una cultura  diversa, che si ponga l'obiettivo non di consolare ma di eliminare la sofferenza e lo sfruttamento:

Per un pezzo sarà difficile dire se qualcuno o qualcosa abbia vinto in questa guerra. Ma certo vi è tanto che ha perduto, e che si vede come abbia perduto. I morti, se li contiamo, sono più di bambini che di soldati; le macerie sono di città che avevano venticinque secoli di vita... E se ora milioni di bambini sono stati uccisi, se tanto che era sacro è stato lo stesso colpito e distrutto, la sconfitta è anzitutto di questa 'cosa' che c'insegnava l'inviolabilità loro. Questa 'cosa' non è altro che la cultura: lei che è stata pensiero greco, ellenismo, romanesimo, cristianesimo latino, cristianesimo medioevale, umanesimo, riforma, illuminismo, liberalismo... E se il fascismo ha avuto modo di commettere tutti i delitti  che questa cultura aveva insegnato ad esecrare già da tempo, non dobbiamo chiedere proprio a questa cultura come e perché il fascismo ha potuto commetterli?... Essa ha predicato, ha insegnato, ha elaborato principi e valori, ha scoperto continenti e costruito macchine ma non si è identificata con la società, non ha governato con la società, non ha condotto eserciti per la società... L'uomo ha sofferto nella società, l'uomo soffre. E che cosa fa la cultura per l'uomo che soffre? Cerca di consolarlo. Per questo suo modo di consolatrice in cui si è manifestata fino ad oggi, la cultura non ha potuto impedire gli orrori del fascismo. Nessuna forza sociale era 'sua' in Italia o in Germania per impedire l'avvento al potere del fascismo... Potremo mai avere una cultura che sappia proteggere l'uomo dalle sofferenze invece di limitarsi a consolarlo? Una cultura che le impedisca, che le scongiuri, che aiuti a eliminare lo sfruttamento e la schiavitù, e a vincere il bisogno, questa è la cultura in cui occorre che si trasformi tutta la vecchia cultura... Io mi rivolgo a tutti gli intellettuali italiani che hanno conosciuto il fascismo. Non ai marxisti soltanto, ma anche agli idealisti, anche ai cattolici, anche ai mistici. Vi sono ragioni dell'idealismo o del cattolicesimo che si oppongono alla trasfor­mazione della cultura in una cultura capace di lottare contro la fame e le sofferenze?

Il 10 ottobre 1946 il segretario del PCI Palmiro Togliatti interviene su Rinascita, settimanale del PCI, affermando che le idee positive e costruttive espresse da Vittorini nel primo numero del Politecnico si erano oggi ridotte a una ricerca astratta del nuovo, del diverso e del sorprendente, incapace di dare un contributo serio e utile al rinnovamento della cultura italiana.

Nella risposta a Togliatti, pubblicata sul numero 35 del Politecnico nel 1947, Vittorini pone una domanda: chi è lo scrittore rivoluzionario? Colui che non asseconda la politica limitandosi a  suonare il piffero, a ripetere parole d'ordine; rivoluzionario è lo scrittore che, attraverso gli strumenti della letteratura - sa individuare e comprendere le vere esigenze dell'uomo:

Rivoluzionario è lo scrittore che riesce a porre attraverso la sua opera esigenze rivoluzionarie, ma 'diverse' da quelle che la politica pone: esigenze … dell'uomo ch'egli soltanto sa scorgere nell'uomo, che è proprio di lui scrittore scorgere, e che è proprio di lui scrittore rivoluzionario porre, e porre 'accanto' alle esigenze che pone la politica. Quando io parlo di sforzi in senso rivoluzionario da parte di noi scrittori, parlo di sforzi rivolti a porre simili esigenze. E se accuso il timore che i nostri sforzi in senso rivoluzionario non siano riconosciuti come tali è perché vedo la tendenza a riconoscere come rivoluzionaria la letteratura di chi suona il piffero per la rivoluzione piuttosto che la letteratura di cui simili esigenze sono poste, la letteratura detta oggi di crisi.

Anni dopo, in una lettera a Calvino [1], Vittorini spiega che per lui la vera cultura è quella capace di ricercare la verità, senza piegarsi a nessuna esigenza esterna. Questa idea è stata alla base della sua battaglia sul Politecnico:

Nel Politecnico ho tentato di convincere i politici a riconoscere che se una parte della cultura  lavora per la civiltà e può, come tale, piegarsi anche alle esigenze politiche, un'altra parte della cultura (la cultura nel suo senso maggiore, e specialmente la poesia, le arti) lavora principalmente per la verità, per la ricerca della verità, e non può dunque assecondare le esigenze immediate della politica senza il rischio di perdere ogni senso e ogni valore.

[1]Gli anni del Politecnico Lettere 1941-1951, a cura di Carlo Minoia, Torino, Einaudi, 1977.

I filoni del Neorealismo
a) denuncia sociale e tensione simbolica (Pavese e Vittorini;)
b) tendenza documentaria volta a documentare l'orrore (Primo Levi)
c) il "realismo socialista" (Vasco Pratolini)
d) filone che congiunge il romanzo di formazione e la narrazione epica (Fenoglio, Pavese)
e) il romanzo resistenziale (Pavese, Fenoglio, Calvino)
f) impegno civile e denuncia sociale dopo il boom economico (Moravia, Calvino, Pasolini)
g) filone meridionalista (Alvaro, Silone).

