La scuola di Atene

La scuola di Atene

giovedì 26 settembre 2019

I CLASSICI: IL MALE DI VIVERE. TAEDIUM, STRENUA INERTIA, DISPLICENTIA SUI

LUCREZIO E IL TAEDIUM VITAE
Si possent homines, proinde ac sentire videntur
pondus inesse animo quod se gravitate fatiget,
e quibus id fiat causis quoque noscere et unde
tanta mali tamquam moles in pectore constet,
haud ita vitam agerent, ut nunc plerumque videmus
quid sibi quisque velit nescire et quaerere semper
commutare locum quasi onus deponere possit.
Exit saepe foras magnis ex aedibus ille,
esse domi quem pertaesumst, subitoque revertit,
quippe foris nilo melius qui sentiat esse.
Currit agens mannos ad villam praecipitanter,
auxilium tectis quasi ferre ardentibus instans;
oscitat extemplo, tetigit cum limina villae,
aut abit in somnum gravis atque oblivia quaerit,
aut etiam properans urbem petit atque revisit.
Hoc se quisque modo fugit, at quem scilicet, ut fit,
effugere haud potis est, ingratius haeret et odit
propterea, morbi quia causam non tenet aeger;
quam bene si videat, iam rebus quisque relictis
naturam primum studeat cognoscere rerum,
temporis aeterni quoniam, non unius horae,
ambigitur status, in quo sit mortalibus omnis
aetas, post mortem quae restat cumque manenda.

Alla perenne insoddisfazione di sé, l'epicureo Lucrezio offre come rimedio la filosofia, la conoscenza delle causae rerum: solo la filosofia, cioè una saggezza fondata sulla ragione, può liberare l'uomo dalle sue angosce, perché lo induce a riflettere non solo sulla sua particolare situazione contingente, ma sull'intera esistenza umana e gli consente di affrancarsi dalle sue eterne fonti di sofferenza: la paura del dolore, della morte, delle punizioni divine. Indagare le leggi di natura significa quindi cercare delle risposte utili a placare le ansie della vita.


ORAZIO E LA STRENUA INERTIA 
Tu quamcumque deus tibi fortunaverit horam
grata sume manu neu dulcia differ in annum,
ut quocumque loco fueris vixisse libenter
te dicas; nam si ratio et prudentia curas,
non locus effusi late maris arbiter aufert;
caelum non animum mutant qui trans mare currunt.
Strenua nos exercet inertia: navibus atque
quadrigis petimus bene vivere. Quod petis hic est,
est Ulubris, animus si te non deficit aequus.
(Orazio, Ep. I,11, vv.22-30)
Tu qualunque momento la divinità ti abbia concesso
accettalo con mano grata e non rinviare le gioie di anno in anno,
affinché in qualsiasi luogo tu ti sia trovato tu dica
di esser vissuto volentieriinfatti se ragione e saggezza tolgono le ansie,
non (le toglie) un luogo che domina il mare che si estende ampiamente;
climanon stato d'animo cambiano quelli che corrono oltre il mare.
Ci tormenta una faticosa inattivitàcon navi e
quadrighe cerchiamo di vivere beneQuello che cerchi è qui,
è a Ulubrese non ti manca una mente serena.

Strenua inertia è una callida iunctura che unisce l'idea di un continuo affaticarsi (strenua) a quella del torpore (inertia). Per l'epicureo Orazio la strenua inertia è un ozio tormentoso, senza riposo, che stanca la mente e lo spirito, fiaccati da un'incontentabilità senza fine e dalla mancanza di equilibrio interiore, la sola virtù capace di individuare la reale gerarchia di valori. Il poeta propone al suo amico Bullazio, cui dedica l'Epistola di raggiungere un animus aequus, un animo sereno, l'equilibrio interiore, la capacità di cogliere gli attimi di pienezza e di affidarsi alla ratio e alla prudentia, alla saggezza pratica di saper dare il giusto peso agli eventi della vita.

