La scuola di Atene

La scuola di Atene

giovedì 10 novembre 2016

CERVANTES

MIGUEL DE CERVANTES SAAVEDRA Nacque in Alcalá de Henares. Morì a Madrid il 23 aprile 1616. Della sua vita si possono segnare soltanto i momenti salienti: vita di travaglio, consumata tra vicende avverse, nell'assillante lotta per l'esistenza e in vane aspirazioni verso miraggi ideali.
Suo padre, medico pratico senza diploma, lo trasse dietro di sé insieme con la numerosa famiglia nelle sue peregrinazioni da Alcalá de Henares a Valladolid (1554), da Madrid (1561) a Siviglia (1564-65) e quindi nuovamente a Madrid (1566-68). La sua fu, dunque, una giovinezza errante. Anche dopo continuarono i viaggi, come cortigiano e poi come soldato. Soggiornò a lungo in Italia, in un periodo di fermento culturale: dalla lettura del Furioso trae origine, forse, l'interesse per la materia cavalleresca.
Partecipò alla battaglia di Lepanto (7 ottobre 1571). Sebbene febbricitante volle combattere e, ai fianchi della sua galera, su un battello con dodici uomini ai suoi ordini, si lanciò nella mischia. Ebbe due ferite d'archibugio al petto e un'altra alla mano sinistra, che gli rimase rovinata per sempre. Ricordo di sangue e di gloria, che lo esalterà sulle oscure e mediocri vicende della sua umile vita.
A Messina, dove la flotta fece ritorno (30 ottobre), trascorse la convalescenza. Non appena guarito entrò (29 aprile 1572) partecipò alla spedizione di Corfù, all'assedio di Navarino (luglio-agosto 1572), all'occupazione di Tunisi (10 ottobre 1573) e al tentativo di liberare la Goletta (1574). 
Catturato da pirati turchi, venne poi liberato da religiosi spagnoli che pagano il riscatto.
Tornato finalmente in Spagna, non ottiene, però, i riconoscimenti sperati e le ricompense per l'eroismo mostrato come soldato e prigioniero cristiano; il suo ritorno si rivela segnato dall'indifferenza, dalle ristrettezze economiche e dall'umiliazione.
Trova impiego come commissario di vettovagliamento per l'Invincibile Armada e poi come riscossore delle imposte: viene accusato di sequestro di beni privati anche a danno di ecclesiastici e subisce la scomunica; il banchiere presso cui deposita i soldi delle riscossioni d'imposta, fallisce e scappa con il denaro. Cervantes finisce in carcere a Siviglia, dove entra in contatto con gli ambienti malavitosi della città. Probabilmente in carcere inizia l stesura del Don Chisciotte.
La sua storia privata permette a Cervantes di decifrare l'immagine del suo tempo segnato dal disorientamento e da una profonda crisi: la scomparsa del grande impero spagnolo a vantaggio di potenze europee più moderne, come l'Inghilterra; il crollo delle grandi certezze rinascimentali e l'inizio di un'epoca di profondo smarrimento dopo la rivoluzione copernicana. Si tratta di condizioni che mettono in crisi la tradizionale concezione dell'eroe. 

DON CHISCIOTTE
Il Don Chisciotte della Mancia si divide in due sezioni: una prima, scritta intorno agli anni che vanno dal 1598 al 1604; l’altra, la seconda, che venne pubblicata solo nel 1615. Le avventure vedono come protagonista un hidalgo della Mancia che, da appassionato lettore di romanzi cavallereschi, inizia a non saper più distinguere la realtà dalla finzione. È così che, innalzatosi a paladino di giustizia, pace, difesa degli oppressi e dei più alti valori, si convince di essere un cavaliere errante e prende la decisione di mettersi alla ricerca di nuove avventure per proteggere i più deboli.

Assunto il nome di Don Chisciotte il cavaliere esce in sella al suo ronzino, ribattezzato Ronzinante, e dà il via alle proprie imprese: gli esiti, però, si rivelano sin dal principio fallimentari e, picchiato e ammaccato, Don Chisciotte è costretto a tornare a casa.


Una volta guarito, il cavaliere non si dà per vinto: Don Chisciotte torna a casa e decide di ingaggiare uno scudiero, ricordandosi che nessun cavaliere che si rispetti ne ha mai potuto fare a meno: la sua scelta ricade quindi su un ignorante popolano, Sancio Panza, il quale viene convinto con la promessa di poter governare un’intera isola una volta terminate le avventure. Don Chisciotte intraprende imprese che puntualmente si trasformano in disfatte.