Il realismo mitico - simbolico
PAVESE, PAESITUOI
Paesi tuoi è il primo romanzo di Cesare Pavese; composto nel 1939, verrà pubblicato nel 1941 dalla casa editrice Einaudi. Il tema centrale del romanzo è quello della contrapposizione tra la città e la campagna, simboleggiata dalle due figure principali: il meccanico torinese Berto e il contadino Talino. Questa antitesi viene ulteriormente sottolineata dal fatto che la campagna, focalizzata attraverso lo sguardo di Berto, viene presentata come un mondo ancestrale e magico, dominato dalle leggi dell’eros e della violenza.

Trama
 Berto e Talino, i due protagonisti, si conoscono in carcere, dove occupano la stessa cella: Berto si trova lì per aver investito un ciclista e Talino perché accusato d’incendio doloso ad una cascina nella campagna piemontese, dove vive. Trascorsa la reclusione e scontata la pena, Talino insiste affinché Berto lo segua a Monticello, suo paesino d’origine, per occuparsi della trebbiatrice e delle altre macchine della famiglia in vista dell’imminente mietitura, e guadagnarsi così il pane. Tuttavia, il vero intento di Talino è quello di avere qualcuno che lo possa difendere dalla probabile vendetta del compaesano a cui aveva incendiato la cascina per motivi di gelosia nei confronti della sorella Gisella. Berto, inizialmente molto scettico nei confronti del compagno di sventura e poco attirato dalla vita di campagna, rifiuta la proposta. In seguito però, cambia idea e decide di seguire Talino nelle Langhe. Il meccanico torinese rimane stupefatto davanti al paesaggio che gli si staglia davanti: è particolarmente impressionato dagli odori che regnano in campagna, tanto più forti e decisi rispetto a quelli cui è abituato. Anche il primo impatto con la vita rurale e con la famiglia di Talino non si rivelano per Berto così scontati: convinto della superiorità dei cittadini sui campagnoli, Berto fatica ad abituarsi al contesto e alla routine del luogo, e rimane basito davanti alla rudezza dei parenti di Talino, dal padre-padrone Vinverra alla madre e alle sorelle, rozze e sottomesse alla legge patriarcale dei campi. L’unica persona con cui Berto sente una certa sintonia e affinità è proprio Gisella, la sorella minore di Talino, una bella ragazza dalla sensualità prorompente.
Il meccanico torinese comincia a corteggiare la ragazza, pur avvertendo continuamente una profonda distanza tra sé e il mondo rurale in cui si trova. In segutio si scopre che Gisella in passato è stata violentata dal fratello Talino, colpevole di una passione incestuosa nei confronti della sorella. Quando Gisella inizia a manifestare un certo interesse per Berto, la gelosia brutale e la passione animalesca di Talino hanno il sopravvento: un giorno, mentre lui e Berto lavorano nei campi, davanti ad un gesto di gentilezza della sorella che offre da bere all’amico, Talino perde la testa e ferisce a morte la sorella con il suo tridente. Talino inizialmente fugge e si nasconde nel fienile, ma il giorno successivo fa ritorno a casa, dove Gisella è ormai agonizzante. Nonostante la drammaticità della situazione, Vinverra obbliga la famiglia a tornare al lavoro, e la ragazza viene lasciata a morire. Talino viene arrestato dai carabinieri e Berto di lì a poco torna in città.

Analisi
 Paesi tuoi è la prima opera narrativa lunga di Cesare Pavese e si inserisce in un punto specifico della sua carriera dello scrittore. Pavese infatti arriva alla scrittura in prosa dopo l’esperienza poetica assai particolare di Lavorare stanca (dove è già rilevante la componente narrativa, come emerge dall’uso del verso lungo) e durante il lavoro, nel periodo tra il 1936 e il 1946, a brevi racconti che confluiranno poi nelle edizioni postume di Notte di festa (1953), dei Racconti (1960) e di Ciau Masino (1968). Di quegli stessi anni poi è Il carcere, testo autobiografico sull’esperienza del confino a Brancaleone Calabro, che poi vedrà la luce solo nel 1949, insieme con La casa in collina. Paesi tuoi riassume così alcune caratteristiche della prima ricerca poetica e narrativa di Pavese: da un lato, le suggestioni della letteratura americana (la trama è chiaramente ispirata al romanzo Il postino suona sempre due volte, pubblicato nel 1936 dallo scrittore James Cain) che fanno di Paesi tuoi un antesignano della corrente del Neorealismo.
È significativo infatti che lo stesso Pavese, in una pagina de Il mestiere di vivere del novembre del 1949, etichetti Paesi tuoi (insieme con Il carcere, La bella estate e La spiaggia) sotto la categoria di “naturalismo”, come a sottolinearne la componente realistica, che emerge dalla rappresentazione del mondo rurale di Monticello e dalla riproduzione della parlata dei contadini. A questo livello si aggiunge però la componente mitico-ancestrale della narrazione, che è evidente dalla forte carica simbolica di molte pagine del romanzo, come quelle in cui si palesa il contrasto tra città e campagna o quelle in cui si fa ricorso a immagini metaforiche per esplicitare la carica sessuale di Gisella (come nel caso delle mele). Il simbolismo della vicenda rimanda infatti ad una tipica struttura tragica: le tensioni latenti (la passione animalesca di Talino per la sorella, l’attrazione fatale tra quest’ultima e Berto) esplodono nel dramma finale dell’omicidio della donna, che può essere trasparentemente inteso come una catarsi del tabù dell’incesto.