SENECA E LA DISPLICENTIA SUI
10 Hinc illud est taedium et displicentia sui et nusquam residentis animi uolutatio et otii sui tristis atque aegra patientia, utique ubi causas fateri pudet et tormenta introrsus egit uerecundia, in angusto inclusae cupiditates sine exitu se ipsae strangulant; inde maeror marcorque et mille fluctus mentis incertae, quam spes inchoatae suspensam habent, deploratae tristem; inde ille affectus otium suum detestantium querentiumque nihil ipsos habere quod agant, et alienis incrementis inimicissima inuidia (alit enim liuorem infelix inertia et omnes destrui cupiunt, quia se non potuere prouehere); 11 ex hac deinde auersatione alienorum processuum et suorum desperatione obirascens fortunae animus et de saeculo querens et in angulos se retrahens et poenae incubans suae, dum illum taedet sui pigetque. Natura enim humanus animus agilis est et pronus ad motus. Grata omnis illi excitandi se abstrahendique materia est, gratior pessimis quibusque ingeniis, quae occupationibus libenter deteruntur: ut ulcera quaedam nocituras manus appetunt et tactu gaudent et foedam corporum scabiem delectat quicquid exasperat, non aliter dixerim his mentibus, in quas cupiditates uelut mala ulcera eruperunt, uoluptati esse laborem uexationemque. 12 Sunt enim quaedam quae corpus quoque nostrum cum quodam dolore delectent, ut uersare se et mutare nondum fessum latus et alio atque alio positu uentilari: qualis ille homericus Achilles est, modo pronus, modo supinus, in uarios habitus se ipse componens, quod proprium aegri est, nihil diu pati et mutationibus ut remediis uti.
(Seneca, De tranquillitate animi, 2, 10-15)

Di qui quella noia e quell’insofferenza di sé, e l’irrequietezza dell’animo che non trova pace in nessun posto, e la triste e angosciosa sopportazione della propria inattività, soprattutto quando si ha ritegno ad ammetterne i motivi e il pudore ricaccia dentro il tormento, mentre le passioni, confinate in una angusta prigione, senza sbocchi, si soffocano a vicenda; di qui la tristezza, la depressione e i mille ondeggiamenti dell’animo incerto, che la speranza accarezzata tiene sospeso, la frustrazione rende triste; di qui l’atteggiamento di quanti detestano il proprio riposo e si lamentano di non aver nulla da fare; di qui, anche, l’invidia feroce per i successi altrui. Perché l’inattività insoddisfatta nutre il livore e, non avendo potuto farsi avanti loro, desiderano la rovina di tutti; quindi, per questa rabbia dei successi altrui e per la sfiducia riguardo ai propri, l’animo si adira contro la sorte e si lamenta dei tempi in cui vive ritirandosi negli angoli a rimuginare sulla propria pena, mentre prova fastidio e vergogna di sé.
Infatti l’animo umano è per natura attivo e portato al movimento. Gli è gradita ogni occasione di muoversi e distrarsi, e ancor più gradita a quei pessimi soggetti che volentieri si lasciano logorare dalle occupazioni; come certe ferite cercano le mani che recheranno loro dolore e godono d’essere toccate, e come la scabbia ripugnante trova sollievo in tutto ciò che la irrita (il grattare dà sollievo alla scabbia deturpante), non diversamente direi che per questi caratteri, in cui le passioni esplodono come ferite dolorose, lo sconvolgimento e l’agitazione sono fonti di piacere. Ci sono infatti cose che arrecano diletto al nostro corpo anche con un certo dolore, come voltarsi e girare il fianco non ancora stanco e prendere fresco ora in una posizione ora in un’altra, come quel famoso Achille descritto da Omero, che, ora prono, ora supino, assume varie posizioni - il che è proprio di un malato - non
ne sopporta a lungo nessuna e usa i cambiamenti come rimedi. Quindi si intraprendono viaggi senza meta e si va errando da una spiaggia all’altra sperimentando ora per mare ora per terra l’instabilità sempre nemica del presente: “ora andiamo in Campania.”
Ma subito i luoghi deliziosi vengono a noia: “andiamo a vedere quelli incolti, andiamo tra i monti del Bruzio e della Lucania”. tuttavia in mezzo ai luoghi desolati si cerca qualcosa di piacevole, in cui gli occhi avidi di godimento possano trovar sollievo dalla lunga desolazione dei luoghi selvaggi: “andiamo a Taranto, nel suo decantato porto, in quella terra dove l’inverno è così mite e la ricchezza sufficiente anche per la popolazione di un tempo”. “Ma via, andiamo a Roma”: da troppo tempo le orecchie sono restate lontane dagli applausi e dal chiasso, ora fa piacere godere della vista del sangue umano. Si intraprende un viaggio dietro l’altro e si sostituisce uno spettacolo con un altro. Come dice Lucrezio, in questo modo ciascuno fugge continuamente se stesso. Ma a che serve, se non ci riesce? Ciascuno sempre si segue e si incalza da solo, compagno insopportabile di sé. Dunque dobbiamo convincerci che non è colpa dei luoghi il male di cui soffriamo, ma nostra: siamo incapaci di sopportare ogni cosa, e non tolleriamo troppo a lungo la fatica né il piacere né noi stessi né niente. Ciò ha portato alcuni alla morte, poiché, cambiando continuamente propositi, finivano per riproporre sempre le stesse cose senza lasciare spazio al nuovo: cominciarono a provare disgusto per la vita e per il mondo stesso e si insinuò in loro quel famoso dubbio proprio di chi marcisce in mezzo alle mollezze: “Fino a quando sempre le stesse cose?”.

