La scuola di Atene

La scuola di Atene

giovedì 11 maggio 2017

LUCREZIO, VIRGILIO, SENECA, PLINIO IL VECCHIO: I ROMANI E L'AMBIVALENZA DEL PROGRESSO

Tito Lucrezio Caro (F. Hayez)

Dagli uomini primitivi alla civiltà
Allora il genere umano nei campi era molto più duro, com’è naturale: creato dalla dura terra, poggiato all’interno su ossa più grandi e più solide , connesso attraverso le carni da validi nervi, non era facile preda del caldo e neanche del freddo, né di cibi inconsueti , né di nessuna insidia del corpo. Per molti percorsi del sole nel cielo conducevano vagabondando una vita da fiere
Poi il sole insegnò a cuocere il cibo, ammorbidendolo con il vapore della fiamma, perché vedevano nelle campagne tante cose maturare ai raggi e al calore del sole. Ogni giorno di più chi aveva più ingegno e forza d’animo, mostrava come cambiare il tenore di vita grazie al fuoco e alle nuove scoperte.
Gli uomini si vollero famosi e potenti, perché la loro fortuna durasse su fondamenti stabili, e loro potessero trascorrere una vita tranquilla da ricchi; invano perché, lottando per giungere ai sommi onori, si resero ostile il cammino dell’esistenza e l’invidia come un fulmine li colpì e li scagliò talvolta dalla cima con disonore fino al cupo Tartaro.
(Lucrezio, De rerum natura, V) 



L'IDEA DI PROGRESSO IN LUCREZIO


LO STATO DI NATURA NON È L’ETÀ DELL’ORO
Lucrezio ricostruisce attentamente il passaggio dal primitivo stato di natura – ferino e irrazionale – a quello della civiltà. Analizza con scrupolo scientifico la vita dei primi uomini, ma oscilla tra due opposte polarità: da una parte insiste sulla durezza e sulla selvatichezza della vita primitiva, dall’altra manifesta un’idealizzazione nostalgica della condizione semplice, paga dell’essenziale, legata allo stato di natura.
Un punto resta, però, fermo: la negazione assoluta di un’originaria età dell’oro. L’uomo ha conosciuto uno stato di bestialità da cui è uscito faticosamente, sotto la spinta dell’intelligenza e delle inarrestabili acquisizioni tecnico-pratiche e filosofiche.

NELLO STATO DI NATURA NON C’È LA SOCIETÀ CON LE SUE REGOLE
Più grandi e robusti di noi, i nostri antenati erano spinti dagli istinti naturali, vagavano nelle foreste, non conoscevano agricoltura e fuoco. Privi di istituzioni giuridico-sociali e ignari di ogni valore culturale, vivevano isolati e non creavano unioni stabili, ma solo accoppiamenti ferini. 

DALLA LOTTA PER LA SOPRAVVIVENZA NASCE IL PROGRESSO
La condizione originaria implica una dura lotta per la sopravvivenza, che diviene, d’altra parte, anche la molla per l’evoluzione e le acquisizioni tecniche: gli uomini gradualmente impararono a domare la natura selvaggia e ciò rese possibile il progresso. Gli uomini, osservando i fenomeni, impararono a navigare, ad accendere il fuoco a costruire case, a coltivare la terra, a lavorare i metalli. Alle conquiste tecniche si aggiunsero l’invenzione del linguaggio, lo sviluppo dei vincoli sociali, l’introduzione delle leggi.

IL PROGRESSO COMPORTA EFFETTI INFAUSTI
Nella descrizione dei crescenti progressi umani, Lucrezio, tuttavia, non assume un tono trionfalistico, bensì ne smaschera gli effetti infausti. Contrappone, infatti, ai pericoli della vita primitiva, gli affanni e le violenze ben più gravi degli uomini progrediti, mossi da un’insaziabilità sconosciuta nello stato di natura.
Emerge, quindi, una duplice qualificazione della civiltà: da un lato c’è la positiva constatazione del benessere garantito dalla conoscenza e dalla tecnologia; dall’altra sono innegabili la violenza delle guerre, la degenerazione dei rapporti personali, la crescente avidità, il degrado morale del presente.