Questo sdoppiamento tra realtà e simbolo - che fece sì che all’epoca Paesi tuoi venne letto dalla critica come un’opera fortemente anticonformista e contenutisticamente scandalosa - si riflette anche sul piano stilistico: la sintassi è infatti modellata sull’oralità, secondo quella che sarà una tendenza tipica di altre opere neorealistiche, con frequente ricorso al discorso diretto e alle scene dialogate. La lingua prende la forma e le movenze dell’italiano regionale piemontese, e numerosi sono i calchi di espressioni dialettali con cui Pavese connota la parlata dei suoi personaggi. La vicenda viene così descritta attraverso il punto di vista e la focalizzazione di Berto, da cui dipendono i vari inserti di discorso indiretto libero. Spesso tuttavia nei suoi pensieri e nelle sue espressioni è ravvisabile l’intervento dell’autore, soprattutto là dove lo stile si innalza e dove aumentano i rimandi simbolici.

Tornato Vinverra, cominciano a scaricare. Il grassone aveva disfatto le corde che tenevano fermi i covoni, poi s’erano messi col tridente, lui e Talino, sopra il carro, e piantavano delle forcate là dentro, come due facchini. Sotto, Ernesto e le ragazze prendevano in spalla i covoni e li gettavano sotto il portico.
– Su e giù, su e giù, – gridava quello grasso, in mezzo alla polvere e al sole, – domani ballate per l’ultima volta.
A vedere Ernesto che s’era tolto la giacca e faceva il contadino, e la schiena piegata di quelle ragazze, e l’Adele che dalla finestra della sua stanza guardava e pareva che ridesse, mi viene vergogna e do mano a un tridente per aiutare anch’io. – Forza, – grida Talino, – si mette anche il macchinista -. Parlava sghignazzando, il sudore e le vene del collo lo eccitavano. I covoni pesavano e Talino me li gettava sulla testa come fossero dei cuscini. Ma tenevo duro; dopo cinque o sei viaggi vedevo solo come un incendio e avevo in bocca un sapore di grano, di polvere e sangue. E sudavo.
Poi mi fermo, arrivando sotto il portico. Quelle erano le gambe di Gisella. Il covone mi bruciava il collo come un disinfettante. E sento Talino che dice: – Gisella è venuta a vederti, forza! – Getto il covone sul mucchio e la vedo che passa ridendo, col secchio, fresca e arrabbiata. Mi asciugo il sudore, e Gisella era già contro il pozzo, che agganciava. Tanto io che Ernesto le lasciamo tirare su l’acqua, e poi corriamo insieme a bere. – Uno per volta, – diceva Gisella, e gli altri due si fermano lassù coi tridenti piantati.
– Quando abbiamo finito, porta qui la bottiglia, – dice Vinverra traversando il portico.
Mi ricordo che Gisella guardava dritto nel grano, mentre bevevo. Guardava tenendomi il secchio a mani giunte, con fatica, come aveva fatto per Ernesto ma lui lo guardava, e con me stava invece come se godesse facendosi baciare. Quando ci penso, mi sembra così. O magari era soltanto lo sforzo, e il capriccio di avercene due intorno che bevevano. Non gliel’ho più potuto chiedere.
Ecco che saltano dal carro Talino e Gallea. Vengono avanti come due ubriachi, Talino il primo, con le paglie in testa e il tridente in pugno.
– Là si lavora e qui si veglia, – fa con la voce di suo padre.
– C’è chi veglia di notte e chi veglia di giorno, – gli risponde Gisella. Ma lui dice: – Fa’ bere, – e si butta sul secchio e ci ficca la faccia. Gisella glielo strappa indietro e gli grida: – No, così sporchi l’acqua -. Dietro, vedo la faccia sudata dell’altro. – Talino, – fa Ernesto, – non attaccarti alle donne.
Forse Gisella cadeva; forse in tre potevamo ancora fermarlo; queste cose si pensano dopo. Talino aveva fatto due occhi da bestia e, dando indietro un salto, le aveva piantato il tridente nel collo. Sento un grosso respiro di tutti; Miliota dal cortile che grida «Aspettatemi»; e poi Gisella lascia andare il secchio che m’inonda le scarpe. Credevo fosse il sangue e faccio un salto e anche Talino fa un salto, e sentiamo Gisella che Gorgoglia: – Madonna! – e tossisce e le cade il tridente dal collo.
Mi ricordo che tutto il sudore mi era gelato addoso e che anch’io mi tenevo la mano sul collo, e che Ernesto l’aveva già presa alla vita e Gisella pendeva, tutta sporca di sangue, e Talino era sparito. Vinverra diceva «d’un cristo, d’un cristo» e corre addosso ai due nel trambusto la lasciano andar giù come un sacco, a testa prima nel fango. – Non è niente, – diceva Vinverra, – è una goffa, àlzati su -. Ma Gisella tossiva e vomitava sangue, e quel fango era nero. Allora la prendiamo, io per le gambe, e la portiamo contro il grano e non potevo guardarle la faccia che pendeva, e la gola saltava perdendo di continuo. Non si vedeva più la ferita.
Poi arrivano le sorelle, arrivano i bambini e la vecchia, e cominciano a gridare, e Vinverra ci dice di stare indietro, di lasciar fare alle donne perché bisogna levarle la camicetta. – Ma qui ci vuole un medico, – dico, – non vedete che soffoca? – Anche Ernesto si mette a gridare e per poco col vecchio non si battono. Finalmente parte Nando e gli grido dietro di far presto, e Nando corre corre come un matto.
– Altro che medico, – dice Gallea che ci guardava dal pilastro – ci vuole il prete.
– E Talino? – fa Ernesto, con gli occhi fuori.
In quel momento l’Adele tornava col catino correndo e si fa largo e s’inginocchia. Mi sporgo anch’io e sento piangere e vedo la vecchia che le tiene la testa, e Miliota che piange e l’Adele le tira uno schiaffo. Gisella era come morta, le avevano strappata la camicetta, le mammelle scoperte, dove non era insanguinata era nuda. Poi la vecchia ci grida di non guardare. Mi sento prendere il braccio. – Dov’è Talino? – chiede ancora Ernesto.
Si fa avanti Gallea. – È scappato sul fienile, – ci dice tutto scuro, – gli ho levata la scala.
Ernesto voleva salire. Gallea lo tiene e lo tengo anch’io. Batto i piedi in un manico. Era il tridente di Gisella, tutto sporco sul manico ma non sulle punte. – Teniamo questo, – gli dico, – senz’un’arma Talino è un vigliacco.
Poi sentiamo di nuovo tossire. Meno male, era viva. Il fango dov’era caduta col secchio faceva spavento, così nero; e la strada fino al grano era sempre più rossa, più fresca. Vinverra ricomincia a bestemmiare coi bambini, e si guardava intorno: cercava Talino. Si alza l’Adele e dice a Pina: – tu va’ avanti -. Poi chiamano Ernesto che venga a aiutare. Io no, perché ero nuovo, e da quel momento mi cessò il sopraffiato e cominciarono a tremarmi i denti. La prendono Ernesto e Vinverra; e Miliota le teneva un braccio. La vecchia mandava via i bambini. Attraversano adagio il cortile, le avevano coperto le mammelle, entrano in cucina. Le vedo l’ultima volta i capelli che pendevano e una gamba scoperta. Poi la portano su.
(C. Pavese, Paesi tuoi, 1941)