Per lo stoico Seneca a nulla valgono i rimedi illusori che l'animo inquieto individua per tentare di fuggire da se stesso: peregrinationes vagae (viaggi vagabondi, senza meta precisa, fughe da sé). La sola forza sta nell'indagine interiore alla scoperta della virtus, che è il presupposto necessario al raggiungimento della tranquillitas animi, la quiete dell'animo. Secondo lo Stoicismo, infatti, l'imperturbabilità, l'atarassia, sono obiettivi che si ottengono solo vivendo secondo virtù, ossia secondo ragione, sconfiggendo, cioè, la tirannia delle passioni e dei falsi piaceri.




lunedì 23 settembre 2019

CONSIGLI DI SCRITTURA

Scrivere è... scegliere le parole giuste



A. Manzoni, "Lettera a M. Chauvet
Perché, in sostanza, cosa ci dà la storia? Avvenimenti noti, per così dire, solo esteriormente; ciò che gli uomini hanno fatto; ma ciò che hanno pensato, i sentimenti che hanno accompagnato le loro deliberazioni e i loro progetti, i loro successi e insuccessi, i discorsi con i quali hanno fatto e cercato di far prevalere le loro passioni e le loro volontà su altre passioni e altre volontà, con i quali hanno espresso la loro collera, effuso la loro tristezza, con i quali in una parola, hanno manifestato la loro individualità, tutto ciò, tranne pochissimo, è passato sotto silenzio dalla storia, e tutto ciò forma il dominio della poesia. Eh! sarebbe ingenuo temere che manchi ad essa l’occasione di creare, nel senso più serio, forse il solo serio, di questa parola! Ogni segreto dell’anima umana si svela, tutto ciò che genera i grandi avvenimenti, tutto ciò che caratterizza i grandi destini, si rivela alle immaginazioni dotate d’una sufficiente forza di simpatia. Tutto ciò che la volontà umana ha di forte o di misterioso, e la sventura di religioso e di profondo, il poeta può indovinarlo; o, per meglio dire, scorgerlo, afferrarlo e esprimerlo.



Legge di Borg: “Mi impegna tutto, anche un set con  mio nonno”. ( B. Borg, tennista).
Bisogna impegnarsi, con scrupolo e precisione. Concentratevi su quello che state scrivendo: silenziate le notifiche su facebook, Instagram.

Scrivete prima una bozza, poi fate integrazioni, aggiunte, ritocchi, correzioni.

Legge di Levi: “Non si dovrebbe scrivere oscuro, perché uno scritto ha tanto più valore quanto meglio viene compreso e quanto meno si presta ad interpretazioni equivoche. La scrittura serve a comunicare, a trasmettere informazioni e chi non viene capito da nessuno non trasmette niente”. ( P. Levi, scrittore).
Ordine, efficacia, chiarezza sono gli ingredienti irrinunciabili di un buon testo.

Legge di Catone: “Rem tene, verba sequentur”. ( Catone il Censore, intellettuale latino).
Se conosciamo bene l’argomento, troveremo anche le parole per spiegarlo.

Rispettate le tracce, le consegne.

Leggete, studiate, tenete gli occhi aperti sul mondo, ascoltate le persone che hanno cose da dire sugli argomenti più disparati, vedete programmi interessanti in TV, su You Tube, siate curiosi e approfittate di occasioni culturali (cinema, teatro, presentazioni di libri, conferenze, mostre, convegni). In questo modo arricchirete i vostri testi. Soprattutto: scrivete. Si impara a nuotare nuotando, non leggendo un manuale di nuoto.

Scrivete con una bella grafia: è buona educazione e soprattutto è nel vostro interesse, perché sarete giudicati prima di tutto dalla forma. E una grafia sciatta e disordinata scoraggia i lettori.

Andate a capo quando un pensiero è stato articolato nella sua interezza e bisogna passare ad altro argomento.

