La scuola di Atene

La scuola di Atene

sabato 3 dicembre 2016

IL SEICENTO

IL BAROCCO


AMLETO
L'intreccio della tragedia Amleto è fondato sul tema dello smarrimento e della vertiginosa caduta dell'anima nei suoi abissi più profondi.

Prima fase
La vicenda si svolge nel castello di Elsinore, nel regno di Danimarca.
Amleto, principe di Danimarca, ha scoperto che lo zio Claudio è l'assassino di suo padre. Claudio è salito al trono, sposando Gertrude, la vedova del re di Elsinore.
Ad Amleto  appare uno Spettro nelle stanze di Elsinore: è il padre che lo informa di essere stato vittima di un avvelenamento.
Lo Spettro chiede vendetta, ma vuole che Gertrude sia risparmiata. Amleto promette obbedienza e comincia a fingersi pazzo per evitare il sospetto che lui voglia attentare alla vita di Claudio.
Tutti credono che a turbargli la mente sia l'amore per Ofelia - la figlia del ciambellano di corte, Polonio - che egli in passato ha amato, ma che ora inspiegabilmente tratta con crudeltà.
La natura malinconica di Amleto gli impedisce di compiere prontamente la vendetta. Inoltre, il principe non è sicuro che il fantasma da lui visto sia davvero lo spettro del padre; egli teme che sia un'apparizione diabolica che lo vuole ingannare.
Lo spettatore è incerto: Amleto si finge pazzo oppure è davvero pazzo?

Seconda fase
Dal momento in cui vede lo spettro, Amleto si abbandona a varie stranezze: ripudia Ofelia senza motivo; dice cose apparentemente senza senso, ma che pure sono tutte indirizzate a suggestionare Claudio, a indurlo a tradirsi, a rivelare la propria colpa. Polonio nota che nonostante sia pazzia bell'e buona, pure c'è del metodo in essa.
L'arrivo di una compagnia di attori a Elsinore offre al principe la possibilità di capire se il racconto dello Spettro corrisponde alla verità. Amleto fa mettere in scena, dinanzi a Claudio, un  dramma che ripropone le circostanze del delitto.
Si tratta di un esempio di metateatro.
Claudio rivive la vicenda, non riesce a controllare le proprie emozioni e si tradisce, rivelando così la propria colpa. Allo stesso tempo anche Amleto lascia trapelare i suoi stati d'animo e fa capire allo zio di essere a conoscenza degli eventi che hanno portato alla morte del padre.
Sulla corte cala un clima di sospetto e di diffidenza.

Terza fase
Amleto tenta di convincere la madre a interrompere la sua relazione con Claudio: il principe è, infatti, doppiamente ferito: soffre per l'avvelenamento del padre e nutre sentimenti  di rabbia e sdegno per il tradimento della madre, che ha gli ha rovinato la vita sposando Claudio, l'assassino del padre.
Durante un'animata conversazione con Gertrude, Amleto, convinto che Claudio stia origliando dietro un arazzo, sguaina la spada e trafigge, invece, Polonio.
Claudio teme ormai l'aggressività di Amleto e tenta di sbarazzarsene inviandolo in missione in Inghilterra con due amici - Rosencratz e Guildenstern - che hanno avuto l'ordine di ucciderlo. Il gruppo viene, però, catturato dai pirati. Amleto si salva, gli altri muoiono. 
A corte Ofelia è disperata perché Amleto l'ha abbandonata e le ha anche ucciso il padre: la ragazza impazzisce, si getta in un lago e muore.

Quarta fase
Nel cimitero di Elsinore, durante il funerale di Ofelia Amleto si scontra con Laerte, intenzionato a vendicare la morte della sorella Ofelia e del padre Polonio, uccisi da Amleto.
Claudio li incita al duello: ha fornito a Laerte una spada avvelenata, come avvelenato è il vino con cui tutti brinderanno per celebrare il vincitore della prova d'armi.
Comincia il duello e, mentre questo si svolge, la regina chiede da bere, ma usa la coppa di vino avvelenata. I duellanti intanto si scambiano più volte i fioretti cosicché ognuno si ferisce con quello avvelenato. La prima a soccombere è la regina. Poi, dopo aver svelato la trama ordita da Claudio, muore Laerte per il veleno sulla punta del fioretto. La furia del principe si abbatte allora sul re che, trafitto da Amleto con la spada avvelenata, muore.

Amleto è in fin di vita quando l'amico Orazio gli annuncia che Fortebraccio è appena tornato vittorioso dalla Polonia, dove ha recuperato con il suo esercito, le terre perse in duello con il padre di Amleto. Amleto allora lo propone come nuovo re, gli affida il regno e muore. Fortebraccio, giunto quindi al castello, sale sul trono e dispone grandi funerali per il defunto principe.



Monologo di Amleto 
Essere, o non essere, questo è il dilemma: se sia più nobile nella mente soffrire i colpi di fionda e i dardi dell’oltraggiosa fortuna o prendere le armi contro un mare di affanni e, contrastandoli, porre loro fine? Morire, dormire… nient’altro, e con un sonno dire che poniamo fine al dolore del cuore e ai mille tumulti naturali di cui è erede la carne: è una conclusione da desiderarsi devotamente. Morire, dormire. Dormire, forse sognare. Sì, qui è l’ostacolo, perché in quel sonno di morte quali sogni possano venire dopo che ci siamo cavati di dosso questo groviglio mortale, deve farci riflettere. È questo lo scrupolo che dà alla sventura una vita così lunga. Perché chi sopporterebbe le frustate e gli scherni del tempo, il torto dell’oppressore, la contumelia dell’uomo superbo, gli spasimi dell’amore disprezzato, il ritardo della legge, l’insolenza delle cariche ufficiali, e il disprezzo che il merito paziente riceve dagli indegni, quando egli stesso potrebbe darsi quietanza con un semplice stiletto? Chi porterebbe fardelli, grugnendo e sudando sotto il peso di una vita faticosa, se non fosse che il terrore di qualcosa dopo la morte, il paese inesplorato dalla cui frontiera nessun viaggiatore fa ritorno, sconcerta la volontà e ci fa sopportare i mali che abbiamo piuttosto che accorrere verso altri che ci sono ignoti? Così la coscienza ci rende tutti codardi, e così il colore naturale della risolutezza è reso malsano dalla pallida cera del pensiero, e imprese di grande altezza e momento per questa ragione devìano dal loro corso e perdono il nome di azione. 
(W. Shakespeare, "Amleto", atto III, scena I)


LO SMARRIMENTO ESISTENZIALE
Lo strappo nel cielo di carta
La  tragedia d’Oreste in un teatrino di marionette! – venne ad annunziarmi il signor Anselmo Paleari. – Marionette automatiche, di nuova invenzione. Stasera, alle ore otto e mezzo, in via dei Prefetti, numero cinquantaquattro. Sarebbe da andarci, signor Meis”.
“La tragedia d’Oreste?”
“Già! D’après Sophocle, dice il manifestino. Ora senta un po’  che bizzarria mi viene in mente ! Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? Dica lei”.
“Non saprei”, - risposi, stringendomi ne le spalle. 
“Ma è facilissimo, signor Meis! Oreste rimarrebbe terribilmente sconcertato da quel buco nel cielo”.
“E perché?”
“Mi lasci dire. Oreste sentirebbe ancora gl’impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì, a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi si penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta”.
E  se ne andò ciabattando.
Dalle vette nuvolose delle sue astrazioni il signor Anselmo lasciava spesso precipitar così, come valanghe, i suoi pensieri. La ragione, il nesso, l’opportunità di essi rimanevano lassù, tra le nuvole, dimodoché difficilmente a chi lo ascoltava riusciva di capirci qualche cosa.
L’immagine della marionetta d’Oreste sconcertata dal buco nel cielo mi rimase tuttavia un pezzo nella mente. A un certo punto: ”Beate le marionette,” sospirai, “su le cui teste di legno il finto cielo si conserva senza strappi! Non perplessità angosciose, né ritegni, né intoppi, né ombre, né pietà: nulla! E possono attendere bravamente e prender gusto alla loro commedia e amare e tener se stesse in considerazione e in pregio, senza soffrir mai vertigini o capogiri, poiché per la loro statura e per le loro azioni quel cielo è del tutto proporzionato.

Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal, in Tutti i romanzi, a c.. di G: Macchia, Milano, Mondatori, 1973, cap. XII.  Prima edizione su “La Nuova Antologia”,  aprile – giugno 1904


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LA POESIA BAROCCA E MARINO
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GIAMBATTISTA MARINO, L'ADONE (l. VIII)

11
Sembra il felice e dilettoso loco 
pien d’angelica festa un Paradiso.
Spira quivi il Sospiro aure di foco,
vaneggia il Guardo e lussureggia il Riso.
Corre a baciarsi con lo Scherzo il Gioco.
Stassi il Diletto in grembo al Vezzo assiso.
Scaccia lunge il Piacer con una sferza
le gravi Cure e col Trastullo scherza.
(...)
18
Ride la terra qui, cantan gli augelli, 
danzano i fiori e suonano le fronde,
sospiran l’aure e piangono i ruscelli,
ai pianti, ai canti, ai suoni Eco risponde.
Aman le fere ancor tra gli arboscelli,
amano i pesci entro le gelid’onde,
le pietre istesse e l’ombre di quel loco
spirano spirti d’amoroso foco.

19
- A Dio, ti lascio; omai fin qui (di Giove 
disse là giunto il messaggier sagace)
per ignote contrade ed a te nove
averti scorto, o bell’Adon, mi piace.
Eccoci alfine insu’l confin, là dove
ogni guerra d’amor termina in pace.
Di quel senso gentil questa è la sede,
a cui sol di certezza ogni altro cede.

20
Ogni altro senso può ben di leggiero 
deluso esser talor da’ falsi oggetti;
questo sol no lo qual sempr’è del vero
fido ministro, e padre de’ diletti.

(...)




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LEONARDO DA VINCI
"LA SAPIENZA E' FIGLIOLA DELLA SPERIENZA"
 (Codice Forster III)

BACONE E L'UTOPIA DELLA NUOVA ATLANTIDE
http://www.loescher.it/librionline/risorse_ilpensieroplurale/download/oltremanuale/utopia/Bacone.htm
Dio ti benedica, figlio mio. Io ti darò la gemma più preziosa che possiedo: ti svelerò infatti, per amore di Dio e degli uomini, la vera organizzazione della Casa di Salomone. E per fartela conoscere, figlio mio, seguirò quest’ordine: in primo luogo ti rivelerò il fine della nostra istituzione; in secondo luogo i mezzi e gli strumenti che possediamo per i nostri lavori; in terzo luogo i diversi impieghi e funzioni assegnati a ciascuno dei nostri fratelli; in quarto luogo infine le norme e i riti che osserviamo.

«Fine della nostra istituzione è la conoscenza delle cause e dei segreti movimenti delle cose per allargare i confini del potere umano verso la realizzazione di ogni possibile obiettivo.
«I mezzi e gli strumenti sono i seguenti: abbiamo ampie caverne più o meno profonde, le più profonde nelle quali si addentrano nella terra fino a seicento cubiti. [...] Chiamiamo queste caverne “regioni inferiori” e ce ne serviamo per esperienze di coagulazione, indurimento, refrigerazione e conservazione dei corpi. Ne usiamo anche, a imitazione delle miniere naturali, per la produzione di nuovi metalli artificiali mediante la combinazione di vari materiali ivi giacenti da moltissimi anni. Ma ti stupirà molto sapere che usiamo talvolta queste caverne anche per la cura di certe malattie e per esperienze sul prolungamento della vita che facciamo su alcuni eremiti che hanno scelto di vivere laggiù. [...]
«Possediamo inoltre alte torri, la più alta delle quali misura un mezzo miglio. Alcune di esse sorgono su alte montagne cosicché, sommando l’altezza della torre con quella della montagna, si raggiunge, nella torre più alta, l’altezza di tre miglia. Chiamiamo questi posti “regioni superiori”, considerando l’aria compresa fra le regioni alte e le basse come “regione intermedia”. Ci serviamo di queste torri, in relazione alle loro diverse altezze e posizioni, per esperimenti di insolazione, di refrigerazione e di conservazione e per l’osservazione dei fenomeni atmosferici come i venti, le piogge, la neve, la grandine e i meteoriti ignei. Anche su qualcuna di queste torri vivono degli eremiti che visitiamo ogni tanto istruendoli sulle osservazioni che debbono compiere. [...]

Abbiamo anche case grandi e spaziose, dove imitiamo e riproduciamo i fenomeni meteorologici, come la neve, la grandine, la pioggia, le piogge artificiali di corpi non acquosi, i tuoni e i fulmini. In queste case sperimentiamo anche la generazione aerea di animali come le rane, le mosche e molti altri.

«Disponiamo anche di alcune stanze che chiamiamo camere di salute dove condizioniamo l’aria per renderla salubre e adatta alla cura di varie malattie e alla conservazione della salute. [...]

«Abbiamo costruito poi grandi frutteti e giardini dalle diverse colture, nei quali non guardiamo tanto alla bellezza quanto alla varietà del terreno e alla sua idoneità alla coltivazione di piante ed erbe diverse: in alcuni di essi, molto spaziosi, crescono, oltre ai vigneti, alberi e arbusti fruttiferi con i quali prepariamo diversi tipi di bevande. Qui pratichiamo una serie di esperimenti di innesti e inoculazioni, sia su piante selvatiche sia su piante da frutta, e otteniamo importanti risultati. In questi stessi frutteti e giardini facciamo nascere artificialmente piante e fiori più presto o più tardi della stagione in cui esse nascerebbero naturalmente e li facciamo fiorire e fruttificare più rapidamente del normale. Siamo in grado anche di ottenere piante molto più grandi delle normali, e i frutti di queste piante sono più grandi, più dolci e differenti di gusto, profumo, colore e forma dagli altri della specie originaria. E molti di questi frutti così trattati acquistano virtù medicinali. 

«Conosciamo anche dei sistemi per far nascere, mediante combinazioni di terreni, varie piante senza semi, per produrre nuove specie di piante diverse dalle comuni e infine per trasformare una pianta in un’altra.

«Disponiamo anche di parchi e di recinti per animali e uccelli di ogni tipo, i quali ci servono non tanto come spettacolo curioso, quanto per esperimenti di dissezione, mediante i quali gettiamo luce sugli studi intorno al corpo umano. In questo campo abbiamo raggiunto straordinari risultati, come la continuazione della vita quando diversi organi, che voi considerate vitali, sono morti e asportati, la resurrezione di corpi che all’apparenza sembrano morti e così via. Esperimentiamo anche su di essi veleni e medicinali e li sottoponiamo a cure mediche e a esperimenti chirurgici. Riusciamo a renderli artificialmente più grossi o più alti degli altri membri della loro specie, o viceversa più piccoli, arrestando il loro sviluppo. Li rendiamo più fecondi e prolifici del normale oppure sterili e infecondi. Possiamo variarne il colore, la forma, le attività. Riusciamo a fare incroci e accoppiamenti diversi che generano nuove specie e non sono infecondi come reputa l’opinione comune. Otteniamo numerose specie di serpenti, vermi, insetti e pesci da sostanze in putrefazione e alcuni di questi animali sono arrivati a essere creature perfette come gli animali e gli uccelli: provvisti di sesso e capaci di propagarsi. E nulla di tutto ciò avviene per caso giacché sappiamo in antecedenza quale specie di creatura nascerà da una determinata materia o incrocio. [...]