PROGRESSISMO E MORALISMO
Nel V libro del De rerum natura, Lucrezio traccia la storia dell’umanità seguendo una duplice prospettiva: secondo una visione progressiva, Lucrezio registra le graduali evoluzioni tecniche che hanno consentito agli esseri umani l’uscita da uno stato di ferinità; secondo una prospettiva moralistica, la storia umana e il progresso tecnico sono giudicati in rapporto al problema filosofico della felicità: non sempre, cioè, il progresso tecnico coincide con quello morale.

NESSUN MITO DEL PROGRESSO
In definitiva, Lucrezio accetta l’idea del progresso, ma ne respinge il mito. Il progresso è una necessità storica: se alle leggi della forza non si fossero sostituite quelle razionali del diritto, l’umanità si sarebbe estinta sotto i colpi della sua stessa violenza. Il progresso è una condizione di vita, ma non dona la felicità, al contrario, può perfino accentuare il declino morale dell’umanità, che non conosce il limite del possesso e la misura del piacere.
Il furor belluino dei primitivi è sì superato dalla ratio dei civilizzati, ma questa non riesce a tradursi anche in un arricchimento dell'esperienza morale.
La violenza dei primitivi era giustificata dal bisogno dell'indispensabile, ma la violenza dei moderni non può esserlo dalla brama del superfluo.

Bibliografia
Percorso tematico: "L'età dell'oro e il divenire storico" in G. Garbarino, Opera, Paravia
L. Canali, Lucrezio, in I cavalieri latini dell'Apocalisse, SAGGI BOMPIANI



EPICURO, LETTERA A MENECEO

Raffael 063.jpg
Epicuro, particolare della "Scuola di Atene"




















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L'IDEA DI PROGRESSO IN VIRGILIO
LA TEODICEA DEL LAVORO

Pater ipse colendi
haut facilem esse viam voluit primusque per artem
movit agros curis acuens mortalia corda
nec torpere gravi passus sua regna veterno . (…)
Tum variae venere artes Labor omnia vicit
improbus et duris urgens in rebus egestas.
(Virgilio, Georgiche, I, 121-124; 145-146)

TRADUZIONE
Lo stesso padre Giove volle che non fosse facile il mestiere dell'agricoltore , e primo fece dissodare i campi con arte aguzzando le menti dei mortali coi pensieri e non lasciò che i suoi sudditi intorpidissero in una pesante inerzia.  
Nelle Georgiche, il poema didascalico dedicato all'agricoltura e all'allevamento, Virgilio affronta il tema del lavoro, delle insidie della natura e delle difficoltà del vivere con cui l'uomo dovette misurarsi in seguito alla fine dell'età dell'oro. Virgilio interpreta l'inasprimento delle condizioni esistenziali rispetto all'età di Saturno, come una provvidenziale scelta di Giove, preoccupato che gli uomini rimanessero vittime della pigrizia dell'indolenza (torpere): si tratta della Teodicea del lavoro, teoria secondo cui il lavoro dell'uomo è frutto di giustizia divina. Si tratta di una prospettiva nuova, che inverte il tradizionale punto di vista (biblico e esiodeo) che considerava il lavoro una punizione conseguente a una violazione/trasgressione. Secondo Virgilio, Giove, subentrato a Saturno nel governo del mondo, fece decadere l'umanità dall'originaria felicità e costrinse così gli uomini, sollecitati dal bisogno, ad aguzzare l'ingegno e ad elaborare quel sapere che oggi definiremmo appunto tecnico-scientifico.
In Virgilio, dunque, manca l'idealizzazione dell'età dell'oro come età felice: in Lucrezio era il regno del bellum omnium contra omnes, tuttavia costituito da essenzialità e frugalità; per il poeta delle Georgiche l'età dell'oro non ha nulla di edenico perché è dominata dal veternus, dalla pigrizia e dall'indolenza, a causa della quale è fiaccato ogni impulso ad agire e a trasformare il mondo. Virgilio esalta le curae perché spingono l'uomo a costruire la civiltà e attribuendone l'origine a Giove stesso, il poeta coniuga il provvidenzialismo storico/religioso con la teoria laica, epicurea e lucreziana, dell'homo faber, creatore di civiltà sotto la spinta del bisogno, dell'egestas e grazie all'invenzione delle artes.