Subito don Chisciotte si lancia contro i mulini a vento, che nella sua distorsione della realtà sono terribili giganti da sconfiggere: l’impresa finisce ingloriosamente quando don Chisciotte si schianta contro un mulino e frana a terra insieme con il suo cavallo. Il viaggio di Don Chisciotte e Sancho Panza riprende, e quando incontrano una brigata che accompagna una dama a Siviglia, Don Chisciotte, credendo che la nobildonna sia stata rapita dal suo seguito, cerca di liberarla. Don Chisciotte e Sancho si fermano poi in una modesta osteria, che il protagonista scambia ancora una volta per un castello, conversando con le cameriere, che per lui sono nobili e leggiadre figure femminili. Il protagonista attacca poi un gregge di pecore,che ai suoi occhi assume le dimensioni di un pericoloso esercito, finendo per essere picchiato dai pastori e col perdere due denti. Quando invece incrociano sul loro cammino un funerale, Don Chisciotte scambia il feretro per un cavaliere suo pari ferito e attacca i partecipanti al funerale che, terrorizzati, scappano. Sancho Panza, dopo tutte queste peripezie, assegna al suo padrone il soprannome di “Cavaliere dalla triste figura” e Don Chisciotte apprezzando l’epiteto disegna un personaggio triste come simbolo per il proprio scudo.

Don Chisciotte decide di recuperare il celebre elmo di Mambrino: conquisterà invece gli utensili di un barbiere, liberando poco dopo alcuni carcerati incatenati. Infine, stanco dopo tante imprese, don Chisciotte decide di ritirarsi nei boschi in solitudine e penitenza e manda Sancho da Dulcinea con una missiva d’amore. Sancho, per tranquillizzare don Chisciotte, si inventa che la missione sia andata a buon fine, mentre il curato e il barbiere del paese partono alla ricerca del protagonista, per riportarlo nuovamente a casa.  

La seconda parte del romanzo  è caratterizzata da una novità sostanziale: i protagonisti sono consapevoli della follia di don Chisciotte, che quindi diventa spesso oggetto di un esplicito inganno architettato dagli altri personaggi. Cervantes dà na sfumatura tragica al proprio personaggio, vittima inconsapevole delle trame degli altri personaggi.

La storia si apre con il protagonista che, pur assistito da una governante e dalla nipote, riesce a fuggire di casa e a ripartire all’avventura con Sancho. Per prima cosa i due si recano al Toboso, per incontrare l’amata Dulcinea. Ma in paese naturalmente non c’è nessun castello, così Sancho architetta un inganno per accontentare il suo signore, conducendo Don Chisciotte in un bosco e dicendogli che di lì a poco arriverà la sua Dulcinea. Don Chisciotte vede in realtà solo tre semplici contadine, ma Sancho, semplice ma arguto, risponde che ad uno sguardo più attento il cavaliere potrà notare che quella è la sua elegantissima principessa. Fidandosi della parola di Sancho Panza, don Chisciotte si convince di essere sotto l’incantesimo di quegli incantatori che nella sua immaginazione sempre lo perseguitano mistificando la realtà di fronte ai suoi. Nel frattempo Sansone Carrasco, studente e amico di Don Chisciotte, escogita uno stratagemma per far tornare a casa l’amico. Sansone si presenta infatti come il Cavaliere degli Specchi e sfida don Chisciotte a duello, ponendo la clausula che il vinto avrebbe dovuto obbedire al vincitore. Don Chisciotte, che ha sempre perduto ogni incontro, per un caso fortuito vince: nonostante le buone intenzioni di Carrasco la sua avventura è quindi destinata a continuare. 