«Trattiamo anche le acque in modo tale da renderle nutrienti e così piacevoli che molti non usano altra bevanda. Abbiamo pane confezionato con varie specie di grano, di radici e di ghiande e perfino con carne e con pesce essiccato, con vari tipi di lieviti e condimenti in modo da renderlo al massimo grado appetitoso; alcuni di questi pani sono così nutrienti che molti vivono solo di essi senza bisogno di alcun altro cibo e raggiungono età assai avanzate. [...]

«Conosciamo anche diverse arti meccaniche a voi ignote e, con esse otteniamo prodotti come carta, tela, seta, tessuti, eleganti lavori realizzati con lucenti piume, ottime tinture e molti altri prodotti. [...]

Riusciamo a colorare la luce e a compiere ogni sorta di inganni e illusioni ottiche nelle figure, grandezze, movimenti e colori e a proiettare ogni genere di ombre. Abbiamo sistemi, a voi ancora sconosciuti, per produrre da corpi diversi una originaria sorgente di luce. Ci siamo procurati mezzi per vedere gli oggetti lontani nel cielo e nei luoghi più remoti e per fare apparire lontane cose vicine e viceversa, come costruendo distanze fittizie. Possediamo anche aiuti per la vista assai migliori delle vostre lenti e dei vostri occhiali. Abbiamo lenti e strumenti per vedere perfettamente e distintamente i corpi più minuti, come le forme e i colori di piccoli insetti o vermi, la grana o le venature nelle gemme, la composizione dell’urina e del sangue, altrimenti invisibili. [...] 

«Abbiamo costruito anche “Case dei suoni” dove facciamo esperimenti su tutti i suoni e sulla loro generazione. Conosciamo armonie a voi sconosciute di quarti di toni e di passaggi ancora minori. [...] Imitiamo e riproduciamo tutti i suoni articolati, le lettere, le voci e le note degli animali e degli uccelli. Abbiamo strumenti che, applicati all’orecchio, rafforzano l’udito, e anche diversi echi strani e artificiali che ripetono le voci varie volte come ripercuotendosi. Alcuni di questi echi respingono le voci più forti e acute; altri più profonde; mentre altri ancora le rimandano diverse nel tono e nel timbro. Possiamo infine trasmettere i suoni a distanza mediante tubi e condotti che corrono rettilinei o tortuosamente. [...]

«Abbiamo poi le “Case dei profumi” nelle quali compiamo esperimenti sul gusto e ove riusciamo (cosa molto strana a credersi) a moltiplicare gli odori. Riusciamo a imitare i profumi traendoli da misture diverse da quelle che li producono abitualmente. Possiamo imitare i sapori così perfettamente da poter ingannare il gusto di qualunque uomo. [...]

«Abbiamo inoltre officine meccaniche dove fabbrichiamo macchine e strumenti per ogni genere di movimenti: qui facciamo esperimenti per realizzare moti più veloci di quelli che voi avete realizzato sia con le vostre bocche da fuoco sia con qualunque altra vostra macchina e per realizzare il movimento e moltiplicarlo, servendoci di deboli forze, mediante ingranaggi e altri sistemi e infine per rendere questi moti più forti e potenti dei vostri. [...] 

«Imitiamo il volo degli uccelli e riusciamo entro certi limiti a librarci nell’aria. Abbiamo navi e imbarcazioni per navigare sott’acqua e per resistere alle tempeste marine, e cinture di sicurezza e congegni per reggersi a galla. Possediamo diversi strani orologi, strumenti che si muovono in modo ricorrente, e altri capaci di moto perpetuo. [...]

«Possediamo una “Casa della matematica” dove si conservano tutti gli strumenti perfettamente costruiti, necessari alla geometria e all’astronomia.

«Abbiamo infine le “Case per gli inganni dei sensi” ove compiamo ogni specie di giochi di prestigio, di false apparizioni, di illusioni, di imposture con i relativi inganni. Potrai certo capire facilmente come noi, che possediamo tante cose che, pur essendo perfettamente naturali, generano stupore, potremmo in molti casi particolari ingannare i sensi, se volessimo mascherare queste cose e farle apparire miracolose».

La Nuova Atlantide, in Scritti filosofici, a cura di P. Rossi, Torino, Utet, 1975, pp. 857-62.



GALILEO






"IL MONDO SENSIBILE"

CONTRO "IL MONDO DI CARTA"

G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo

SECONDA GIORNATA

Simplicio
Io vi confesso che tutta questa notte sono andato ruminando le cose di ieri, e veramente trovo di molte belle nuove e gagliarde considerazioni; con tutto ciò mi sento stringer assai piú dall’autorità di tanti grandi scrittori, ed in particolare... Voi scotete la testa, signor Sagredo, e sogghignate, come se io dicessi qualche grande esorbitanza.

Sagredo
Io sogghigno solamente, ma crediatemi ch’io scoppio nel voler far forza di ritener le risa maggiori, perché mi avete fatto sovvenire di un bellissimo caso, al quale io mi trovai presente non sono molti anni, insieme con alcuni altri nobili amici miei, i quali vi potrei ancora nominare.

Salviati
Sarà ben che voi ce lo raccontiate, acciò forse il signor Simplicio non continuasse di creder d’avervi esso mosse le risa.

Sagredo
Son contento. Mi trovai un giorno in casa un medico molto stimato in Venezia, dove alcuni per loro studio, ed altri per curiosità, convenivano tal volta a veder qualche taglio di notomia per mano di uno veramente non men dotto che diligente e pratico notomista. Ed accadde quel giorno, che si andava ricercando l’origine e nascimento de i nervi, sopra di che è famosa controversia tra i medici galenisti ed i peripatetici; e mostrando il notomista come, partendosi dal cervello e passando per la nuca, il grandissimo ceppo de i nervi si andava poi distendendo per la spinale e diramandosi per tutto il corpo, e che solo un filo sottilissimo come il refe arrivava al cuore, voltosi ad un gentil uomo ch’egli conosceva per filosofo peripatetico, e per la presenza del quale egli aveva con estraordinaria diligenza scoperto e mostrato il tutto, gli domandò s’ei restava ben pago e sicuro, l’origine de i nervi venir dal cervello e non dal cuore; al quale il filosofo, doppo essere stato alquanto sopra di sé, rispose: "Voi mi avete fatto veder questa cosa talmente aperta e sensata, che quando il testo d’Aristotile non fusse in contrario, che apertamente dice, i nervi nascer dal cuore, bisognerebbe per forza confessarla per vera".

Simplicio
Signori, io voglio che voi sappiate che questa disputa dell’origine de i nervi non è miga cosí smaltita e decisa come forse alcuno si persuade.

Sagredo
Né sarà mai al sicuro, come si abbiano di simili contradittori; ma questo che voi dite non diminuisce punto la stravaganza della risposta del Peripatetico, il quale contro a cosí sensata esperienza non produsse altre esperienze o ragioni d’Aristotile, ma la sola autorità ed il puro ipse dixit.

(…)

Simplicio
Io credo, e in parte so, che non mancano al mondo de’ cervelli molto stravaganti, le vanità de’ quali non dovrebbero ridondare in pregiudizio d’Aristotile, del quale mi par che voi parliate talvolta con troppo poco rispetto; e la sola antichità, e ’l gran nome che si è acquistato nelle menti di tanti uomini segnalati, dovrebbe bastar a renderlo riguardevole appresso di tutti i letterati.

