La scuola di Atene

La scuola di Atene

giovedì 6 luglio 2017

Che cos'è la letteratura



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Adesso vi prego di non pensare che io voglia farvi una lezione sulla compassione o la sincerità o altre cosiddette “virtù”. Il problema non è la virtù.
Il problema è di scegliere di fare il lavoro di adattarsi e affrancarsi dalla configurazione di base, naturale e codificata in noi, che ci fa essere profondamente e letteralmente centrati su noi stessi, e ci fa vedere e interpretare ogni cosa attraverso questa lente del sé. Le persone che riescono ad adattare la loro configurazione di base sono spesso descritti come “ben adattati”, che credo non sia un termine casuale.

Considerando la trionfale cornice accademica in cui siamo, viene spontaneo porsi il problema di quanto di questo lavoro di autoregolazione della nostra configurazione di base coinvolga conoscenze effettive e il nostro stesso intelletto. Questo problema è veramente molto complicato. Probabilmente la più pericolosa conseguenza di un’educazione accademica, almeno nel mio caso, è che ha permesso di svilupparmi verso della roba super-intellettualizzata, di perdermi in argomenti astratti dentro la mia testa e, invece di fare semplicemente attenzione a ciò che mi capita sotto al naso, fare solo attenzione a ciò che capita dentro di me.

Come saprete già da un pezzo, è molto difficile rimanere consapevoli e attenti, invece di lasciarsi ipnotizzare dal monologo costante all’interno della vostra testa (potrebbe anche stare succedendo in questo momento). Vent’anni dopo essermi laureato, sono riuscito lentamente a capire che lo stereotipo dell’educazione umanistica che vi “insegna a pensare” è in realtà solo un modo sintentico per esprimere un’idea molto piu significativa e profonda: “imparare a pensare” vuol dire in effetti imparare a esercitare un qualche controllo su come e cosa pensi. Significa anche essere abbastanza consapevoli e coscienti per scegliere a cosa prestare attenzione e come dare un senso all’esperienza. Perché, se non potrete esercitare questo tipo di scelta nella vostra vita adulta, allora sarete veramente nei guai. Pensate al vecchio luogo comune della “mente come ottimo servitore, ma pessimo padrone”. Questo, come molti luoghi comuni, così inadeguati e poco entusiasmanti in superficie, in realtà esprime una grande e terribile verità. Non a caso gli adulti che si suicidano con armi da fuoco quasi sempre si sparano alla testa. Sparano al loro pessimo padrone. E la verità è che molte di queste persone sono in effetti già morte molto prima di aver premuto il grilletto.


E vi dico anche quale dovrebbe essere l’obiettivo reale su cui si dovrebbe fondare la vostra educazione umanistica: come evitare di passare la vostra confortevole, prosperosa, rispettabile vita adulta, come dei morti, incoscienti, schiavi delle vostre teste e della vostra solita configurazione di base per cui “in ogni momento” siete unicamente, completamente, imperiosamente soli. 
(David Foster Wallace)

https://www.nazioneindiana.com/2008/10/08/kenyon-college-and-me/



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Il mondo, qualunque cosa noi ne pensiamo, spaventati dalla sua immensità e dalla nostra impotenza di fronte a esso, amareggiati dalla sua indifferenza alle sofferenze individuali ( di uomini, animali, e forse piante, perché chi ci dà la certezza che le piante siano esenti dalla sofferenza?), qualunque cosa noi pensiamo dei suoi spazi trapassati dalle radiazioni delle stelle, stelle intorno a cui si sono già cominciati a scoprire pianeti ( già morti? Ancora morti?), qualunque cosa pensiamo di questo smisurato teatro, per cui abbiamo sì il biglietto d’ingresso, ma con una validità ridicolmente breve, limitata dalle due date categoriche, qualunque cosa ancora noi pensassimo di questo mondo – esso è stupefacente.
Ma nella definizione “stupefacente” si cela una sorta di tranello logico. Dopotutto ci stupisce ciò che si discosta da una qualche norma nota e generalmente accettata, da una qualche ovvietà a cui siamo abituati. Ebbene, un simile mondo ovvio non esiste affatto. Il nostro stupore esiste per se stesso e non deriva da nessun paragone con alcunché.
D’accordo, nel parlare comune, che non riflette su ogni parola, tutti usiamo i termini: “mondo normale”, vita normale normale corso delle cose… Tuttavia nel linguaggio della poesia, in cui ogni parola ha un peso, non c’è più nulla di ordinario e normale. Nessuna pietra e nessuna nuvola su di essa. Nessun giorno e nessuna notte che lo segue. E soprattutto nessuna esistenza di nessuno in questo mondo.
A quanto pare i poeti avranno sempre molto da fare.
(Wislawa Szymborska)

https://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2012/02/03/wislawa-szymborska-discorso-tenuto-in-occasione-del-conferimento-del-premio-nobel/



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È evasione il mio amore per Ariosto? No, egli ci insegna come l'intelligenza viva anche, e soprattutto, di fantasia, d'ironia, d'accuratezza formale, come nessuna di questa doti sia fine a se stessa ma come possano entrare a far parte d'una concezione del mondo, possano servire a meglio valutare virtù e vizi umani. 
Tutte lezioni attuali, necessarie oggi, nell'epoca dei cervelli elettronici e dei voli spaziali. È un'energia volta verso l'avvenire, ne sono sicuro, non verso il passato, quella che muove Orlando, Angelica, Bradamante, Astolfo ...
(Italo Calvino, "Tre correnti del romanzo italiano d'oggi" in "Una pietra sopra")