Il romanzo resistenziale
PAVESE, LA CASA IN COLLINA

Cesare Pavese pubblica il romanzo La casa in collina nel 1949 insieme con Il carcere nel volume unico Prima che il gallo canti. Se Il carcere risale al periodo tra il 1938 e il 1939 e rievoca l’esperienza del confino dell’autore a Brancaleone Calabro tra il 1935 e il 1936, La casa in collina indaga le conseguenze psicologiche e sociali del secondo conflitto mondiale e della Resistenza, cui Pavese stesso non partecipa, rifugiandosi, come il protagonista, in campagna. In entrambe le opere la narrazione è dunque fortemente intrisa di elementi autobiografici, che fanno trasparire alcune costanti della poetica di Pavese: il legame disarmonico tra l’intellettuale e la realtà, il rapporto complesso con il mondo rurale delle Langhe contrapposto a quello della città, il ruolo della memoria individuale.


Trama
Protagonista e narratore delle vicende è Corrado, un docente torinese che per sfuggire ai bombardamenti che imperversano nella città si è trasferito in collina presso una donna, Elvira, e la madre di lei. Le colline torinesi sono abitate da schietta gente del luogo e da persone di città che, come lui, hanno bisogno di un rifugio. Così, malgrado Corrado prediliga la solitudine e l’isolamento, si unisce ai frequentatori di un’osteria, le Fontane,che scopre essere gestita da un suo amore del passato, Cate, che ha un figlio, Corrado (chiamato da tutti Dino), che, per motivi anagrafici, potrebbe essere addirittura suo figlio. Corrado infatti anni addietro aveva interrotto la relazione con Cate per scansare le responsabilità di un rapporto maturo ed anche adesso, di fronte alla tragedia della guerra, vive con apparente indifferenza le vicende storiche che accadono intorno a lui.
Corrado si unisce al gruppo dell’osteria e, pur non scoprendo mai la verità circa la paternità di Dino, inizia a trascorrere molto tempo con lui (in maniera simile a quanto accadrà tra Anguilla e Cinto ne La luna e i falò). Nel frattempo il protagonista si interroga anche sul suo amore per Cate, che forse non si è del tutto estinto, e sul suo impegno storico e civile in un drammatico frangente storico, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Tuttavia Corrado non esterna mai le proprie idee e non si risolve mai all’azione, osservando da spettatore la barbarie della guerra, che devasta il mondo delle Langhe, strettamente legato ai ricordi infantili di Corrado.
La situazione è sconvolta da una retata dei nazisti, che all’osteria arrestano Cate e gli altri amici di Corrado, che, di ritorno da Torino, riesce fortunosamente a salvarsi assieme a Dino. Rifugiatosi prima da Elvira, innamorata di lui, e poi in un collegio a Chieri (nei pressi di Torino), Corrado affida Dino alle cure delle due donne. Il ragazzo in seguito raggiungerà il protagonista al collegio ma presto sceglie di arruolarsi nelle fila partigiane. Corrado, insicuro e incapace di affrontare l’impegno di una scelta, decide di tornare al paese natale e alla sua “casa in collina”. Durante il viaggio di ritorno, incappa in un’imboscata partigiana e la vista dei cadaveri dei fascisti gli suggerisce amare e disilluse riflessioni sul senso della guerra, dell’esistenza umana e della sua crisi esistenziale che, nella conclusione del romanzo, non è destinata a risolversi.