Don Chisciotte e Sancho Panza riprendono quindi il cammino e incrociano un nobiluomo e sua moglie che, conoscendo la prima parte della sua storia, lo riconoscono e li invitano presso il loro castello. Duca e duchessa, in realtà, vogliono prendersi gioco di don Chisciotte e allestiscono a loro danno una messinscena con personaggi mascherati e incantamenti. Tra i vari inganni, inventano la storia di un mago, Malabruno, che avrebbe reso barbute la contessa Trifaldi e le sue dodici dame di compagnia. Don Chisciotte viene così convinto a sconfiggere Malabruno in sella al cavallo alato Clavilegno, che, come suggerisce il nome, è un destriero di legno al quale sono stati collegati dei petardi. Don Chisciotte e Sancho Panza vi salgono bendati ma poco dopo i mortaretti esplodono e i due finiscono stesi per terra. Don Chisciotte ha comunque portato a termine la missione, dato che il fantomatico mago è sconfitto. Il duca assegna in ricompensa il governatorato dell’isola di Baratteria a Sancho Panza, il quale, però, preferisce restare con Don Chisciotte. Don Chisciotte e Sancho Panza si dirigono allora verso Barcellona, ma sulla strada di nuovo vengono raggiunti da Sansone Carrasco, questa volta nei panni del Cavaliere della Bianca Luna, determinato a riportare a casa l’amico. Lo sfida così a dire che vi è una donna più bella di Dulcinea e costei è la sua dama. I due si trovano nuovamente a duellare con la medesima clausula: il vinto si dovrà sottomettere al volere del vincitore. Simone Carrasco questa volta vince e riesce così a riportare a casa Don Chisciotte.

Una volta a casa Don Chisciotte cade preda di una forte febbre: dopo sei giorni a letto il cavaliere errante si sveglia da un sonno di sei ore invocando la propria morte e sostenendo di aver ritrovato il senno. Don Chisciotte quindi si confessa e, poco dopo, muore.




http://www.letteratura.rai.it/articoli/marco-lodoli-tra-dostoevskij-e-cervantes/83/default.aspx

LA LETTURA DI FRANCESCO GUCCINI: UNA CANZONE COME TESTO CRITICO



Ho letto millanta storie di cavalieri erranti,
di imprese e di vittorie dei giusti sui prepotenti
per starmene ancora chiuso coi miei libri in questa stanza
come un vigliacco ozioso, sordo ad ogni sofferenza.
Nel mondo oggi più di ieri domina l'ingiustizia,
ma di eroici cavalieri non abbiamo più notizia;
proprio per questo, Sancho, c'è bisogno soprattutto
d'uno slancio generoso, fosse anche un sogno matto:
vammi a prendere la sella, che il mio impegno ardimentoso
l'ho promesso alla mia bella, Dulcinea del Toboso,
e a te Sancho io prometto che guadagnerai un castello,
ma un rifiuto non l'accetto, forza sellami il cavallo !
Tu sarai il mio scudiero, la mia ombra confortante
e con questo cuore puro, col mio scudo e Ronzinante,
colpirò con la mia lancia l'ingiustizia giorno e notte,
com'è vero nella Mancha che mi chiamo Don Chisciotte...

Questo folle non sta bene, ha bisogno di un dottore,
contraddirlo non conviene, non è mai di buon umore...
E' la più triste figura che sia apparsa sulla Terra,
cavalier senza paura di una solitaria guerra
cominciata per amore di una donna conosciuta
dentro a una locanda a ore dove fa la prostituta,
ma credendo di aver visto una vera principessa,
lui ha voluto ad ogni costo farle quella sua promessa.
E così da giorni abbiamo solo calci nel sedere,
non sappiamo dove siamo, senza pane e senza bere
e questo pazzo scatenato che è il più ingenuo dei bambini
proprio ieri si è stroncato fra le pale dei mulini...
E' un testardo, un idealista, troppi sogni ha nel cervello:
io che sono più realista mi accontento di un castello.
Mi farà Governatore e avrò terre in abbondanza,
quant'è vero che anch'io ho un cuore e che mi chiamo Sancho Panza...

Salta in piedi, Sancho, è tardi, non vorrai dormire ancora,
solo i cinici e i codardi non si svegliano all'aurora:
per i primi è indifferenza e disprezzo dei valori
e per gli altri è riluttanza nei confronti dei doveri !
L'ingiustizia non è il solo male che divora il mondo,
anche l'anima dell'uomo ha toccato spesso il fondo,
ma dobbiamo fare presto perché più che il tempo passa
il nemico si fà d'ombra e s'ingarbuglia la matassa...

A proposito di questo farsi d'ombra delle cose,
l'altro giorno quando ha visto quelle pecore indifese
le ha attaccate come fossero un esercito di Mori,
ma che alla fine ci mordessero oltre i cani anche i pastori
era chiaro come il giorno, non è vero, mio Signore ?
Io sarò un codardo e dormo, ma non sono un traditore,
credo solo in quel che vedo e la realtà per me rimane
il solo metro che possiedo, com'è vero... che ora ho fame !