Salviati
Il fatto non cammina cosí, signor Simplicio: sono alcuni suoi seguaci troppo pusillanimi, che danno occasione, o, per dir meglio, che darebbero occasione, di stimarlo meno, quando noi volessimo applaudere alle loro leggereze. E voi, ditemi in grazia, sete cosí semplice che non intendiate che quando Aristotile fusse stato presente a sentir il dottor che lo voleva far autor del telescopio, si sarebbe molto piú alterato contro di lui che contro quelli che del dottore e delle sue interpretazioni si ridevano? Avete voi forse dubbio che quando Aristotile vedesse le novità scoperte in cielo, e’ non fusse per mutar opinione e per emendar i suoi libri e per accostarsi alle piú sensate dottrine, discacciando da sé quei cosí poveretti di cervello che troppo pusillanimamente s’inducono a voler sostenere ogni suo detto, senza intendere che quando Aristotile fusse tale quale essi se lo figurano, sarebbe un cervello indocile, una mente ostinata, un animo pieno di barbarie, un voler tirannico, che, reputando tutti gli altri come pecore stolide, volesse che i suoi decreti fussero anteposti a i sensi, alle esperienze, alla natura istessa? Sono i suoi seguaci che hanno data l’autorità ad Aristotile, e non esso che se la sia usurpata o presa; e perché è piú facile il coprirsi sotto lo scudo d’un altro che ’l comparire a faccia aperta, temono né si ardiscono d’allontanarsi un sol passo, e piú tosto che mettere qualche alterazione nel cielo di Aristotile, vogliono impertinentemente negar quelle che veggono nel cielo della natura.
(…)
Simplicio
Ma quando si lasci Aristotile, chi ne ha da essere scorta nella filosofia? nominate voi qualche autore
Salviati
Ci è bisogno di scorta ne i paesi incogniti e selvaggi, ma ne i luoghi aperti e piani i ciechi solamente hanno bisogno di guida; e chi è tale, è ben che si resti in casa, ma chi ha gli occhi nella fronte e nella mente, di quelli si ha da servire per iscorta. Né perciò dico io che non si deva ascoltare Aristotile, anzi laudo il vederlo e diligentemente studiarlo, e solo biasimo il darsegli in preda in maniera che alla cieca si sottoscriva a ogni suo detto e, senza cercarne altra ragione, si debba avere per decreto inviolabile; il che è un abuso che si tira dietro un altro disordine estremo, ed è che altri non si applica piú a cercar d’intender la forza delle sue dimostrazioni. E qual cosa è piú vergognosa che ’l sentir nelle publiche dispute, mentre si tratta di conclusioni dimostrabili uscir un di traverso con un testo, e bene spesso scritto in ogni altro proposito, e con esso serrar la bocca all’avversario? Ma quando pure voi vogliate continuare in questo modo di studiare, deponete il nome di filosofi, e chiamatevi o istorici o dottori di memoria; ché non conviene che quelli che non filosofano mai, si usurpino l’onorato titolo di filosofo. Ma è ben ritornare a riva, per non entrare in un pelago infinito, del quale in tutt’oggi non si uscirebbe. Però, signor Simplicio, venite pure con le ragioni e con le dimostrazioni, vostre o di Aristotile, e non con testi e nude autorità, perché i discorsi nostri hanno a essere intorno al mondo sensibile, e non sopra un mondo di carta. 

Sagredo e l'elogio dell'intelligenza umana
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B. BRECHT, VITA DI GALILEO

Dalla via si ode un banditore leggere l'abiura di Galileo.

VOCE DEL BANDITORE « Io, Galileo Galilei, lettore di matematiche nell'Università di Firenze, pubblicamente abiuro la mia dottrina che il sole è il centro del mondo e non si muove,
e che la terra non è il centro del mondo e si muove. Con cuor sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto i suddetti errori ed eresie, e qualunque altro errore, eresia e setta contraria alla Santa Chiesa ».

La scena si oscura. Quando torna la luce, si odono ancora i rintocchi della campana, che però cessano
subito. Virginia è uscita; i tre discepoli di Galileo sono sempre in scena.

FEDERZONI Non t'ha mai pagato decentemente per il tuo lavoro! Non sei mai riuscito a pubblicare un libro tuo, e neanche a comprarti un paio di calzoni. Ecco il bel guadagno che hai fatto a « lavorare per la scienza »!
ANDREA (forte) Sventurata la terra che non ha eroi!

Galileo è entrato. Il processo lo ha trasformato radicalmente, fin quasi a renderlo irriconoscibile. Ha udito le parole di Andrea. Per alcuni istanti si ferma sulla soglia, aspettando un saluto. Ma poiché nessuno lo saluta, anzi i discepoli si allontanano da lui, egli avanza lentamente, col passo incerto di chi ci vede male, fino al proscenio; qui trova uno sgabello e si siede.

ANDREA Non posso guardarlo. Fatelo andar via.
FEDERZONI Sta' calmo.
ANDREA (grida a Galileo) Otre da vino! Mangialumache! Ti sei salvata la pellaccia, eh? (Si siede) Mi sento male. 
GALILEO (calmo) Dategli un bicchier d'acqua.

Frate Fulgenzio esce e rientra portando un bicchier d'acqua ad Andrea. Nessuno mostra di accorgersi
della presenza di Galileo, che siede in silenzio, nell'atto di ascoltare. Giunge di nuovo, da più lontano, il grido del banditore.

ANDREA Adesso riesco a camminare, se mi aiutate un po'.

Gli altri due lo sorreggono fino all'uscita. In questo momento Galileo incomincia a parlare.

GALILEO No. Sventurata la terra che ha bisogno di eroi.
(B. Brecht, Vita di Galileo, scena XIII)



L'AUTOCRITICA DI GALILEO
 Se gli uomini di scienza non reagiscono all’intimidazione dei potenti egoisti e si limitano ad accumulare sapere per sapere, la scienza può rimanere fiaccata per sempre, ed ogni nuova macchina non sarà che fonte di nuovi triboli per l’uomo. E quando, coll’andar del tempo avrete scoperto tutto lo scopribile, il vostro progresso non sarà che un progressivo allontanarsi dall’umanità. Tra voi e l’umanità può scavarsi un abisso così grande, che ad ogni vostro eureka rischierebbe di rispondere un grido di dolore universale… Nella mia vita di scienziato ho avuto una fortuna senza pari: quella di vedere l’astronomia dilagare sulle pubbliche piazze. In circostanze così straordinarie, la fermezza di un uomo poteva produrre grandissimi rivolgimenti. Se io avessi resistito, i naturalisti avrebbero potuto sviluppare qualcosa di simile a ciò che per i medici è il giuramento d’Ippocrate: il voto solenne di far uso della scienza ad esclusivo vantaggio dell’umanità. Così stando le cose, il massimo in cui si può sperare è una progenie di gnomi inventivi, pronti a farsi assoldare per qualsiasi scopo. Ho tradito la mia professione; e quando un uomo ha fatto ciò che ho fatto io la sua presenza non può essere tollerata nell’ambito della scienza. 
(Bertolt Brecht, Vita di Galileo, scena XIV, Einaudi, Torino 1963, , pp. 124-126)

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Calderón de la Barca, La vita è sogno

Monologo di Sigismondo

E' vero, sì, reprimiamo 
questa fiera condizione 
quest’ira, questa ambizione,
perché poi, forse, sogniamo;
ed ormai so che esistiamo
in un mondo singolare
dove vivere è sognare.
L'esperienza mi ha insegnato
che l'uomo che vive sogna 
fino a quando si ridesta.
Il re sogna di essere re
e così nell’inganno vive comandando,
disponendo e governando;
e l'applauso che riceve
in prestito, lo scrive nel vento,
e la morte in cenere lo converte.
Sventura immensa!
Chi ancora vorrà regnare,
dovendosi ridestare
nel sonno della morte?
Il ricco sogna le sue ricchezze
che gli procurano continui affanni;
sogna il povero che soffre
la sua miserabile povertà;
sogna chi agli agi s’avvezza;
sogna chi si affanna a correre dietro agli onori;
sogna chi ferisce e offende.
Sogna ognuno la passione
ch’egli vive, e non lo intende.
Io sogno la prigionia
che mi tiene qui legato
 e sognai che un altro stato
mi rendeva l’allegria.
 Che è la vita? Frenesia.
Che è la vita? Un'illusione,
solo un'ombra, una finzione.
E il più grande dei beni è ben poca cosa,
la vita è un sogno, e i sogni sogni sono.
(Calderón de la Barca, La vita è sogno, atto II, scena diciannovesima, vv. 1162-1201)