Analisi
Nella Casa in collina Pavese tratta una volta ancora quel dissidio tra la solitudine contemplativa dell’intellettuale e la presa di posizione storica ed ideologica che gli eventi storici richiederebbero. Pavese avverte profondamente questo dissidio per motivi autobiografici e lo traspone, attraverso la scelta della narrazione in prima persona, nella figura di Corrado. Il protagonista, debole e irresoluto, è preso all’interno di una serie di antitesi tra cui non sa decidersi. La prima di queste è quella tra la città e la collina: se Torino è devastata dai bombardamenti, inizialmente la campagna delle Langhe si presenta come un luogo sicuro e protetto, in cui Corrado può rivivere i ricordi dell’infanzia o l’amore passato con Cate. Tuttavia, ben presto la Storia nullifica questa opposizione: dopo l’8 settembre, con lo scoppio della guerra civile tra nazifascisti e partigiani, anche il mondo della campagna è attraversato dalla violenza e tutti sono chiamati a scelte drastiche e radicali. In questo senso, è significativa l’assenza di Corrado nel momento cruciale della retata e il suo successivo disimpegno, con la scelta di rimanere nascosto da Elvira prima e nel collegio poi.
La seconda antitesi è appunto quella tra chi si impegna (mostrando un legame attivo tra sé e il mondo esterno) e chi, come Corrado, è vittima del dubbio e dell’incertezza. Bisogna notare che questa crisi riguarda sia la vita privata che quella pubblica di Corrado. Se egli infatti non sa decidersi ad aderire alla lotta partigiana contro i repubblichini, sul piano personale è succube di tormenti analoghi. Corrado infatti non sa se Dino è davvero figlio suo, ma prova ad identificarsi in lui e a svolgere un ruolo paterno nei suoi confronti. Assai significativa in questo caso la decisione finale di Dino di abbandonare la sicurezza del collegio per entrare tra i partigiani, abbandonando Corrado nella sua incapacità di agire. In secondo luogo, quando rivede Cate il protagonista si domanda se il loro amore sia davvero finito, ma non fa nulla per riallacciare davvero il loro legame; dopo la retata, Corrado non saprà più nulla del destino della donna. In terzo luogo, Corrado preferisce quasi sempre la solitudine al rapporto con gli altri e con il mondo: prova ne è prima il suo rifugio nel microcosmo familiare della casa di Elvira e della madre e poi la scelta di autoescludersi da tutto ritornando alla “casa in collina”.
Ultima e più profonda antitesi è quella tra l’uomo e la Storia, di cui la guerra è una metafora assai evidente ed esplicita. Qui la crisi interiore di Corrado diventa una più ampia riflessione dell’autore sul significato dell’esistenza umana, in relazione con il valore della nostra vita e il senso della morte, specie quella di natura violenta. Corrado non riesce e non sa risolvere questo enigma, come testimoniano le ultime righe del romanzo:
Ci sono dei giorni in questa nuda campagna che camminando ho un soprassalto: un tronco secco, un nodo d'erba, una schiena di roccia, mi paiono corpi distesi... Io non credo che possa finire. Ora che ho visto cos'è la guerra, cos'è la guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: - E dei caduti che facciamo? Perché sono morti? - Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero.

La conclusione del romanzo
Le riflessioni di Corrado e il senso che esse danno a tutta La casa in collina diventano particolarmente significative nell’ultimo capitolo, quando Corrado è ormai solo e ha perduto gran parte dei propri punti di riferimento nelle altre figure della narrazione. I pensieri del protagonista vanno con insistenza al significato della violenza e della guerra:
È qui che la guerra mi ha preso, e mi prende ogni giorno. [...] non è che non veda come la guerra non è un gioco, quella guerra che è giunta fin qui, che prende alla gola anche il nostro passato. [...] Ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura di scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce, giustificare chi l’ha sparso.
La conclusione appare così un esame di coscienza del protagonista, che, da intellettuale e letterato, osserva l’insensata sofferenza della guerra, senza prenderne parte attivamente e senza trovare una giustificazione alle morti che il conflitto sta causando. Corrado da un lato comprende la dolorosa condizione umana, ma dall’altro si rammarica della propria impotenza e dell’impossibilità di fermare la sofferenza collettiva. Ed è qui che si realizza il paradosso della riflessione: forse, quando tutti avranno preso parte alla lotta e non ci saranno più differenze tra chi ha combattuto e chi no, allora si riuscirà a trovare la pace agognata. Corrado riflette anche sulla sua continua fuga da un conflitto inevitabile e il suo tentativo di vivere una vita tranquilla:
E se non fosse che la guerra ce la siamo covata nel cuore noialtri, noi non più giovani, noi che abbiamo detto “Venga dunque se deve venire”, - anche la guerra, questa guerra, sembrerebbe una cosa pulita. Del resto chi sa. Questa guerra ci brucia le case. Ci semina di morti fucilati le piazze e strade. Ci caccia come lepri di rifugio in rifugio. Finirà per costringerci a combattere anche noi, per strapparci un consenso attivo. E verrà il giorno che nessuno sarà fuori della guerra.
Il personaggio di Corrado appare, soprattutto in queste ultime pagine, come l’alter ego dello scrittore, che, attraverso La casa in collina, analizza se stesso, i propri incubi e le proprie paure. Ma il destino del protagonista può essere interpretato anche in chiave universale:diventa simbolo dell’uomo moderno e dell’insensatezza della morte, emblematizzata dai cadaveri sulla strada, che diventano per Corrado simboli della colpa e della vergogna.
https://library.weschool.com/lezione/cesare-pavese-romanzo-la-casa-in-collina-guerra-suicidio-5938.html