Semplificate. Evitate periodi troppo lunghi, pieni di subordinate. Ma non limitatevi a mettere solo frasette in fila.

Sforzatevi di non alterare l’ordine naturale delle parole: soggetto-verbo complemento.

Evitate le rime o i bisticci di parole: "la circolare sulle uscite a teatro è circolata?"

Organizzate bene l’esposizione secondo dati essenziali da arricchire poi con opinioni personali: who, when, what, where, why.

Cercate uno stile personale che catturi l'attenzione del lettore e non lo annoi, senza però pretendere di essere originali per forza e stupire con effetti speciali.

Non perdetevi in preamboli inutili, introduzioni lunghe e andate subito al punto. Entrate “in medias res”. 

Non cercate il finale memorabile: sobrietà e discrezione: ricorrete a una frase che sintetizzi il vostro punto di vista in modo efficace e nuovo rispetto allo svolgimento, senza ripetervi; potete ricorrere a un domanda. Evitate di lanciare un  messaggio o di scrivere un’esortazione.

Evitate le frasi fatte, i cliché, gli stereotipi linguistici (oggigiorno, per così dire, quello che è + nome; luoghi comuni: senza se e senza ma; la donna è la regina della casa…): scegliete le parole con cura.

Evitate le coppie di nomi e aggettivi che sono sinonimi: uno è sufficiente (era un tipo triste e afflitto; arrivai a casa, la mia dimora; vidi una giovane ragazza).

Usare i CONNETTIVI, formule che connettono le varie parti del testo e servono ad articolare il pensiero.
-          Espressioni (da una lato … dall’altro; possiamo osservare due cose: la prima è che … la seconda, invece,  è che...; per quanto riguarda il primo punto… per quanto concerne il secondo…);
-          Avverbi e locuzioni avverbiali (affermative – certo, senza dubbio; modali – comunque; temporali – poi, allora; concessive – tuttavia, peraltro; conclusivi, dunque, pertanto, quindi)
-          Congiunzioni (causali- poiché; finali- affinché; avversative- ma, però; coordinanti - e anche).

Rendere ben evidente e individuabile la propria tesi. Spiegate le cose, non datele per scontate, evitate i salti logici.

La punteggiatura ha valore.
-         -  La donna tornò a casa all’improvviso e trovò il marito a letto, e non era solo. (valore denotativo, informativo).
-         -  La donna tornò a casa all’improvviso e trovò il marito a letto. E non era solo. (Sconcerto e sorpresa).
-         -  La donna tornò a casa all’improvviso e trovò il marito a letto. E non era solo… (Suspense)
-         -  La donna tornò a casa all’improvviso e trovò il marito a letto… E non era solo! (suggerimento acuto su che cosa possa essere accaduto dopo…).

Evitate l’abuso della prima persona: "io io io" non è elegante. Universalizzate i concetti. Io amo leggere sul divano= è molto piacevole e rilassante leggere sul divano.

Scrivere bene non significa scrivere tanto: bisogna saper distinguere l’essenziale dal secondario, ci vuole il coraggio di eliminare l’inutile, non si deve essere verbosi. La prolissità è un difetto: less is more. La revisione di un testo serve a togliere il superfluo.

Rileggere il vostro lavoro serve a correggere errori: molti dipendono dalla distrazione, dalla fretta.
Verificate dati e informazioni per evitare errori di contenuto. Curate la forma (doppie, uso della lettera H per il verbo avere, accenti, apostrofi).

Citate e virgolettate solo se siete sicuri, altrimenti riportate il pensiero di un  autore con le vostre parole. Se non ricordate la citazione in lingua, evitatela, ma non citate in modo scorretto. I titoli vanno tra virgolette.

Mantenete lo stesso tempo verbale senza oscillare tra passato e presente.

(Testo sintetizzato e liberamente ispirato a C. Giunta, Come non scrivere, UTET, 2018)


ESEMPI DI SCRITTURA ARGOMENTATIVA
1) MASSIMO RECALCATI
2) ANNAMARIA TESTA

domenica 10 febbraio 2019

ROBINSON CRUSOE

NASCITA DEL ROMANZO MODERNO
Il romanzo moderno del Settecento si rivolge a un pubblico di massa e non a un gruppo ristretto di intellettuali. Questo spiega il successo del nuovo genere in Francia e in Inghilterra, dove la borghesia si amplia e afferma il proprio potere politico ed economico, al punto che si può parlare di "romanzo borghese": il nuovo romanzo è infatti rivolto al pubblico borghese; la borghesia vi si riconosce; emerge una vera e propria etica borghese veicolata dai romanzi che hanno come protagonisti "eroi" di ogni giorno capaci di costruire la propria vita con le loro ingegnose capacità. Nei romanzi borghesi i personaggi mostrano una forte fiducia in se stessi e nella vita, le vicende narrate traggono spunto dalla realtà e si allontanano da narrazioni mitologiche o cavalleresche: la novità dei temi e degli intrecci fa sì che in Inghilterra il romanzo prenda il nome di "novel".