Sancho ascoltami, ti prego, sono stato anch'io un realista,
ma ormai oggi me ne frego e, anche se ho una buona vista,
l'apparenza delle cose come vedi non m'inganna,
preferisco le sorprese di quest'anima tiranna
che trasforma coi suoi trucchi la realtà che hai lì davanti,
ma ti apre nuovi occhi e ti accende i sentimenti.
Prima d'oggi mi annoiavo e volevo anche morire,
ma ora sono un uomo nuovo che non teme di soffrire...

Mio Signore, io purtoppo sono un povero ignorante
e del suo discorso astratto ci ho capito poco o niente,
ma anche ammesso che il coraggio mi cancelli la pigrizia,
riusciremo noi da soli a riportare la giustizia ?
In un mondo dove il male è di casa e ha vinto sempre,
dove regna il "capitale", oggi più spietatamente,
riuscirà con questo brocco e questo inutile scudiero
al "potere" dare scacco e salvare il mondo intero ?

Mi vuoi dire, caro Sancho, che dovrei tirarmi indietro
perchè il "male" ed il "potere" hanno un aspetto così tetro ?
Dovrei anche rinunciare ad un po' di dignità,
farmi umile e accettare che sia questa la realtà ?

Il "potere" è l'immondizia della storia degli umani
e, anche se siamo soltanto due romantici rottami,
sputeremo il cuore in faccia all'ingiustizia giorno e notte:
siamo i "Grandi della Mancha",
Sancho Panza... e Don Chisciotte !
(Testo di F.Gucccini, "Don Chisciotte")


PROLOGO DEL "DON CHISCIOTTE"

   Sfaccendato lettore, potrai credermi senza che te ne faccia giuramento, ch’io vorrei che questo mio libro, come figlio del mio intelletto, fosse il più bello, il più galante ed il più ragionevole che si potesse mai immaginare; ma non mi fu dato alterare l’ordine della natura secondo la quale ogni cosa produce cose simili a sè.         Che potea mai generare lo sterile e incolto mio ingegno, se non la storia d’un figlio secco, grossolano, fantastico e pieno di pensieri varii fra loro, nè da verun altro immaginati finora? E ben ciò si conviene a colui che fu generato in un carcere, ove ogni disagio domina, ed ove ha propria sede ogni sorte di malinconioso rumore.    Il riposo, un luogo delizioso, l’amenità delle campagne, la serenità dei cieli, il mormorar delle fonti, la tranquillità dello spirito, sono cose efficacissime a render feconde le più sterili Muse, affinchè diano alla luce parti che riempiano il mondo di maraviglia e di gioia. Avviene talvolta che un padre abbia un figliuolo deforme e senza veruna grazia, e l’amore gli mette agli occhi una benda, sicchè non ne vede i difetti, anzi li ha per frutti di buon criterio e per vezzi, e ne parla cogli amici come di acutezze e graziosità.
  Io però, benchè sembri esser padre, sono patrigno di don Chisciotte, nè vo’ seguir la corrente, nè porgerti suppliche quasi colle lagrime agli occhi, come fan gli altri, o lettor carissimo, affinchè tu perdoni o dissimuli le mancanze che scorgerai in questo mio figlio. E ciò tanto maggiormente perché non gli appartieni come parente od amico, ed hai un’anima tua nel corpo tuo, e il tuo libero arbitrio come ogni altro, e te ne stai in casa tua, della quale sei padrone come un principe de’ suoi tributi, e ti è noto che si dice comunemente: "sotto il mio mantello io ammazzo il re".          Tutto ciò ti disobbliga e ti scioglie da ogni umano riguardo, e potrai spiegar sulla mia storia il tuo sentimento senza riserva, e senza timore d’essere condannato per biasimarla, o d’averne guiderdone se la celebrerai.