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L'IDEA DI PROGRESSO IN SENECA

Mihi certe multum auferre temporis solet contemplatio ipsa sapientiae; non aliter illam intueor obstupefactus quam ipsum interim mundum, quem saepe tamquam spectator novus video.
(Seneca, Epistole a Lucilio, VI, 64, 6)

TRADUZIONE
Senza dubbio la stessa contemplazione della sapienza abitualmente mi porta via una gran quantità di tempo: la contemplo ammirato non diversamente da come (contemplo) lo stesso universo, che spesso vedo come se fossi un nuovo spettatore.

Questo passo chiarisce la prospettiva attraverso cui sono filtrati gli interessi scientifici di Seneca: contemplazione e stupore, atteggiamenti piuttosto filosofici e non prettamente scientifici; Seneca non tende cioè a indagare le cause fisiche dei fenomeni, ma vuole, piuttosto trovare conferma nell'osservazione del cosmo - di cui, appunto, si definisce spectator novus - alla sua tesi stoica e provvidenzialistica di un logos universale (mens universi) ordinatore.

Seneca saluta il suo Lucilio
Il fatto di vivere, Lucilio mio, è un dono degli dèi immortali, il fatto di vivere bene, della filosofia, nessuno può dubitarne. Dunque, noi dovremmo avere un debito maggiore verso la filosofia che non verso gli dèi, in quanto un'esistenza virtuosa è certamente un beneficio maggiore che l'esistenza; ma sono stati gli dèi a darci proprio la filosofia: non hanno concesso a nessuno la conoscenza di essa, a tutti la possibilità. Se avessero reso anche la filosofia un bene comune e noi nascessimo saggi, la saggezza avrebbe perduto la sua straordinaria prerogativa di non essere un bene fortuito. Quello che essa ha di prezioso e di stupefacente è di non essere un dono della sorte, ma una conquista personale, qualcosa che non si chiede a un terzo. Cosa ci sarebbe da ammirare nella filosofia se derivasse da un beneficio? Il suo unico còmpito è scoprire la verità sul divino e sull'umano; da essa non si staccano mai religione, sentimento del dovere, giustizia e il corteo di tutte le altre virtù strettamente connesse tra di loro. Ci ha insegnato, la filosofia, a venerare gli dèi, ad amare gli uomini, e che il comando è nelle mani degli dèi, e che gli uomini sono uniti tra loro. Questo stato di cose fu per un certo tempo rispettato, poi l'avidità ruppe l'associazione e fece diventare povere anche quelle persone che aveva un tempo reso ricchissime: desiderando beni propri cessarono di possedere il tutto. 
Ma i primi uomini e la loro progenie seguivano con purezza la natura, trovavano nello stesso uomo la guida e la legge, affidandosi alle decisioni del migliore, poiché la natura subordina quello che è inferiore a quello che è superiore. Le greggi le guidano gli animali più grossi o più impetuosi, le mandrie non le precede un toro di scarto, ma quello che per grossezza e massa muscolare supera gli altri maschi; i branchi degli elefanti li conduce il più alto; fra gli uomini conta il migliore, non il più forte. Il capo veniva scelto per le sue qualità interiori, e perciò i popoli più fiorenti erano quelli in cui solo il migliore poteva essere il più potente: poiché può fare con sicurezza quello che vuole solo l'uomo che ritiene di potere unicamente quello che deve.
Posidonio pensa che nell'età cosiddetta aurea, il governo fosse nelle mani dei saggi. Essi tenevano a freno la violenza, difendevano il più debole dai più forti, facevano opera di persuasione e di dissuasione, indicavano ciò che era utile o inutile; la loro preveggenza faceva in modo che non mancasse niente al popolo, la loro forza teneva lontani i pericoli, la loro liberalità arricchiva e dava benessere ai sudditi. Comandare era un dovere, non una tirannide. Nessuno sperimentava il proprio potere contro chi gli aveva permesso di averlo, nessuno era incline o motivato a commettere ingiustizie, poiché i sudditi obbedivano con sollecitudine al sovrano che comandava rettamente e la minaccia più grave del re a chi disobbediva era di rinunciare al potere. Ma quando, per l'insinuarsi dei vizi, il regnare si tramutò in dispotismo, nacque la necessità delle leggi: e anch'esse all'inizio furono i saggi a presentarle. Solone, che diede ad Atene solide fondamenta di giustizia, fu uno dei sette famosi sapienti: Licurgo, se fosse vissuto nella stessa epoca, sarebbe stato inserito in quella sacra congrega come ottavo. Si elogiano i codici di Zaleuco e di Caronda; costoro il diritto non lo impararono nel foro o nell'atrio degli avvocati, ma le leggi che avrebbero dato alla Sicilia allora fiorente e, attraverso l'Italia meridionale, alla Grecia, le appresero nel sacro e tacito ritiro di Pitagora.