M'accorgo adesso che in tutto quest'anno, e anche prima, anche ai tempi delle magre follie, dell'Anna Maria, di Gallo, di Cate, quand'eravamo ancora giovani e la guerra una nube lontana, mi accorgo che ho vissuto un solo lungo isolamento, una futile vacanza, come un ragazzo che giocando a nascondersi entra dentro un cespuglio e ci sta bene, guarda il cielo da sotto le foglie, e si dimentica di uscire mai più.
E' qui che la guerra mi ha preso, e mi prende ogni giorno. Se passeggio nei boschi, se a ogni sospetto di rastrellatori mi rifugio nelle forre, se a volte discuto coi partigiani di passaggio (anche Giorgi c'è stato, coi suoi: drizzava il capo e mi diceva: "Avremo tempo le sere di neve a riparlarne"), non è che non veda come la guerra non è un gioco, questa guerra che è giunta fin qui, che prende alla gola anche il nostro passato. Non so se Cate, Fonso, Dino, e tutti gli altri, torneranno. Certe volte lo spero, e mi fa paura. Ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placano, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l'ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l'impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce - si tocca con gli occhi - che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione.
Ci sono giorni in questa nuda campagna che camminando ho un soprassalto: un tronco secco, un nodo d'erba, una schiena di roccia, mi paiono corpi distesi. Può sempre succedere. Rimpiango che Belbo sia rimasto a Torino. Parte del giorno la passo in cucina, nell'enorme cucina dal battuto di terra, dove mia madre, mia sorella, le donne di casa, preparano conserve. Mio padre va e viene in cantina, col passo del vecchio Gregorio. A volte penso se una rappresaglia, un capriccio, un destino folgorasse la casa e ne facesse quattro muri diroccati e anneriti. A molta gente è già toccato. Che farebbe mio padre, che cosa direbbero le donne? Il loro tono è " La smettessero un po'", e per loro la guerriglia, tutta quanta questa guerra, sono risse di ragazzi, di quelle che seguivano un tempo alle feste del santo patrono. Se i partigiani requisiscono farina o bestiame, mio padre dice: - Non è giusto. Non hanno il diritto. La chiedano piuttosto in regalo. - Chi ha il diritto? - gli faccio. - Lascia che tutto sia finito e si vedrà, - dice lui.
Io non credo che possa finire. Ora che ho visto cos'è guerra, cos'è guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: - E dei caduti che facciamo? perché sono morti? - Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero.
(C. Pavese, La casa in collina, 1948)

FENOGLIO
http://www.manzoni.gov.it/2017/files/fenoglio_una_questione_privata_luperini.pdf

IL PARTIGIANO JOHNNY
Il partigiano Johnny è l’opera più nota di Beppe Fenoglio. A partire dalla sua pubblicazione postuma, nel 1968, grazie all’edizione curata da Lorenzo Mondo, che scelse il titolo del romanzo 1, è cominciata la riscoperta di questo autore, che viene considerato oggi uno dei più importanti del secondo Novecento italiano. Nel Partigiano Johnny il racconto della Resistenza nelle Langhe, che in Una questione privata si sviluppava attraverso l’orizzonte intimo ed esistenziale del protagonista Milton, viene trasceso ed elevato a livello epico. Nutrita fortemente dalla memoria diretta dell’autore (che fu partigiano in quei luoghi, ovvero le colline attorno alla città piemontese di Alba), quella di Johnny diventa l’epopea individuale e al tempo stesso universale dell’eroe partigiano.

Trama
La storia di Johnny assomiglia a quella del protagonista di Una questione privata: un giovane studente con la passione per la poesia inglese, sbandato dopo l’8 settembre 1943, riesce a ritornare dai genitori ad Alba, che è occupata dai tedeschi, e tuttavia decide di “andare in montagna” con i partigiani per assecondare la propria utopia di lotta per la libertà contro i nazifascisti. Quella di Johnny è la storia di una formazione: prima, in città, nelle discussioni con il professor Chiodi e i suoi allievi sul senso di diventare partigiano, poi, “sul campo”, dove emerge il problema di appartenere a una collettività fatta di uomini diversi per estrazione sociale, provenienza geografica e convinzioni ideologiche.