giovedì 10 novembre 2016

CERVANTES

MIGUEL DE CERVANTES SAAVEDRA Nacque in Alcalá de Henares. Morì a Madrid il 23 aprile 1616. Della sua vita si possono segnare soltanto i momenti salienti: vita di travaglio, consumata tra vicende avverse, nell'assillante lotta per l'esistenza e in vane aspirazioni verso miraggi ideali.
Suo padre, medico pratico senza diploma, lo trasse dietro di sé insieme con la numerosa famiglia nelle sue peregrinazioni da Alcalá de Henares a Valladolid (1554), da Madrid (1561) a Siviglia (1564-65) e quindi nuovamente a Madrid (1566-68). La sua fu, dunque, una giovinezza errante. Anche dopo continuarono i viaggi, come cortigiano e poi come soldato. Soggiornò a lungo in Italia, in un periodo di fermento culturale: dalla lettura del Furioso trae origine, forse, l'interesse per la materia cavalleresca.
Partecipò alla battaglia di Lepanto (7 ottobre 1571). Sebbene febbricitante volle combattere e, ai fianchi della sua galera, su un battello con dodici uomini ai suoi ordini, si lanciò nella mischia. Ebbe due ferite d'archibugio al petto e un'altra alla mano sinistra, che gli rimase rovinata per sempre. Ricordo di sangue e di gloria, che lo esalterà sulle oscure e mediocri vicende della sua umile vita.
A Messina, dove la flotta fece ritorno (30 ottobre), trascorse la convalescenza. Non appena guarito entrò (29 aprile 1572) partecipò alla spedizione di Corfù, all'assedio di Navarino (luglio-agosto 1572), all'occupazione di Tunisi (10 ottobre 1573) e al tentativo di liberare la Goletta (1574). 
Catturato da pirati turchi, venne poi liberato da religiosi spagnoli che pagano il riscatto.
Tornato finalmente in Spagna, non ottiene, però, i riconoscimenti sperati e le ricompense per l'eroismo mostrato come soldato e prigioniero cristiano; il suo ritorno si rivela segnato dall'indifferenza, dalle ristrettezze economiche e dall'umiliazione.
Trova impiego come commissario di vettovagliamento per l'Invincibile Armada e poi come riscossore delle imposte: viene accusato di sequestro di beni privati anche a danno di ecclesiastici e subisce la scomunica; il banchiere presso cui deposita i soldi delle riscossioni d'imposta, fallisce e scappa con il denaro. Cervantes finisce in carcere a Siviglia, dove entra in contatto con gli ambienti malavitosi della città. Probabilmente in carcere inizia l stesura del Don Chisciotte.
La sua storia privata permette a Cervantes di decifrare l'immagine del suo tempo segnato dal disorientamento e da una profonda crisi: la scomparsa del grande impero spagnolo a vantaggio di potenze europee più moderne, come l'Inghilterra; il crollo delle grandi certezze rinascimentali e l'inizio di un'epoca di profondo smarrimento dopo la rivoluzione copernicana. Si tratta di condizioni che mettono in crisi la tradizionale concezione dell'eroe. 

DON CHISCIOTTE
Il Don Chisciotte della Mancia si divide in due sezioni: una prima, scritta intorno agli anni che vanno dal 1598 al 1604; l’altra, la seconda, che venne pubblicata solo nel 1615. Le avventure vedono come protagonista un hidalgo della Mancia che, da appassionato lettore di romanzi cavallereschi, inizia a non saper più distinguere la realtà dalla finzione. È così che, innalzatosi a paladino di giustizia, pace, difesa degli oppressi e dei più alti valori, si convince di essere un cavaliere errante e prende la decisione di mettersi alla ricerca di nuove avventure per proteggere i più deboli.

Assunto il nome di Don Chisciotte il cavaliere esce in sella al suo ronzino, ribattezzato Ronzinante, e dà il via alle proprie imprese: gli esiti, però, si rivelano sin dal principio fallimentari e, picchiato e ammaccato, Don Chisciotte è costretto a tornare a casa.


Una volta guarito, il cavaliere non si dà per vinto: Don Chisciotte torna a casa e decide di ingaggiare uno scudiero, ricordandosi che nessun cavaliere che si rispetti ne ha mai potuto fare a meno: la sua scelta ricade quindi su un ignorante popolano, Sancio Panza, il quale viene convinto con la promessa di poter governare un’intera isola una volta terminate le avventure. Don Chisciotte intraprende imprese che puntualmente si trasformano in disfatte.

Subito don Chisciotte si lancia contro i mulini a vento, che nella sua distorsione della realtà sono terribili giganti da sconfiggere: l’impresa finisce ingloriosamente quando don Chisciotte si schianta contro un mulino e frana a terra insieme con il suo cavallo. Il viaggio di Don Chisciotte e Sancho Panza riprende, e quando incontrano una brigata che accompagna una dama a Siviglia, Don Chisciotte, credendo che la nobildonna sia stata rapita dal suo seguito, cerca di liberarla. Don Chisciotte e Sancho si fermano poi in una modesta osteria, che il protagonista scambia ancora una volta per un castello, conversando con le cameriere, che per lui sono nobili e leggiadre figure femminili. Il protagonista attacca poi un gregge di pecore,che ai suoi occhi assume le dimensioni di un pericoloso esercito, finendo per essere picchiato dai pastori e col perdere due denti. Quando invece incrociano sul loro cammino un funerale, Don Chisciotte scambia il feretro per un cavaliere suo pari ferito e attacca i partecipanti al funerale che, terrorizzati, scappano. Sancho Panza, dopo tutte queste peripezie, assegna al suo padrone il soprannome di “Cavaliere dalla triste figura” e Don Chisciotte apprezzando l’epiteto disegna un personaggio triste come simbolo per il proprio scudo.

Don Chisciotte decide di recuperare il celebre elmo di Mambrino: conquisterà invece gli utensili di un barbiere, liberando poco dopo alcuni carcerati incatenati. Infine, stanco dopo tante imprese, don Chisciotte decide di ritirarsi nei boschi in solitudine e penitenza e manda Sancho da Dulcinea con una missiva d’amore. Sancho, per tranquillizzare don Chisciotte, si inventa che la missione sia andata a buon fine, mentre il curato e il barbiere del paese partono alla ricerca del protagonista, per riportarlo nuovamente a casa.  

La seconda parte del romanzo  è caratterizzata da una novità sostanziale: i protagonisti sono consapevoli della follia di don Chisciotte, che quindi diventa spesso oggetto di un esplicito inganno architettato dagli altri personaggi. Cervantes dà na sfumatura tragica al proprio personaggio, vittima inconsapevole delle trame degli altri personaggi.

La storia si apre con il protagonista che, pur assistito da una governante e dalla nipote, riesce a fuggire di casa e a ripartire all’avventura con Sancho. Per prima cosa i due si recano al Toboso, per incontrare l’amata Dulcinea. Ma in paese naturalmente non c’è nessun castello, così Sancho architetta un inganno per accontentare il suo signore, conducendo Don Chisciotte in un bosco e dicendogli che di lì a poco arriverà la sua Dulcinea. Don Chisciotte vede in realtà solo tre semplici contadine, ma Sancho, semplice ma arguto, risponde che ad uno sguardo più attento il cavaliere potrà notare che quella è la sua elegantissima principessa. Fidandosi della parola di Sancho Panza, don Chisciotte si convince di essere sotto l’incantesimo di quegli incantatori che nella sua immaginazione sempre lo perseguitano mistificando la realtà di fronte ai suoi. Nel frattempo Sansone Carrasco, studente e amico di Don Chisciotte, escogita uno stratagemma per far tornare a casa l’amico. Sansone si presenta infatti come il Cavaliere degli Specchi e sfida don Chisciotte a duello, ponendo la clausula che il vinto avrebbe dovuto obbedire al vincitore. Don Chisciotte, che ha sempre perduto ogni incontro, per un caso fortuito vince: nonostante le buone intenzioni di Carrasco la sua avventura è quindi destinata a continuare. 