Fin qui sono d'accordo con Posidonio: non condivido, invece, che la filosofia abbia inventato le arti di uso quotidiano, e non le attribuirei la gloria dei mestieri artigianali. "La filosofia," egli afferma, "insegnò a costruire case agli uomini dispersi qua e là e che trovavano riparo o in capanne, o in qualche caverna, o nel cavo di un albero." Secondo me la filosofia non ha escogitato questi congegni di tetti che sorgono sui tetti, di città che incalzano le città, come non ha escogitato i vivai ittici, creati per risparmiare alla gola il rischio delle tempeste e per offrire alla mollezza, quando il mare impazzisce furioso, cale tranquille in cui ingrassare diverse qualità di pesci. Che dici? La filosofia ha insegnato agli uomini ad avere chiavi e serrature? Non era dar via libera all'avidità? La filosofia avrebbe innalzato dei tetti che sovrastano così pericolosamente chi vi abita? Non bastava proteggersi con ripari fortuiti, trovarsi un rifugio naturale che non richiedesse tecnica o fatica. Credimi, era felice quell'epoca senza architetti, né decoratori. Tagliare le assi in modo regolare, segare le travi con mano sicura secondo le linee tracciate, questo è nato col nascere del lusso; i primi uomini, infatti, spaccavano con cunei il legno che si fendeva con facilità. Non costruivano dimore con stanze destinate ai banchetti, pini e abeti non venivano trasportati in lunghe file di carri, facendo tremare le strade, per trasformarli in soffitti carichi d'oro sospesi sulle loro teste. Puntelli dai due lati sostenevano la capanna; rami secchi stipati, fronde ammassate disposte con opportuna inclinazione assicuravano il defluire delle piogge anche torrenziali. Sotto questi tetti abitavano al sicuro: un tetto di paglia riparava gente libera; oggi sotto i marmi e l'oro abitano dei servi.
Su un altro punto ancora dissento da Posidonio: egli pensa che gli strumenti artigianali sono stati inventati dai filosofi; allo stesso modo potrebbe tranquillamente dire che i saggi allora escogitarono il modo di catturare le fiere con i lacci, di ingannarle con il vischio e di circondare con i cani le grandi balze selvose.
Tutte queste scoperte le fece la sagacia, non la saggezza umana. Anche su questo non sono d'accordo: le miniere di ferro e di rame non le hanno trovate i saggi quando la terra bruciata dall'incendio delle foreste aveva riversato fuse le vene di metalli giacenti in superficie: sono cose che le trova chi se ne occupa. E neppure mi sembra tanto acuto, come a Posidonio, il problema se l'uso del martello fu anteriore a quello delle tenaglie. Li inventò entrambi qualcuno dalla mente brillante e acuta, non nobile ed elevata, e fu così per qualsiasi altra cosa che va cercata col corpo curvo e concentrandosi sulla terra. Il saggio condusse sempre una vita semplice. E perché no? Anche di questi tempi desidera essere il più libero possibile. Ma via, come può essere che ammiri Diogene e Dedalo insieme? Chi di loro ti sembra saggio? L'inventore della sega o il filosofo che, dopo aver visto un bambino bere l'acqua nel cavo della mano, tirò fuori il bicchiere dalla bisaccia e lo ruppe immediatamente rivolgendo a se stesso questo rimprovero: "Per quanto tempo ho portato da insensato pesi inutili!", egli che dormiva rannicchiato in una botte? E oggi, chi ritieni più saggio? Chi ha trovato il modo di spruzzare a grandi altezze, attraverso condotti invisibili, essenze profumate, chi riempie i canali con un improvviso getto d'acqua o li prosciuga, e congiunge i soffitti girevoli delle sale da pranzo in modo che si susseguano immagini diverse e il tetto cambi tante volte quante sono le portate, oppure chi dimostra a sé e agli altri che la natura non ci costringe a nulla di faticoso e di difficile, che possiamo avere case senza ricorrere al marmista e al fabbro, che possiamo vestirci senza importare sete, che possiamo avere il necessario per i nostri bisogni se ci accontentiamo dei beni che la terra presenta in superficie? Se l'umanità vorrà ascoltarlo, capirà che un cuoco le è inutile quanto un soldato.
(Seneca, Epistole a Lucilio, 90)