Vita e avventure di Robinson Crusoe. TRAMA DEL ROMANZO
https://cultura.biografieonline.it/robinson-crusoe-riassunto/

Incipit del romanzo Vita e avventure di Robinson Crusoe
I. Primi anni di gioventù.
Nacqui dell'anno 1632 nella città di York d'una buona famiglia, benché non del paese, perché mio padre, nativo di Brema, da prima venne a mettere stanza ad Hull; poi fattosi un buono stato col traffico e dismesso indi il commercio, trasportò la sua dimora a York; nella qual città sposò la donna divenuta indi mia madre. Appartiene questa alla famiglia Robinson, ottimo casato del paese; onde io fui chiamato da poi Robinson Kreutznaer, ma per l'usanza che si ha nell'Inghilterra di svisar le parole, siamo or chiamati anzi ci chiamiamo noi stessi, e ci sottoscriviamo Crusoe, e i miei compagni mi chiamarono sempre così.
Ebbi due fratelli maggiori di me, un de' quali, tenente-colonnello in un reggimento di fanteria inglese, servì nella Fiandra, prima sotto gli ordini del famoso colonnello Lockhart, poi rimase morto nella battaglia accaduta presso Dunkerque contro agli Spagnuoli. Che cosa divenisse dell'altro mio fratello non giunsi a saperlo mai più di quanto i miei genitori abbiano saputo in appresso che cosa fosse divenuto di me. Terzo della famiglia, né essendo io stato educato ad alcuna professione, la mia testa cominciò sin di buon'ora ad empirsi d'idee fantastiche e girovaghe.
Mio padre, uomo già assai vecchio, che mi aveva procurata una dose ragionevole d'istruzione, fin quanto può aspettarsi generalmente da un'educazione domestica e dalle scuole pubbliche del paese, mi destinava alla professione legale; ma nessuna vita mi garbava fuor quella del marinaio, la quale inclinazione mi portò sì gagliardamente contro al volere, anzi ai comandi di mio padre, e contro a tutte le preghiere e persuasioni di mia madre e degli amici, che si sarebbe detto esservi nella mia indole una tal quale fatalità, da cui fossi guidato direttamente a quella miserabile vita che mi si apparecchiava.
Mio padre, uom grave e saggio, mi avea dati seri ed eccellenti consigli per salvarmi da quanto egli presentì essere il mio disegno. Mi chiamò una mattina nella sua stanza ove lo confinava la gotta, e lagnatosi caldamente meco su questo proposito, mi chiese quali motivi, oltre ad un mero desiderio di andar vagando attorno, io m'avessi per abbandonare la mia casa ed il mio nativo paese, ove io poteva essere onorevolmente presentato in ogni luogo, e mi si mostrava la prospettiva di aumentare il mio stato, l'applicazione e l'industria, e ad un tempo la sicurezza di una vita agiata e piacevole. (...)
"Dunque sii uomo; non precipitarti da te medesimo in un abisso di sventure contro alle quali la natura e la posizione in cui sei nato, sembrano averti premunito; non sei tu nella necessità di mendicarti il tuo pane. Quanto a me, son disposto a farti del bene e ad avviarti bellamente in quella strada che ti
ho già raccomandata come la migliore; laonde se non ti troverai veramente agiato e felice nel mondo, ne avranno avuto unicamente la colpa o una sfortuna non prevedibile o la tua mala condotta, venute ad impedirti sì lieto destino. Ma non avrò nulla da rimproverare a me stesso, perché mi sono sdebitato del mio obbligo col farti cauto contro a quelle tue risoluzioni che vedo doverti riuscire rovinose. Son prontissimo dunque a far tutto a tuo favore, se ti determini a rimanertene in mia casa e ad accettare
un collocamento quale te l'ho additato; ma altresì non coopererò mai alle tue disgrazie col darti veruna sorta d'incoraggiamento ad andartene." (...)
II. Fuga.
Sol quasi un anno dopo io ruppi il freno del tutto; benché in questo intervallo avessi continuato a mostrarmi ostinatamente sordo ad ogni proposta di dedicarmi a qualche professione, e benché frequentemente mi fossi querelato de' miei genitori per questa loro volontà, sì fermamente dichiarata contro a quanto sapevano essere, com'io diceva, la decisa mia vocazione. Ma trovatomi un giorno ad Hull, ove capitai a caso e in quel momento senza verun premeditato disegno, incontrai uno de' miei
compagni, che recandosi allora a Londra per mare sopra un vascello del padre suo, mi sollecitò ad accompagnarlo col solito adescamento degli uomini di mare: col dirmi cioè, che un tal viaggio non mi sarebbe costato nulla. Non consultai nè mio padre nè mia madre, nè tampoco mandai a dir loro una parola di ciò; ma lasciai che lo sapessero come il Cielo lo avrebbe voluto, e partii senza chiedere nè la benedizione di Dio, nè quella di mio padre; senza badare a circostanze o conseguenze; e partii in una trista ora: Iddio lo sa! Nel primo giorno di settembre del 1651 mi posi a bordo di un vascello diretto a Londra. 