   Vorrei per altro, o lettor mio, offrirtela pulita e ignuda, senza l’ornamento di un prologo, e spoglia dell’innumerabil caterva degli usati sonetti, epigrammi, od elogi che sogliono essere posti in fronte ai libri; e ti so dire che sebbene siami costato qualche travaglio il comporla, nulla mi diede tanto fastidio quanto il fare questa prefazione che vai leggendo.
    Più volte diedi di piglio alla penna per iscriverla, e più volte mi cadde di mano per non sapere come darle principio. Standomi un giorno dubbioso con la carta davanti, la penna nell’orecchio, il gomito sul tavolino e la mano alla guancia, pensando a quello che dovessi dire, ecco entrar d’improvviso un mio amico, uomo di garbo e di fino discernimento, il quale, vedendomi tutto assorto in pensieri, me ne domandò la cagione. Io non gliela tenni celata, ma gli dissi che stavo studiando al prologo da mettere in fronte alla storia di don Chisciotte, e ci trovavo tanta difficoltà, che m’ero deliberato di non far prologo, e quindi anche di non far vedere la luce del giorno alle prodezze di sì nobile cavaliere.

— “Come volete voi mai, soggiuns’io, che non mi tenga confuso il pensare a tutto ciò che sarà per dirne quell’antico legislatore  che chiamasi volgo, quando vegga che dopo sì lungo tempo da che dormo nel silenzio della dimenticanza, ora che ho tant’anni in groppa, esco fuori con una leggenda secca come un giunco marino, spoglia d’invenzione, misera di stile, scarsa di concetti, mancante di ogni erudizione e dottrina, senza postille al margine, e senz’annotazioni al fine del libro, di che vedo ricche le altre opere, tuttochè favolose e profane, e zeppe di sentenze di Aristotele, di Platone, e di tutto lo sciame dei filosofi, onde ne avviene che restano meravigliati i lettori, e tengono gli autori nel più gran conto di dottrina, di erudizione, di eloquenza?" (...)

   All’udir queste cose il mio amico si diede una palmata nella fronte, proruppe in un alto scoppio di ridere, e disse: "Per Bacco, fratello, che termino al presente di togliermi da un inganno in cui son vissuto da che vi conosco; giacchè vi ho tenuto mai sempre per uomo giudizioso e prudente in tutte le vostre azioni, ed ora m’avveggo che voi ne siete lontano quanto il cielo dalla terra.              Com’è mai possibile che cose di sì poco momento e di sì facile rimedio abbiano tal possa da confondere e sviare un ingegno sì maturo com’è il vostro, a cui sì agevole riesce il togliere e superare molto maggiori difficoltà? Ciò deriva in fede mia, non da mancanza di abilità, ma da infingardaggine, e da poco buon raziocinio". (...)

“Passiamo ora alla citazione degli autori dei quali sono provveduti gli altri libri, ed il vostro è affatto privo. Anche a ciò è facile assai rimediare, da che non avete che cercarne uno che tutti in sè li unisca dall’A alla Z, come voi dite, inserendo questo stesso alfabeto nel vostro libro. Che se apertamente se ne scopra la menzogna, per la poca necessità che avevate di valervene, ciò a nulla monta; e intanto ci sarà forse qualche sempliciotto che terrà per fermo esservene voi servito nella vostra naturale ed ingenua storia; e se altro vantaggio non ve ne dovesse venire, servirà almeno un così esteso catalogo ad aggiungere subito molta autorità al racconto. Io sono anzi di opinione, che non vi sarà chi si prenda la briga di riscontrare se ve ne siate sì o no valuto: e ciò tanto più perchè questo vostro libro non ha d’uopo di alcuna di quelle cose che voi dite mancargli; non contenendo esso che una invettiva contro i libri di cavalleria, dei quali non fece parola Aristotele, nulla scrisse mai san Basilio, e non n’ebbe Cicerone contezza alcuna. Di più: i suoi favolosi spropositi escludono l’impegno di starsene puntuali alla verità, o di farvi campeggiare l’astrologia, e meno ancora servono le misure geometriche o la confutazione degli argomenti dei quali si vale la rettorica. Non è di suo istituto neppure il far sermoni a chicchessia, frammischiando le divine colle umane cose, ciò che non lice ad intelletto cristiano. Basterà che metta a profitto la imitazione in ciò che andrà scrivendo, e quanto più l’imitazione si accosterà alla verità, tanto maggior conto ne troverà il suo scrittore. Poichè questa vostra opera non tende se non a distruggere il credito e l’impressione che nel mondo trovano i libri di cavalleria, non è mestieri d’andare accattando sentenze da’ filosofi, consigli dalla divina Scrittura, favole da’ poeti, orazioni da’ rettorici, e miracoli da’ santi; ma basta procurare che con ogni chiarezza, con parole significanti, oneste e ben collocate, si adorni il vostro ragionamento, vestendo un periodar sonoro e giocondo, dipingendo possibilmente quanto vi verrà a genio ed a voglia di esporre, e facendo intendere i vostri concetti senz’oscurità e senza intrico.
   Attendete con ogni studio a far sì che leggendo la vostra storia il maninconioso si muova a riso, s’accresca nell’allegro la giocondità, al semplice non venga la noia, dal giudizioso se ne ammiri la invenzione, non si spregi dall’uom posato, e le dia lode il prudente: in sostanza il vostro primo scopo sia quello di abbattere la macchina malfondata dei libri di cavalleria abborriti da tanti, ma celebrati dal maggior numero: che se tanto vi riuscirà di fare, non avrete conseguito poco.