Fin da subito, Johnny si mostra a suo agio nelle privazioni della vita partigiana e molto abile nelle azioni militari; tuttavia matura in lui una forte insofferenza verso il ricorso ingiustificato alla violenza a cui tanti compagni si abbandonano, verso la disorganizzazione dei gruppi combattenti e, soprattutto, verso i tentativi d’imporre alla lotta partigiana un connotato politico specifico. A farlo sono in particolare i comunisti del commissario Némega, tra i quali Johnny si arruola inizialmente e dai quali, per questo motivo, si allontana presto, complice anche la morte di Tito, giovane siciliano, con cui Johnny, nonostante le differenze di provenienza e cultura, aveva sentito di condividere il senso dell’azione partigiana.

Johnny passa cosi alle brigate “azzurre” dei badogliani, comandate dal partigiano Nord, che per il suo nobile portamento esercita un notevole fascino su di lui. Qui Johnny ritrova l’amico Ettore e incontra il tenente Pierre: a loro rimarrà legato fino alla fine. La presa di Alba da parte dei partigiani, il 10 ottobre 1944, e la sua perdita 23 giorni dopo 2, però, segnano l’inizio di un lunghissimo inverno, mitigato solo dalla breve frequentazione con Elda, ragazza graziosa e un po’ sfacciata, che però si dimostra capace di sacrificarsi per amore di Johnny. I rastrellamenti nazifascisti costringono il protagonista a nascondersi, prima insieme a Pierre ed Ettore, poi, dopo il ferimento del primo e la cattura del secondo, in completa solitudine. Johnny tenta di riscattare Ettore procurandosi un prigioniero fascista, come il Milton di Una questione privata; lo scambio però non riesce e Johnny è costretto a riprendere il vagabondaggio, esposto al freddo, alla fame e agli sguardi indiscreti delle spie, ma forte della calma datagli dalla convinzione di soffrire per una giusta causa.

Il 31 gennaio 1945 Nord convoca tutti i partigiani superstiti per annunciare la ripresa della lotta, e Johnny si accorge di non sopportare più le difficoltà e i compromessi della vita collettiva. Tuttavia, durante il primo scontro con i nazifascisti, all’ingresso del paese di Valdivilla, Johnny avverte un’euforia per il ritorno all’azione, che si esprime in un senso di distanza rispetto ai compagni. Così, nonostante la chiamata della ritirata, Johnny prende il fucile e si lancia nella battaglia: “Due mesi dopo la guerra era finita” , ma della sua sorte non si sa nulla.

La lingua del Partigiano Johnny
Il carattere più rilevante di questo romanzo è rappresentato dalla lingua elaborata da Fenoglio per raccontare la storia di Johnny. Si tratta di uno stile unico, che trova origine nella passione dell’autore, e del suo personaggio, per la lingua inglese, ritenuta espressione di una cultura pura e nobile (quella del teatro di Shakespeare e dell’amato Marlowe, o della poesia di Donne, Coleridge e Hopkins 4). Sulla base di un italiano colto e ricchissimo a livello lessicale, grazie anche ai numerosi neologismi, si innestano continui inserti in lingua inglese, che variano dalla singola parola (“la panica stilness delle alte colline”) all’intera frase (“Ma Johnny fell in abstraction”), fino a due pagine scritte interamente in inglese per riportare il colloquio di Johnny con due prigionieri sudafricani. Anche a livello sintattico, la ricerca fenogliano si volge verso una soluzione “alta” e nobile, che si faccia simbolo e metafora dell’universo di valori e di tensioni che animano il protagonista.

Un simile mélange, che produce un effetto di spaesamento nel lettore, dimostra la grande maturità stilistica di Fenoglio, che, per aggirare la convenzionalità dell’italiano “scolastico”, i modelli “realistici” del Neorealismo e le rigidità del dialetto (già usato nella Malora), crea una lingua irregolare, in cui l’inglese interviene a esprimere la voce dell’autentica identità del personaggio. E d’altronde è in inglese una delle frasi più emblematiche del romanzo:

I’m in the wrong sector of the right side .

Pronunciata da Johnny al suo arrivo nella brigata comunista, questa frase vale in realtà come sua massima esistenziale, poiché egli continuerà ad avvertire questo senso di estraneità anche quando sarà tra i badogliani. Pochi sono i compagni con cui riesce a sentire una vera vicinanza (Ettore, Pierre, Tito); nei confronti di tutti gli altri matura un orgoglioso senso di diversità, nutrito dall’insofferenza, poiché ai suoi occhi l’impreparazione, la violenza gratuita e l’ortodossia ideologica sono tanti modi di fraintendere il vero senso della lotta partigiana.

Per Johnny “partigiano, come poeta, è parola assoluta, rigettante ogni gradualità”, come Fenoglio fa dire a un personaggio, peraltro comunista. Questa dimensione assoluta, però, appare raggiungibile solo al di fuori dei compromessi dell’azione collettiva. Solo nella solitudine l’uomo può compiere le proprie scelte secondo un senso di giustizia che non si misura sull’esito di un singolo evento, ma su quello della causa superiore, come l’onore individuale e la Liberazione finale.
Cfr.:https://library.weschool.com/lezione/il-partigiano-johnny-beppe-fenoglio-riassunto-trama-analisi-personaggi-11218.html

