La scuola di Atene

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lunedì 3 aprile 2017

Goethe

La nuova sensibilità romantica
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I DOLORI DEL GIOVANE WERTHER

Edouard Manet, Il suicida

Ma quell'uomo è così scrupoloso che quando crede di aver detto qualcosa di troppo azzardato o generico e non completamente vero non la finisce più di limitare, modificare, di aggiungere o di sopprimere finché di quanto ha detto non rimane più niente. E anche durante il nostro discorso non finiva più di chiacchierare: io finii col non ascoltarlo più, mi misi a fantasticare e con gesto rapido mi appoggiai alla fronte la canna della pistola al di sopra dell'occhio destro. "Ebbene che significa ciò?"esclamò Alberto strappandomi l'arma di mano. "E' scarica" risposi. "E se pure è scarica che vuol dire questo?" riprese impaziente "io non posso ammettere che un uomo sia così pazzo da uccidersi: il solo pensiero mi rivolta."
"Ma voi uomini", esclamai, "quando parlate di qualche cosa, dovete sempre dire: è pazza, è savia, è buona, è cattiva! e questo che significa? Avete voi, che dite così, indagato i moventi interni di un'azione? Sapete scoprirne con certezza le cause, e capire perché è avvenuta e perché doveva avvenire? Se l'aveste fatto, non sareste così pronti a giudicare."

"Mi concederai" disse Alberto "che alcune azioni rimangano degne di biasimo da qualunque motivo siano determinate".

Glielo concessi scrollando le spalle. Pure continuai: "Vi sono sempre dei casi eccezionali. E' vero che il furto è un delitto. Ma l'uomo che ruba per salvare sé e i suoi che stanno per morire di fame merita pietà o castigo? Chi scaglierà la prima pietra contro il marito che nella sua giusta collera immola la sua donna infedele e l'indegno seduttore? Contro la fanciulla che in un'ora di ardore si perde nelle indicibili gioie dell'amore? Le stese nostre leggi fredde e pedanti si lasciano commuovere e sospendono la loro punizione!" "Questo non c'entra" replicò Alberto "perché un uomo che è in balìa delle passioni perde ogni forza di ragione ed è considerato come un ubriaco, come un pazzo".

"Oh le persone ragionevoli!" esclamai sorridendo. "Passione! Ebbrezza! Delirio! Voi siete così impassibili, così estranei a tutto questo voi uomini per bene! Rimproverate il bevitore, condannate l'insensato, passate dinanzi a loro come lo scriba e ringraziate Dio come il fariseo perché non vi ha fatto simili a loro! Più di una volta io sono stato ebbro, le mie passioni non sono lontane dal delirio e di queste due cose io non mi pento perché ho imparato a capire che tutti gli uomini straordinari che hanno compiuto qualcosa di grande e che pareva impossibile, sono stati in ogni tempo ritenuti ebbri o pazzi.
Ma anche nella vita comune è insopportabile sentir dire ogni volta che qualcuno sta per compiere un'azione libera, nobile, inattesa:
quell'uomo è ubriaco, è pazzo! Vergognatevi, uomini sobri e savi!" 

"Ecco le tue solite fantasie" disse Alberto "tu esageri tutto e in questo caso hai per lo meno il torto di paragonare il suicidio che è l'argomento di cui si parlava, con delle grandi gesta mentre esso non può esser considerato che come una debolezza. Poiché certo è più facile morire che sopportare con fermezza una vita dolorosa".

Ero sul punto di interrompere il discorso perché niente mi mette così fuori dei gangheri come vedere qualcuno armato di insignificanti luoghi comuni mentre io parlo con tutto il cuore. Pure mi contenni perché molte volte ho sentito addurre quell'argomento e me ne sono indignato: risposi dunque alquanto vivamente: "Tu lo chiami una debolezza? Ti prego, non lasciarti ingannare dall'apparenza. Puoi chiamare debole un popolo che geme sotto il giogo di un tiranno se infine fremendo spezza le sue catene? Un uomo che nel terrore di vedere la sua casa in preda alle fiamme sente le sue forze centuplicate e solleva facilmente dei pesi che a mente calma potrebbe appena muovere? E uno che nel calore dell'offesa ne affronta sei e li vince, tu lo chiami debole? E, mio caro, se l'eccesso fisico viene considerato come una forza, perché non lo sarà anche l'eccesso dei sentimenti?"

Alberto mi guardò e disse: "Non te ne avere a male, ma gli esempi che tu porti non hanno nulla a vedere col nostro discorso".
"Può darsi" risposi "mi è già stato spesso rimproverato che le mie associazioni di idee raggiungono talvolta il delirio". 
(J. W. Goethe, "I dolori del giovane Werther")


***
Apre un grosso volume e si accinge a tradurre
sta scritto: “in principio era la Parola”.
Ed eccomi già fermo. Chi m’aiuta a procedere?
M’è impossibile dare a “Parola”
tanto valore. Devo tradurre altrimenti,
se mi darà giusto lume lo Spirito.
Sta scritto: “In principio era il Pensiero”.
Medita bene il primo rigo,
chè non ti corra troppo la penna.
Quel che tutto crea e opera, è il Pensiero?
Dovrebb’essere: “In principio era l’Energia”.
Pure, mentre trascrivo questa parola, qualcosa
Già mi dice lo Spirito! Ecco che vedo chiaro
E, ormai sicuro scrivo: “In principio era l’Azione.

(J. W. Goethe, Faust)

Faust è figlio ed erede di Bacone. Vuole tutto, pretende tutto, ha fame e sete non solo di sapienza, ma più ancora di sperimentare, provare su di sé gli esiti della conoscenza. In termini biblici, è Adamo che consuma voracemente i frutti dell’albero del bene e del male. Nel linguaggio dei greci, è l’uomo privato della phrònesis, della prudenza, convinto che la sua specifica areté, l’attitudine di ogni essere a esplicare la sua particolare virtù, si compia nell’oltrepassare, nello strappare ogni velo della conoscenza, e mordere, godere, consumare immediatamente i frutti di quella consapevolezza sempre nuova.
Il Faust letterario, tuttavia, salva la sua anima, al termine di esperienze intense e drammatiche. Nell’affresco goethiano, chi lo salva è la Cura (o Angoscia). Egli ha conservato la sua umanità grazie alle donne che ha amato, Margherita ed Elena, ed il suo proponimento finale è “Potessi, o Natura, starti innanzi come uomo e null’altro, allora varrebbe la pena di essere uomo.”  Ed ancora, dialogando con la Cura, deplora quel passato in cui non ha fatto che correre per il mondo, “desiderato e raggiunto il desiderato, ed ho nuovamente desiderato e sono passato attraverso la vita come un turbine”.  Quel turbine che è l’azione, die Tat, ha reso tutti noi uomini faustiani, degni del tramonto per stanchezza, esaurimento, indifferenza al Bene, al Vero, al Bello.  Perché la corsa, la “Vita activa” non ammette ripensamenti, soste, cambi di marcia. Come in autostrada, non si torna indietro, e ci si può fermare solo in luoghi dedicati, rigorosamente per riempire nuovamente il serbatoio dell’automobile, la “macchina” per antonomasia, e consumare pessime cose a caro prezzo.  
(Cfr.:https://www.maurizioblondet.it/principio-lazione-fermati-faust/)