Nell'Epistola 90, Seneca mostra di condividere l'immagine tradizionale, leggendaria, idealizzata dello stato di natura come una perduta età dell'oro, in polemica con la società progredita e corrotta. La tranquillità e la libertà originarie hanno ceduto il passo alle ansie accresciute proprio dal progresso tecnologico: la vita agiata esclude la felicità proprio perché è molto lontana dalla natura. Ai moderni disposti a bassezze vergognose per conservare ricchezze e frastornati dalle preoccupazioni per conseguirle, Seneca oppone lo stato di natura, appagato, come aurea aetas: la terra stessa, non coltivata, era fertile e generosa; non c'erano ruberie e la vita comunitaria si fondava sul riconoscimento reciproco; si disprezzavano le armi e si viveva di poco.
L'esaltazione dello stato di natura e e la polemica contro la decadenza e la corruzione moderna, si lega anche al giudizio complessivo sullo sviluppo della conoscenza. Il progresso è anche per Seneca, come per Lucrezio e Virgilio, frutto di conoscenza.
Se tuttavia molti studiosi del I sec. a.C. come Posidonio, avevano esaltato le artes e il sapere tecnico come la massima espressione delle potenzialità razionali dell'uomo, per Seneca la distanza tra artes e filosofia è netta: non si tratta di demonizzare le artes; esse non sono intrinsecamente negative, ma l'uomo, senza l'ausilio della filosofia, non ha saputo e non sa farne buon uso. Gli uomini finiscono con il convertire in danno ciò che potrebbe essere a loro vantaggio.
Dunque soltanto la conoscenza filosofica assicura un reale progresso e non va confusa con il sapere tecno-scientifico.
Le artes non sono state prodotte dalla saggezza, ma da una qualità inferiore, la sagacitas dell'ingegno, continuamente sollecitato a cercare soluzioni pratiche per semplificare la vita.
Questa svalutazione della dimensione tecnica, manuale, meccanica nasce da una constatazione: la caligo mentium ci impedisce di capire quale sia il vero bene e non sappiamo fare buon uso delle conoscenze.
La vita secondo natura è il vero appannaggio del saggio che non dà valore assoluto agli aspetti materiali della vita. Il vero progresso, dunque, per Seneca è quello spirituale e non quello tecnico.
Sul dualismo tra dimensione materiale e tensione spirituale si inserirà poi la riflessione cristiana.