La parola "partigiano"
E Cocito proseguì: - Tutto sta nell’ intendersi sul vero significato della parola partigiano, sbirciando Chiodi così sideways che la sua pupilla occhieggiò netta fuori dalla lente. E Chiodi disse con forza sospirosa: - Partigiano è, sarà chiunque combatterà i fascisti-. Cocito lampeggiò uno sguardo circolare su tutti quelli che avevano istantaneamente accettata la versione di Chiodi. Poi disse:- Ognuno di voi è infallantemente sicuro di riuscire un partigiano. Non dico un buon partigiano, perché partigiano, come poeta, è parola assoluta, rigettante ogni gradualità-. Johnny sbirciava Chiodi, finiva di bere il suo aperitivo con heavy repugnance. 
E Cocito:- Facciamo un piccolo esamino di tipo scolastico, se volete, sul partigiano. Possiamo accettare la definizione di Chiodi per cui partigiano è colui che spara con buona mira, con mira definitiva, sui fascisti?
Tu, Johnny: avvisti un fascista od un tedesco e ti appresti a sparargli, sempre in onore e fulfilment della definizione. Però, si presenta un però: sparandogli ed uccidendolo, può accadere che dopo un paio d’ore appaia nella località o nei paraggi una colonna tedesca o fascista e per rappresaglia la metta a ferro e fuoco, uccidendo dieci, venti, tutti gli abitanti di essa località. A conoscenza di una simile possibilità, tu Johnny spareresti ugualmente?
-No,- disse Johnny d’ impeto e Cocito rise dietro gli occhiali -.
 Continuiamo per questa strada irta ma istruttiva, converrete.. Johnny se tuo padre fosse fascista, e fascista attivo, al punto da poter compromettere la sicurezza tua e della tua formazione partigiana, tu ti sentiresti di ucciderlo?- Johnny chinò la testa, ma un altro disse con una certa foga stammering:- Ma professore , lei fa soltanto casi estremi.- La vita del partigiano è tutta e solo fatta di casi estremi. Procediamo. 
Johnny, se tu avessi una sorella, useresti questa tua sorella, impiegheresti il sesso di questa sorella per accalappiare un ufficiale tedesco o fascista e farlo portare al fatto in luogo ragionevolemente comodo; dove tu già sei appostato per farlo fuori?- Nessuno pronunciò quel no che del resto già urlava da solo nel desertico silenzio, e allora Cocito agitò le mani come a sbriciolare qualcosa. Ma Chiodi si eresse faticosamente sulla sua sedia: - Il professore intende dire che non si può essere partigiani senza un preciso substrato ideologico: La libertà in sé non gli pare più sufficiente struttura ideologica. In ultima istanza, il professore vuol dire che non si sarà partigiani se non si sarà comunisti. 
[…]
E Chiodi si voltò un’ultima volta e disse, con la faccia stanca, aggravata dalla barba trascurata: - Ragazzi, teniamo di vista la libertà. 
(B. Fenoglio, Il partigiano Johnny", cap. II, pp. 23- 25)

UNA QUESTIONE PRIVATA
https://docs.google.com/file/d/0B88KqbtvDKdHYlFnb09tUDJWTFE/edit


CALVINO (Il sentiero dei nidi di ragno)
Prefazione a Il sentierodei nidi di ragno
http://online.scuola.zanichelli.it/testiescenari/files/2009/05/pp1832-1834.pdf

Pin
http://www.schule.suedtirol.it/pi/faecher/italienisch/documents/Prova14.pdf



La memorialistica e il romanzo neorealista di impronta documentaria

PRIMO LEVI, Se questo è un uomo

Shemà
Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un si o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi, alzandovi.
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.
(P. Levi, esergo di Se questo è un un uomo)

L'apostrofe e la memoria: Shemà (trad.: "Ascolta")
http://aulalettere.scuola.zanichelli.it/le-figure-retoriche/lapostrofe-e-la-memoria-come-maledizione/

Da Se questo è un uomo, L'inizio del viaggio
http://www.mondadorieducation.it/risorse/media/secondaria_primo/italiano/giallo_rosso_blu3_lett/testi_audio/inizio_viaggio/inizio_del_viaggio_1.pdf

Da Se questo è un uomo, Il canto di Ulisse
https://it.pearson.com/content/dam/region-core/italy/pearson-italy/pdf/italiano/dante-primo-levi.pdf



Il romanzo neorealista di impegno sociale
CALVINO, La giornata di uno scrutatore
Riflessioni sul romanzo La giornata di uno scrutatore
http://digilander.libero.it/uniboFilocalia/ITALO%20CALVINO,%20l'umano%20arriva%20dove%20arriva%20l'amore.pdf

PASOLINI, Una vita violenta, pp. 343-448
http://www.bdf.hu/btk/flli/romanisztika/OKTATSARS%20DOCENDI/TANANYAGOK%20%28OKTAT%C3%93%20SZERINT%29/ANTONIO%20SCIACOVELLI/LETTERATURA/NOVECENTO/Pasolini%20una%20vita%20violenta.pdf

Pasolini, da Scritti corsari, "Contro la televisione"
http://www.filosofico.net/Antologia_file/AntologiaP/Pasolini_01.htm

Pasolini, le ceneri di Gramsci
Testo: http://web.tiscali.it/minores/Ceneri_di_Gramsci.pdf
Commento di Alessandro Banda:
Trascrizione dell'intervista di Enzo Biagi a Pasolini



La tv e l'omologazione