Don Chisciotte e Sancho Panza riprendono quindi il cammino e incrociano un nobiluomo e sua moglie che, conoscendo la prima parte della sua storia, lo riconoscono e li invitano presso il loro castello. Duca e duchessa, in realtà, vogliono prendersi gioco di don Chisciotte e allestiscono a loro danno una messinscena con personaggi mascherati e incantamenti. Tra i vari inganni, inventano la storia di un mago, Malabruno, che avrebbe reso barbute la contessa Trifaldi e le sue dodici dame di compagnia. Don Chisciotte viene così convinto a sconfiggere Malabruno in sella al cavallo alato Clavilegno, che, come suggerisce il nome, è un destriero di legno al quale sono stati collegati dei petardi. Don Chisciotte e Sancho Panza vi salgono bendati ma poco dopo i mortaretti esplodono e i due finiscono stesi per terra. Don Chisciotte ha comunque portato a termine la missione, dato che il fantomatico mago è sconfitto. Il duca assegna in ricompensa il governatorato dell’isola di Baratteria a Sancho Panza, il quale, però, preferisce restare con Don Chisciotte. Don Chisciotte e Sancho Panza si dirigono allora verso Barcellona, ma sulla strada di nuovo vengono raggiunti da Sansone Carrasco, questa volta nei panni del Cavaliere della Bianca Luna, determinato a riportare a casa l’amico. Lo sfida così a dire che vi è una donna più bella di Dulcinea e costei è la sua dama. I due si trovano nuovamente a duellare con la medesima clausula: il vinto si dovrà sottomettere al volere del vincitore. Simone Carrasco questa volta vince e riesce così a riportare a casa Don Chisciotte.

Una volta a casa Don Chisciotte cade preda di una forte febbre: dopo sei giorni a letto il cavaliere errante si sveglia da un sonno di sei ore invocando la propria morte e sostenendo di aver ritrovato il senno. Don Chisciotte quindi si confessa e, poco dopo, muore.




http://www.letteratura.rai.it/articoli/marco-lodoli-tra-dostoevskij-e-cervantes/83/default.aspx

LA LETTURA DI FRANCESCO GUCCINI: UNA CANZONE COME TESTO CRITICO



Ho letto millanta storie di cavalieri erranti,
di imprese e di vittorie dei giusti sui prepotenti
per starmene ancora chiuso coi miei libri in questa stanza
come un vigliacco ozioso, sordo ad ogni sofferenza.
Nel mondo oggi più di ieri domina l'ingiustizia,
ma di eroici cavalieri non abbiamo più notizia;
proprio per questo, Sancho, c'è bisogno soprattutto
d'uno slancio generoso, fosse anche un sogno matto:
vammi a prendere la sella, che il mio impegno ardimentoso
l'ho promesso alla mia bella, Dulcinea del Toboso,
e a te Sancho io prometto che guadagnerai un castello,
ma un rifiuto non l'accetto, forza sellami il cavallo !
Tu sarai il mio scudiero, la mia ombra confortante
e con questo cuore puro, col mio scudo e Ronzinante,
colpirò con la mia lancia l'ingiustizia giorno e notte,
com'è vero nella Mancha che mi chiamo Don Chisciotte...

Questo folle non sta bene, ha bisogno di un dottore,
contraddirlo non conviene, non è mai di buon umore...
E' la più triste figura che sia apparsa sulla Terra,
cavalier senza paura di una solitaria guerra
cominciata per amore di una donna conosciuta
dentro a una locanda a ore dove fa la prostituta,
ma credendo di aver visto una vera principessa,
lui ha voluto ad ogni costo farle quella sua promessa.
E così da giorni abbiamo solo calci nel sedere,
non sappiamo dove siamo, senza pane e senza bere
e questo pazzo scatenato che è il più ingenuo dei bambini
proprio ieri si è stroncato fra le pale dei mulini...
E' un testardo, un idealista, troppi sogni ha nel cervello:
io che sono più realista mi accontento di un castello.
Mi farà Governatore e avrò terre in abbondanza,
quant'è vero che anch'io ho un cuore e che mi chiamo Sancho Panza...

Salta in piedi, Sancho, è tardi, non vorrai dormire ancora,
solo i cinici e i codardi non si svegliano all'aurora:
per i primi è indifferenza e disprezzo dei valori
e per gli altri è riluttanza nei confronti dei doveri !
L'ingiustizia non è il solo male che divora il mondo,
anche l'anima dell'uomo ha toccato spesso il fondo,
ma dobbiamo fare presto perché più che il tempo passa
il nemico si fà d'ombra e s'ingarbuglia la matassa...

A proposito di questo farsi d'ombra delle cose,
l'altro giorno quando ha visto quelle pecore indifese
le ha attaccate come fossero un esercito di Mori,
ma che alla fine ci mordessero oltre i cani anche i pastori
era chiaro come il giorno, non è vero, mio Signore ?
Io sarò un codardo e dormo, ma non sono un traditore,
credo solo in quel che vedo e la realtà per me rimane
il solo metro che possiedo, com'è vero... che ora ho fame !

Sancho ascoltami, ti prego, sono stato anch'io un realista,
ma ormai oggi me ne frego e, anche se ho una buona vista,
l'apparenza delle cose come vedi non m'inganna,
preferisco le sorprese di quest'anima tiranna
che trasforma coi suoi trucchi la realtà che hai lì davanti,
ma ti apre nuovi occhi e ti accende i sentimenti.
Prima d'oggi mi annoiavo e volevo anche morire,
ma ora sono un uomo nuovo che non teme di soffrire...

Mio Signore, io purtoppo sono un povero ignorante
e del suo discorso astratto ci ho capito poco o niente,
ma anche ammesso che il coraggio mi cancelli la pigrizia,
riusciremo noi da soli a riportare la giustizia ?
In un mondo dove il male è di casa e ha vinto sempre,
dove regna il "capitale", oggi più spietatamente,
riuscirà con questo brocco e questo inutile scudiero
al "potere" dare scacco e salvare il mondo intero ?

Mi vuoi dire, caro Sancho, che dovrei tirarmi indietro
perchè il "male" ed il "potere" hanno un aspetto così tetro ?
Dovrei anche rinunciare ad un po' di dignità,
farmi umile e accettare che sia questa la realtà ?

Il "potere" è l'immondizia della storia degli umani
e, anche se siamo soltanto due romantici rottami,
sputeremo il cuore in faccia all'ingiustizia giorno e notte:
siamo i "Grandi della Mancha",
Sancho Panza... e Don Chisciotte !
(Testo di F.Gucccini, "Don Chisciotte")


PROLOGO DEL "DON CHISCIOTTE"

   Sfaccendato lettore, potrai credermi senza che te ne faccia giuramento, ch’io vorrei che questo mio libro, come figlio del mio intelletto, fosse il più bello, il più galante ed il più ragionevole che si potesse mai immaginare; ma non mi fu dato alterare l’ordine della natura secondo la quale ogni cosa produce cose simili a sè.         Che potea mai generare lo sterile e incolto mio ingegno, se non la storia d’un figlio secco, grossolano, fantastico e pieno di pensieri varii fra loro, nè da verun altro immaginati finora? E ben ciò si conviene a colui che fu generato in un carcere, ove ogni disagio domina, ed ove ha propria sede ogni sorte di malinconioso rumore.    Il riposo, un luogo delizioso, l’amenità delle campagne, la serenità dei cieli, il mormorar delle fonti, la tranquillità dello spirito, sono cose efficacissime a render feconde le più sterili Muse, affinchè diano alla luce parti che riempiano il mondo di maraviglia e di gioia. Avviene talvolta che un padre abbia un figliuolo deforme e senza veruna grazia, e l’amore gli mette agli occhi una benda, sicchè non ne vede i difetti, anzi li ha per frutti di buon criterio e per vezzi, e ne parla cogli amici come di acutezze e graziosità.
  Io però, benchè sembri esser padre, sono patrigno di don Chisciotte, nè vo’ seguir la corrente, nè porgerti suppliche quasi colle lagrime agli occhi, come fan gli altri, o lettor carissimo, affinchè tu perdoni o dissimuli le mancanze che scorgerai in questo mio figlio. E ciò tanto maggiormente perché non gli appartieni come parente od amico, ed hai un’anima tua nel corpo tuo, e il tuo libero arbitrio come ogni altro, e te ne stai in casa tua, della quale sei padrone come un principe de’ suoi tributi, e ti è noto che si dice comunemente: "sotto il mio mantello io ammazzo il re".          Tutto ciò ti disobbliga e ti scioglie da ogni umano riguardo, e potrai spiegar sulla mia storia il tuo sentimento senza riserva, e senza timore d’essere condannato per biasimarla, o d’averne guiderdone se la celebrerai.