Io me ne stava ascoltando con profondo silenzio ciò che mi si dicea dall’amico, e tanto poterono sopra di me le sue ragioni che, senza altro dire, gliele menai tutte buone: anzi le feci servire di fondamento a questo prologo, nel quale riscontrerai, o delicato lettore, il retto discernimento dell’amico mio, e la mia buona ventura nell’essermi a questi tempi avvenuto in sì utile consigliere quando trovavami irresoluto e indeciso. Tu n’avrai certo gran compiacenza nel leggere così ingenua e così pura la storia del famoso don Chisciotte della Mancia, il quale, per la fama che corre fra tutti gli abitanti del distretto del Campo di Montiello, fu l’innamorato più casto, ed il più valente cavaliere, che da tanti anni in qua comparisse in que’ dintorni; nè io voglio esagerarti il servigio che ti fo nel darti a conoscere sì celebre e onorato campione. Bramo però d’incontrare il tuo gradimento per la conoscenza che ti farò fare anche del famoso Sancio Panza suo scudiere, nel quale, a mio avviso, troverai congiunte tutte le grazie scudierili che s’incontrano sparse nella caterva degli inutili libri di cavalleria. Dio ti conservi in salute, e non mi porre in dimenticanza. Sta sano.

Don Chisciotte
https://it.m.wikisource.org/wiki/Don_Chisciotte_della_Mancia/Capitolo_I

L'AVVENTURA DEI MULINI A VENTO
https://www.liberliber.it/mediateca/libri/c/cervantes/don_chisciotte_della_mancia/html/1_08.htm
Cap.  XXXII, parte II,  dal Don Chisciotte


"Ho vendicato ingiurie, ho drizzato torti, punito temerità, vinto giganti, abbattute fantasime; sono innamorato, ma non per altro se non perch’è giocoforza di esserlo ai cavalieri erranti, ed essendolo non entro nel novero degl’innamorati viziosi, ma dei platonici continenti; sono poi diretti sempre a buon fine i miei divisamenti, che l’altrui bene hanno in veduta, nè pregiudicano alcuno. Se colui che pensa in tal modo, se colui che così opera, se colui che in questo si esercita può chiamarsi balordo, lo dicano le grandezze vostre, duca e duchessa eccellenti"

Cap. LVIII, parte II, Don Chisciotte


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Quando don Chisciotte si vide in campagna aperta, libero e sbarazzato dagli amorosi detti di Altisidora, parevagli di trovarsi nel suo centro e di sentirsi rinnovare il coraggio per proseguire le geste delle sue cavallerìe. Rivoltosi a Sancio, gli disse: — La libertà, o Sancio, è uno dei doni più preziosi dal cielo concessi agli uomini: i tesori tutti che si trovano in terra o che stanno ricoperti dal mare non le si possono agguagliare: e per la libertà, come per l’onore, si può avventurare la vita, quando per lo contrario la schiavitù è il peggior male che possa arrivare agli uomini. Io dico questo, o Sancio, perchè tu hai ben veduto co’ tuoi occhi le delizie e l’abbondanza da noi godute nel castello or ora lasciato: eppure ti assicuro che in mezzo a quei sontuosi banchetti e a quelle bevande gelate, sembravami di essere nello strettoio della fame. Io non gustava di alcuna cosa con quella soddisfazione con coi gustata l’avrei se fosse stata mia propria, mentre l’obbligo del dovere e della retribuzione ai benefizi e alle grazie ricevute sono altrettanti legami che non lasciano campeggiare l’animo libero. Beato colui cui ha dato il cielo un tozzo di pane senz’altro obbligo fuor quello di essergli grato"