PLINIO IL VECCHIO
Affine al pensiero di Seneca appare quello di Plinio il Vecchio nella Naturalis historia, opera enciclopedica in cui l'autore mostra un cauto moralismo e un atteggiamento antitecnologico. Plinio vede la natura come un organismo vivente guidato da una logica provvidenziale, secondo i principi dello stoicismo. L'uomo con le sue conoscenze può impegnarsi a migliorare le condizioni di vita, ma senza superare i limiti posti dalla natura e senza sconvolgere l'ordine e l'equilibrio dei fenomeni naturali. Ad esempio, non si possono scavare montagne per estrarne metalli preziosi che in fondo alimentano la brama di lusso e ricchezza dei ceti privilegiati e subordinano la scienza a fini individualistici ed egoistici, snaturandola. Queste posizioni nascono da moralismo, ma anche da preoccupazioni poco scientifiche e frutto di superstizione, dalla convinzione, insomma, che sia empio carpire alla natura i suoi segreti.
La riflessione, in particolare sull'avaritia compresa tra le possibili deviazioni della tecnica, potrebbe sembrare puro moralismo. Invece è coerente con la visione di fondo. Nell'ottica pliniana  - cfr. l. VII - come l’uomo è l’unico essere che nasca imperfetto (1), così è l’unico, cui sono date in sorte luxuria, ambitio, avaritia, superstitio. Nessuno ha vita più fragile e passioni più forti (nulli vita fragilior, nulli rerum omnium libido maior). Perciò gli altri animali vivono nel rispetto reciproco all’interno delle diverse specie, solo l’uomo danneggia il suo simile: homini plurima ex homine sunt mala.
Il traguardo più ambizioso per Plinio consiste nel ritornare a quel livello, cui gli altri esseri si trovano già spontaneamente: lo stato di natura, quella condizione in cui tutti gli essere sanno trovare istintivamente antidoti alle difficoltà della sopravvivenza. Il mezzo, con cui l’uomo recupera questo livello, è la tecnica, ars. Ma la tecnica può sbagliare, quando cioè contraddice alla natura.
L’uomo non sa certo da sempre: può scoprire, ma con fatica e dolore, senza la semplicità istintiva degli altri esseri. Rispetto all’animale, ha il vantaggio della comunicazione. Trasmettere le conoscenze, cioè insegnare, sostituisce l’automatismo della scoperta animale, e il docere diventa un imperativo morale per l’uomo, in vista del recupero di quella condizione naturale, in cui gli altri esseri si trovano spontaneamente. La scienza si propone in primo luogo come divulgazione del già noto: e questo è appunto il fine, che Plinio assegna alla sua compilazione
Se ne dovrebbe dedurre che quel tanto di progresso, che Plinio ammette, cioè il ritorno allo stato positivo della natura, dovrebbe essere, oltre che tecnico, morale, o meglio, il risanamento (tecnico)  dovrebbe produrre un miglioramento (morale).
Il risultato concettuale è notevole, sarebbe una novità nel mondo antico, notoriamente antitecnologico, ma anche un suggerimento per la società moderna.
1 - L'’uomo non sa nulla se non glielo insegnano, né parlare, né camminare, né mangiare: in poche parole, spontaneamente non sa far altro che piangere (l. VII, 4)