   Vorrei per altro, o lettor mio, offrirtela pulita e ignuda, senza l’ornamento di un prologo, e spoglia dell’innumerabil caterva degli usati sonetti, epigrammi, od elogi che sogliono essere posti in fronte ai libri; e ti so dire che sebbene siami costato qualche travaglio il comporla, nulla mi diede tanto fastidio quanto il fare questa prefazione che vai leggendo.
    Più volte diedi di piglio alla penna per iscriverla, e più volte mi cadde di mano per non sapere come darle principio. Standomi un giorno dubbioso con la carta davanti, la penna nell’orecchio, il gomito sul tavolino e la mano alla guancia, pensando a quello che dovessi dire, ecco entrar d’improvviso un mio amico, uomo di garbo e di fino discernimento, il quale, vedendomi tutto assorto in pensieri, me ne domandò la cagione. Io non gliela tenni celata, ma gli dissi che stavo studiando al prologo da mettere in fronte alla storia di don Chisciotte, e ci trovavo tanta difficoltà, che m’ero deliberato di non far prologo, e quindi anche di non far vedere la luce del giorno alle prodezze di sì nobile cavaliere.

— “Come volete voi mai, soggiuns’io, che non mi tenga confuso il pensare a tutto ciò che sarà per dirne quell’antico legislatore  che chiamasi volgo, quando vegga che dopo sì lungo tempo da che dormo nel silenzio della dimenticanza, ora che ho tant’anni in groppa, esco fuori con una leggenda secca come un giunco marino, spoglia d’invenzione, misera di stile, scarsa di concetti, mancante di ogni erudizione e dottrina, senza postille al margine, e senz’annotazioni al fine del libro, di che vedo ricche le altre opere, tuttochè favolose e profane, e zeppe di sentenze di Aristotele, di Platone, e di tutto lo sciame dei filosofi, onde ne avviene che restano meravigliati i lettori, e tengono gli autori nel più gran conto di dottrina, di erudizione, di eloquenza?" (...)

   All’udir queste cose il mio amico si diede una palmata nella fronte, proruppe in un alto scoppio di ridere, e disse: "Per Bacco, fratello, che termino al presente di togliermi da un inganno in cui son vissuto da che vi conosco; giacchè vi ho tenuto mai sempre per uomo giudizioso e prudente in tutte le vostre azioni, ed ora m’avveggo che voi ne siete lontano quanto il cielo dalla terra.              Com’è mai possibile che cose di sì poco momento e di sì facile rimedio abbiano tal possa da confondere e sviare un ingegno sì maturo com’è il vostro, a cui sì agevole riesce il togliere e superare molto maggiori difficoltà? Ciò deriva in fede mia, non da mancanza di abilità, ma da infingardaggine, e da poco buon raziocinio". (...)

“Passiamo ora alla citazione degli autori dei quali sono provveduti gli altri libri, ed il vostro è affatto privo. Anche a ciò è facile assai rimediare, da che non avete che cercarne uno che tutti in sè li unisca dall’A alla Z, come voi dite, inserendo questo stesso alfabeto nel vostro libro. Che se apertamente se ne scopra la menzogna, per la poca necessità che avevate di valervene, ciò a nulla monta; e intanto ci sarà forse qualche sempliciotto che terrà per fermo esservene voi servito nella vostra naturale ed ingenua storia; e se altro vantaggio non ve ne dovesse venire, servirà almeno un così esteso catalogo ad aggiungere subito molta autorità al racconto. Io sono anzi di opinione, che non vi sarà chi si prenda la briga di riscontrare se ve ne siate sì o no valuto: e ciò tanto più perchè questo vostro libro non ha d’uopo di alcuna di quelle cose che voi dite mancargli; non contenendo esso che una invettiva contro i libri di cavalleria, dei quali non fece parola Aristotele, nulla scrisse mai san Basilio, e non n’ebbe Cicerone contezza alcuna. Di più: i suoi favolosi spropositi escludono l’impegno di starsene puntuali alla verità, o di farvi campeggiare l’astrologia, e meno ancora servono le misure geometriche o la confutazione degli argomenti dei quali si vale la rettorica. Non è di suo istituto neppure il far sermoni a chicchessia, frammischiando le divine colle umane cose, ciò che non lice ad intelletto cristiano. Basterà che metta a profitto la imitazione in ciò che andrà scrivendo, e quanto più l’imitazione si accosterà alla verità, tanto maggior conto ne troverà il suo scrittore. Poichè questa vostra opera non tende se non a distruggere il credito e l’impressione che nel mondo trovano i libri di cavalleria, non è mestieri d’andare accattando sentenze da’ filosofi, consigli dalla divina Scrittura, favole da’ poeti, orazioni da’ rettorici, e miracoli da’ santi; ma basta procurare che con ogni chiarezza, con parole significanti, oneste e ben collocate, si adorni il vostro ragionamento, vestendo un periodar sonoro e giocondo, dipingendo possibilmente quanto vi verrà a genio ed a voglia di esporre, e facendo intendere i vostri concetti senz’oscurità e senza intrico.
   Attendete con ogni studio a far sì che leggendo la vostra storia il maninconioso si muova a riso, s’accresca nell’allegro la giocondità, al semplice non venga la noia, dal giudizioso se ne ammiri la invenzione, non si spregi dall’uom posato, e le dia lode il prudente: in sostanza il vostro primo scopo sia quello di abbattere la macchina malfondata dei libri di cavalleria abborriti da tanti, ma celebrati dal maggior numero: che se tanto vi riuscirà di fare, non avrete conseguito poco.

Io me ne stava ascoltando con profondo silenzio ciò che mi si dicea dall’amico, e tanto poterono sopra di me le sue ragioni che, senza altro dire, gliele menai tutte buone: anzi le feci servire di fondamento a questo prologo, nel quale riscontrerai, o delicato lettore, il retto discernimento dell’amico mio, e la mia buona ventura nell’essermi a questi tempi avvenuto in sì utile consigliere quando trovavami irresoluto e indeciso. Tu n’avrai certo gran compiacenza nel leggere così ingenua e così pura la storia del famoso don Chisciotte della Mancia, il quale, per la fama che corre fra tutti gli abitanti del distretto del Campo di Montiello, fu l’innamorato più casto, ed il più valente cavaliere, che da tanti anni in qua comparisse in que’ dintorni; nè io voglio esagerarti il servigio che ti fo nel darti a conoscere sì celebre e onorato campione. Bramo però d’incontrare il tuo gradimento per la conoscenza che ti farò fare anche del famoso Sancio Panza suo scudiere, nel quale, a mio avviso, troverai congiunte tutte le grazie scudierili che s’incontrano sparse nella caterva degli inutili libri di cavalleria. Dio ti conservi in salute, e non mi porre in dimenticanza. Sta sano.