Robinson sull'isola
http://online.scuola.zanichelli.it/lettereinmovimento-files/Vol_2/brani/v2_c1_giallo.pdf

L'incontro con Venerdì
http://www.edu.lascuola.it/edizioni-digitali/Convivio/letture/DDefoe_incontroconvenerdi.pdf

giovedì 24 gennaio 2019

ITALO SVEVO

 da UNA VITA,VIII (1892)
Macario possedeva un piccolo cutter e frequentemente invitò Alfonso a gite mattutine nel golfo. Nella sua vita triste, quelle gite furono per Alfonso vere feste. In barca gli era anche più facile di dare il suo assenso alle asserzioni di Macario e in gran parte non le udiva. Si trovava ancora sempre alla conquista della solida salute che gli occorreva, riteneva, per sopportare la dura vita di lavoro a cui faceva proponimento di sottoporsi, e gli effluvi marini dovevano aiutarlo a trovarla.

Una mattina soffiava un vento impetuoso e alla punta del molo, ove si trovavano per attendere la barca che doveva venirli a prendere, Alfonso propose a Macario di tralasciare per quella mattina la gita che gli sembrava pericolosa. Macario si mise a deriderlo e non ne volle sapere.

Il cutter si avvicinava. Piegato dalle vele bianche gonfiate dal vento, sembrava ad ogni istante di dover capovolgersi e di raddrizzarsi all’ultimo estremo sfuggendo al pericolo imminente. Alfonso da terra era colto da quei tremiti nervosi che si hanno al vedere delle persone in pericolo di cadere e fu solo per la paura delle ironie di Macario che non seppe lasciarlo partir solo.

Ferdinando, un facchino ch’era stato marinaio, dirigeva la barca. Lasciò il posto al timone a Macario il quale sedette dopo toltasi la giubba quasi per prepararsi a grandi fatiche:

— Ora fuoco alla macchina, — gridò a Ferdinando.

Ferdinando scese a terra e trascinò il cutter per l’albero di prora da un angolo del molo all’altro; poi, un piede puntellato a terra, l’altro sul cutter, lo spinse al largo.

Alfonso lo guardò tremando; temeva di vederlo piombare in acqua e, per quanto piccolo, l’imminenza di un pericolo lo faceva sussultare.

— Che agile! — disse a Ferdinando.

Gli pareva d’essere in mano sua e aveva il desiderio quasi inconscio d’amicarselo. Ferdinando alzò il capo, giovanile ad onta del grigio nella barba e della calvizie abbastanza inoltrata, e ringraziò. Non essendo suo il mestiere, ci teneva molto ad apparire abile. Comprese però male lo scopo della raccomandazione. Trasse con forza a sé la vela e la fissò, aiutando poscia a tenderla con tutto il peso del suo corpo. Immediatamente il vento che pareva sorgesse allora la gonfiò e la barca si piegò con veemenza proprio dalla parte ove sedeva Alfonso.

S’era proposto di far mostra di grande sangue freddo, ma i propositi non bastarono all’improvviso spavento. Poté trattenersi dal gridare ma balzò in piedi e si gettò dall’altra parte sperando di raddrizzare la barca con il suo peso. Si tranquillò alquanto sentendosi più lontano dall’acqua e sedette afferrandosi con le mani alla banchina.