La luna dei poeti ha qualcosa a che fare con le immagini lattiginose e bucherellate che i razzi trasmettono? Forse non ancora; ma il fatto che siamo obbligati a ripensare la luna in un modo nuovo ci porterà a ripensare in un modo nuovo tante cose (...).
Chi ama la luna davvero non si contenta di contemplarla come un'immagine convenzionale, vuole entrare in un rapporto più stretto con lei, vuole vedere di più nella luna, vuole che la luna dica di più. Il più grande scrittore della letteratura italiana di ogni secolo, Galileo, appena si mette a parlare della luna innalza la sua prosa a un grado di precisione ed evidenza e insieme di rarefazione lirica prodigiose. E la lingua di Galileo fu uno dei modelli della lingua  di Leopardi, gran poeta lunare ...
(Italo Calvino, "Il rapporto con la luna" in "Una pietra sopra")


Qualcuno mi potrà obiettare che più l'opera tende alla moltiplicazione dei possibili più s'allontana da quell'unicum che è il "self" di chi scrive, la sincerità interiore, la scoperta della propria verità. 
Al contrario, rispondo, chi siamo noi, chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d'esperienze, d'informazioni, di letture, d'immaginazioni?
Ogni vita è un'enciclopedia, una biblioteca, un inventario d'oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili. 
Ma forse la risposta che mi sta più a cuore dare è un'altra: magari fosse possibile un'opera concepita al di fuori del "self", un'opera che ci permettesse d'uscire dalla prospettiva limitata d'un io individuale, non solo per entrare in altri io simili al nostro, ma per far parlare ciò che non ha parola, l'uccello che si posa sulla grondaia, l'albero in primavera e l'albero in autunno, la pietra, il cemento, la plastica...
Non era forse questo il punto d'arrivo cui tendeva Ovidio
nel raccontare la continuità delle forme, il punto d'arrivo cui tendeva Lucrezio nell'identificarsi con la natura comune a tutte le cose?
(Italo Calvino, Molteplicità, in Lezioni americane)







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Su, piccolo giovane poeta, questa è la sera adatta, mi sembra; è primavera, siamo al crepuscolo, il cielo anche è propizio per via di quelle nubi lunghissime, avanti dunque, se sei capace, parla”.

“Ecco… per esempio – cominciò il Poeta balbettando – ecco.. vedi quella finestra illuminata, lassù, quasi in cima al casamento?”
“Quella finestra, dici?”
“Ma si,  perché? Forse che non va bene?”
“È inaudito ragazzo mio! Tu parli proprio di quella finestra al nono piano se l’ho contato giusto, l’unica accesa in tutto il palazzo?”
“Si precisamente quella”.
“Ah, è incredibile! Tu, poeta, tu invitato  da noi appositamente, pagato anche: tu hai il coraggio di parlare della finestra accesa  nella notte, eccetera. (Chi ci sarà in quella stanza? Una mamma  che veglia il bambino malato? Un falsario che lavora? Un poeta che sogna?). Ma è spaventoso, capisci.
Questo è il massimo della banalità.
Non c’è studentessa di normali che non abbia già scritto tutto questo nelle pagine del diario”.
“E allora? Che significa? Proprio questo coraggio bisogna avere. La finestra accesa nella notte, esattamente, con le fantasie corrispondenti, così banali, spontanee, così facili. Dopo le studentesse, anch’io.
Solo che i loro diari appassiranno ignoti, chiusi nel fondo dei cassetti.
Mentre per me la gente si volterà, le orecchie tese, le bocche semiaperte a bere, a bere ciò che è la vita. E io volerò sopra di loro!
(Dino Buzzati, Lezione di poesia, in Esperimento di magia)



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Se una volta la letteratura era una specie di vacanza che il lettore si concedeva dalla quotidianità, oggi è invece un modo di esplorare direttamente quel che ci succede, e spesso di trovare strade che ci aiutano ad andare avanti quando ci sentiamo frenati da circostanze o fattori negativi. (...)
Scrivere o leggere significa sempre interrogare e analizzare la realtà, significa anche lottare per cambiarla dall'interno, dal pensiero, dalla coscienza di chi scrive e di chi legge. (...)
Quando uno scrittore dà il massimo di se stesso come creatore, tutto ciò che scrive sarà un'arma nel duro combattimento che sferriamo ogni giorno.

Una poesia d'amore, un racconto puramente immaginario, sono le prove più belle che non c'è dittatura né repressione che possa fermare quel legame ormai profondo che esiste tra i nostri migliori scrittori e la realtà dei loro Paesi, quella realtà che ha bisogno della bellezza come ha bisogno della verità e della giustizia. (...)
I libri sono bottiglie in mare, messaggi lanciati nella vastità dell'ignoranza e della miseria; ma capita che qualche bottiglia arrivi a destinazione, ed è allora che questi messaggi devono mostrare il loro m senso e la loro ragione d'essere.
(Julio Cortázar, "Lezioni di letteratura")



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Poesia e Utopia
DANTE A GUIDO CAVALCANTI
  
Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento
e messi in un vasel, ch’ad ogni vento
per mare andasse al voler vostro e mio;

sì che fortuna od altro tempo rio
non ci potesse dare impedimento,
anzi, vivendo sempre in un talento,
di stare insieme crescesse ’l disio.

E monna Vanna e monna Lagia poi
con quella ch’è sul numer de le trenta
con noi ponesse il buono incantatore:

e quivi ragionar sempre d’amore,
e ciascuna di lor fosse contenta,

sì come i’ credo che saremmo noi.

(Dante Alighieri, "Rime")