Macario lo guardò con un leggero sorriso. Si sentiva bene nella sua calma accanto ad Alfonso e per rendere più evidente il distacco tenne il cutter sotto la piena azione del vento. Alfonso vide il sorriso e volle prendere l’aspetto di persona calma. Segnalò a Macario all’orizzonte delle punte bianche di montagne di cui non si vedevano le basi.

Passando accanto al faro poté misurare la rapidità con la quale tagliavano l’acqua; diede un balzo sembrandogli che la barca andasse a sfracellarsi sui sassi che la contornavano.

— Sa nuotare? — gli chiese Macario con tranquillità. — Alla peggio ritorneremo a casa a nuoto. Ma — e finse grande preoccupazione — anche se si sentisse andare a fondo non si aggrappi a me perché saremmo perduti in due. Penseremo a lei io e Nando. Nevvero, Nando?

Ridendo sgangheratamente, costui lo promise.

Coi suoi modi da pensatore, Macario si dilungò in considerazioni sugli effetti della paura. Ogni dieci parole alzava la mano aristocratica, l’arrotondava e tutti i sottintesi che quel gesto segnava, cui nel vuoto della mano creava il posto, Alfonso lo sapeva, dovevano andare a colpire lui e la sua paura.

— Muore maggior numero di persone per paura che per coraggio. Per esempio in acqua, se vi cadono, muoiono tutti coloro che hanno l’abitudine di afferrarsi a tutto quello che loro è vicino, — e fece una strizzatina d’occhio verso le mani di Alfonso che si chiudevano nervosamente sulla banchina.

E passarono accanto al verde Sant’Andrea senza che Alfonso potesse padroneggiarsi. Guardava, ma non godeva.

La città, quando al ritorno la rivide, gli parve triste. Sentiva un grande malessere, una stanchezza come se molto tempo prima avesse fatto tanta via e che poi non lo si fosse lasciato riposare mai più. Doveva essere mal di mare e provocò l’ilarità di Macario dicendoglielo.

— Con questo mare!

Infatti il mare sferzato dal vento di terra non aveva onde. Vi erano larghe strisce increspate, altre incavate, liscie liscie precisamente perché battute dal vento che sembrava averci tolto via la superficie. Nella diga c’era un romoreggiare allegro come quello prodotto da innumerevoli lavandaie che avessero mosso i loro panni in acqua corrente.

Alfonso era tanto pallido che Macario se ne impietosì e ordinò a Ferdinando di accorciare le vele.

Si era in porto, ma per giungere al punto di partenza si dovette passarci dinanzi due volte.

Si udivano i piccoli gridi dei gabbiani. Macario per distrarlo volle che Alfonso osservasse il volo di quegli uccelli, così calmo e regolare come la salita su una via costruita, e quelle cadute rapide come di oggetti di piombo. Si vedevano solitarii, ognuno volando per proprio conto, le grandi ali bianche tese, il corpicciuolo sproporzionatamente piccolo coperto da piume leggiere.

— Fatti proprio per pescare e per mangiare, — filosofeggiò Macario. — Quanto poco cervello occorre per pigliare pesce! Il corpo è piccolo. Che cosa sarà la testa e che cosa sarà poi il cervello? Quantità da negligersi! Quello ch’è la sventura del pesce che finisce in bocca del gabbiano sono quelle ali, quegli occhi, e lo stomaco, l’appetito formidabile per soddisfare il quale non è nulla quella caduta così dall’alto. Ma il cervello! Che cosa ci ha da fare il cervello col pigliar pesci? E lei che studia, che passa ore intere a tavolino a nutrire un essere inutile! Chi non ha le ali necessarie quando nasce non gli crescono mai più. Chi non sa per natura piombare a tempo debito sulla preda non lo imparerà giammai e inutilmente starà a guardare come fanno gli altri, non li saprà imitare. Si muore precisamente nello stato in cui si nasce, le mani organi per afferrare o anche inabili a tenere.

Alfonso fu impressionato da questo discorso. Si sentiva molto misero nell’agitazione che lo aveva colto per cosa di sì piccola importanza.

— Ed io ho le ali? — chiese abbozzando un sorriso.

— Per fare dei voli poetici sì! — rispose Macario, e arrotondò la mano quantunque nella sua frase non ci fosse alcun sottinteso che abbisognasse di quel cenno per venir compreso.


***


LA COSCIENZA DI ZENO
PREFAZIONE e PREAMBOLO


LA SALUTE MALATA DI AUGUSTA

LA PROFEZIA DI UN'APOCALISSE COSMICA
La vita somiglia un poco alla malattia come procede per crisi e lisi ed ha i giornalieri miglioramenti e peggioramenti. A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale. Non sopporta cure. Sarebbe come voler turare i buchi che abbiamo nel corpo credendoli delle ferite. Morremmo strangolati non appena curati. La vita attuale è inquinata alle radici. L’uomo s’è messo al posto degli alberi e delle bestie ed ha inquinata l’aria, ha impedito il libero spazio. Può avvenire di peggio. Il triste e attivo animale potrebbe scoprire e mettere al proprio servizio delle altre forze. V’è una minaccia di questo genere in aria. Ne seguirà una grande ricchezza... nel numero degli uomini. Ogni metro quadrato sarà occupato da un uomo. Chi ci guarirà dalla mancanza di aria e di spazio? Solamente al pensarci soffoco! Ma non è questo, non è questo soltanto. Qualunque sforzo di darci la salute è vano. Questa non può appartenere che alla bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo. Allorché la rondinella comprese che per essa non c’era altra possibile vita fuori dell’emigrazione, essa ingrossò il muscolo che muove le sue ali e che divenne la parte piú considerevole del suo organismo. La talpa s’interrò e tutto il suo corpo si conformò al suo bisogno. Il cavallo s’ingrandí e trasformò il suo piede. Di alcuni animali non sappiamo il progresso, ma ci sarà stato e non avrà mai leso la loro salute. Ma l’occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c’è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa. Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l’uomo diventa sempre piú furbo e piú debole. Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della sua debolezza. I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo braccio e non potevano essere efficaci che per la forza dello stesso, ma, oramai, l’ordigno non ha piú alcuna relazione con l’arto. Ed è l’ordigno che crea la malattia con l’abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice. La legge del piú forte sparí e perdemmo la selezione salutare. Altro che psico-analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati. Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno piú, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ piú ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.

L'INETTO COME "ABBOZZO" DELL'UOMO FUTURO
Nella maggioranza degli uomini lo sviluppo per loro fortuna e per fortuna dell’ambiente sociale, s’arresta. Lo sviluppo eccessivo di qualità inferiori, tutte quelle che immediatamente servono alla lotta per la vita, non sono altro che un arresto di sviluppo. Lo sviluppo di queste gambe è evidentemente un maggior sviluppo ma d'altra parte rappresenta per sé un arresto definitivo di sviluppo. Negli uomini questo maggior sviluppo dà un sentimento di superiorità ed anche una superiorità di forza reale. Io credo che l’animale più capace ad evolversi sia quello in cui una parte è in continua lotta con l’altra per la supremazia, e l’animale ora o nelle generazioni future, abbia conservata la possibilità di evolversi da una parte o dall’altra in conformità a quanto gli sarà domandato dalla società di cui nessuno può ora prevedere i bisogni e le esigenze. Nella mia mancanza assoluta di uno sviluppo marcato in qualsivoglia senso io sono quell’uomo. Lo sento tanto bene che nella mia solitudine me ne glorio altamente e sto aspettando sapendo di non essere altro che un abbozzo. 
(I. Svevo, Racconti, saggi e pagine sparse, Dall'Oglio, Milano, 1969)

giovedì 10 gennaio 2019

LA NOVELLA

Caratteristiche della novella:
- estensione breve;
- rappresentazione di ambienti, personaggi e situazioni nella loro concretezza;
- impianto generalmente realistico, legame con la vita quotidiana nella selezione dei contenuti;
- scelte stilistiche vicine a una fedele rappresentazione del mondo reale;
- linearità narrativa della trama (raramente, nella novella classica e medievale, si registrano digressioni, episodi paralleli);

- a differenza della fiaba, le vicende non sono chiuse dall'immancabile lieto fine, ma possono avere una conclusione 
amara o malinconica;
- a differenza del romanzo, i caratteri dei personaggi sono rappresentati nei loro aspetti essenziali, manca, cioè, un'analisi articolata della loro psicologia: molti dati si ricavano implicitamente dall'intreccio e dalla narrazione stessa delle situazioni.

La novella nel mondo classico

Petronio, La Matrona di Efeso














La novella medievale
John William Waterhouse, A Tale from Decameron, 1916
Boccaccio, Decameron






Andreuccio da Perugia






LA BADESSA E LE BRACHE https://letteritaliana.weebly.com/la-badessa-e-le-brache.html