Don Chisciotte
https://it.m.wikisource.org/wiki/Don_Chisciotte_della_Mancia/Capitolo_I

L'AVVENTURA DEI MULINI A VENTO
https://www.liberliber.it/mediateca/libri/c/cervantes/don_chisciotte_della_mancia/html/1_08.htm
Cap.  XXXII, parte II,  dal Don Chisciotte


"Ho vendicato ingiurie, ho drizzato torti, punito temerità, vinto giganti, abbattute fantasime; sono innamorato, ma non per altro se non perch’è giocoforza di esserlo ai cavalieri erranti, ed essendolo non entro nel novero degl’innamorati viziosi, ma dei platonici continenti; sono poi diretti sempre a buon fine i miei divisamenti, che l’altrui bene hanno in veduta, nè pregiudicano alcuno. Se colui che pensa in tal modo, se colui che così opera, se colui che in questo si esercita può chiamarsi balordo, lo dicano le grandezze vostre, duca e duchessa eccellenti"

Cap. LVIII, parte II, Don Chisciotte


"


Quando don Chisciotte si vide in campagna aperta, libero e sbarazzato dagli amorosi detti di Altisidora, parevagli di trovarsi nel suo centro e di sentirsi rinnovare il coraggio per proseguire le geste delle sue cavallerìe. Rivoltosi a Sancio, gli disse: — La libertà, o Sancio, è uno dei doni più preziosi dal cielo concessi agli uomini: i tesori tutti che si trovano in terra o che stanno ricoperti dal mare non le si possono agguagliare: e per la libertà, come per l’onore, si può avventurare la vita, quando per lo contrario la schiavitù è il peggior male che possa arrivare agli uomini. Io dico questo, o Sancio, perchè tu hai ben veduto co’ tuoi occhi le delizie e l’abbondanza da noi godute nel castello or ora lasciato: eppure ti assicuro che in mezzo a quei sontuosi banchetti e a quelle bevande gelate, sembravami di essere nello strettoio della fame. Io non gustava di alcuna cosa con quella soddisfazione con coi gustata l’avrei se fosse stata mia propria, mentre l’obbligo del dovere e della retribuzione ai benefizi e alle grazie ricevute sono altrettanti legami che non lasciano campeggiare l’animo libero. Beato colui cui ha dato il cielo un tozzo di pane senz’altro obbligo fuor quello di essergli grato"

mercoledì 12 ottobre 2016

TASSO

SCENE DI FOLLIA


Peter Bruegel il Vecchio, Margherita la pazza, 1561
Jheronimus Bosch, "La nave dei folli", 1494

Nel Rinascimento, per Ariosto ed Erasmo, la follia ha un duplice volto: è l’insensatezza di chi si lascia travolgere dalle fatue e ipocrite prospettive mondane, è la minaccia della bestialità che incombe sull'uomo, ma nello stesso tempo è forza demistificante, è l’autenticità vitale di chi sa smascherare la gran commedia del mondo e scegliere più difficili traguardi.
Ariosto ed Erasmo svolgono l'analisi di una dimensione culturale e hanno una visione intellettualistica del concetto di "follia".
Nell'età della Controriforma, invece, con Tasso, la follia è esperienza diretta: prende le forme dell'autopunizione, del senso di colpa, della lacerazione interiore, delle esplosioni psicotiche.
Il contrasto con l'autorità risolto da Ariosto attraverso scelte radicali e coraggiose, si sposta - nel caso di Tasso -  all'interno della coscienza: l'autorità non è confinata all'esterno dell'io, ma lo attraversa, lo penetra. Il controllo sulle coscienze esercitato dalla Chiesa controriformistica confligge con la libertà di pensiero ereditata dalla cultura umanistico-rinascimentale. E la ribellione è vissuta da Tasso come colpa. La tensione tra aspirazione alla libertà e controllo da parte dell'autorità - la cui norma viene, peraltro, introiettata - distrugge l'integrità del soggetto.


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E. Delacroix, Tasso recluso a Sant' Anna, 1830



Il poeta nella cella, malato, derelitto,
con il piede convulso gualcendo un manoscritto,
mira con occhio acceso dal fuoco del terrore
l’abisso di vertigine dove affonda il suo cuore.

Le stridule risate che empiono la prigione
allo strano e all’assurdo spingon la ragione;
l’avvolge stretto il Dubbio, e la Paura immonda,
multiforme, ridicola, soffiando lo circonda.

Quel genio rinserrato in un tugurio infame,                  
quegli urli, quelle smorfie, quei fantasmi che a sciame
turbinando in rivolta tormentano il suo udito,

quel dormiente svegliato dall’orrore del sito,
è ben questo il tuo emblema, Anima dagli oscuri
sogni, tu che il Reale soffoca fra i suoi muri!

C. Baudelaire, Sur «Le Tasse en prison» d’Eugène Delacroix


Lettera a Scipione Gonzaga
Oi me! misero me! Io aveva disegnato [1] di scrivere, oltre due poemi eroici di nobilissimo ed onestissimo argomento, quattro tragedie, de le quali aveva già formata la favola, e molte opere in prosa, e di materia bellissima e giovevolissima a la vita de gli uomini; e d’accoppiare con la filosofia l’eloquenza in guisa che [2] rimanesse di me eterna memoria nel mondo: e m’aveva proposto un fine di gloria e d’onore altissimo. Ma ora, oppresso dal peso di tante sciagure, ho messo in abbandono ogni pensiero di gloria e d’onore; ed assai felice d’esser mi parrebbe se senza sospetto potessi trarmi la sete da la quale continuamente son travagliato, e se, com’uno di questi uomini ordinari [3], potessi in qualche povero albergo menar la mia vita in libertà; se non sano, che più non posso essere, almeno non così angosciosamente infermo; se non onorato, almeno non abbominato [4]; se non con le leggi de gli uomini, con quelle de’ bruti almeno, che ne’ fiumi e ne’ fonti liberamente spengono la sete, de la quale (e mi giova il replicarlo) tutto sono acceso. Né già tanto temo la grandezza del male, quanto la continuazione c’orribilmente dinanzi al pensiero mi s’appresenta: massimamente conoscendo ch’in tale stato non sono atto né a lo scrivere né a l’operare. E ’l timor di continua prigionia molto accresce la mia mestizia; e l’accresce l’indegnità che mi conviene usare; e lo squallore de la barba e de le chiome e de gli abiti, e la sordidezza e ’l succidume [5] fieramente m’annoiano; e sovra tutto m’affligge la solitudine, mia crudele e natural nimica, da la quale anco nel mio buono stato era talvolta così molestato, che in ore intempestive m’andava cercando o andava ritrovando compagnia. E son sicuro, che se colei [6] che così poco a la mia amorevolezza ha corrisposto, in tale stato ed in tale afflizione mi vedesse, avrebbe alcuna compassione di me.
(...)
Di prigione in Sant’Anna, questo mese di maggio, l’anno 1579.


IL GIUDIZIO DI GALILEO: "Lo studietto e la tribuna"


Mi è sempre parso e pare, che questo poeta sia nelle sue invenzioni oltre tutti i termini gretto, povero e miserabile; e all'opposito, l'Ariosto magnifico, ricco e mirabile: e quando mi volgo a considerare i cavalieri con le loro azioni e avvenimenti, come anche tutte l'altre favolette di questo poema, parmi giusto d'entrare in uno studietto di qualche ometto curioso, che si sia dilettato di adornarlo di cose che abbiano, o per antichità o per rarità o per altro, del pellegrino, ma che però sieno in effetto coselline, avendovi, come saria a dire, un granchio petrificato, un camaleonte secco, una mosca e un ragno in gelatina in un pezzo d'ambra, alcuni di quei fantoccini di terra che dicono trovarsi ne i sepolcri antichi di Egitto, e così, in materia di pittura, qualche schizetto di Baccio Bandinelli o del Parmigiano, e simili altre cosette; ma all'incontro, quando entro nel Furioso, veggo aprirsi una guardaroba, una tribuna, una galleria regia, ornata di cento statue antiche de' più celebri scultori, con infinite storie intere, e le migliori, di pittori illustri, con un numero grande di vasi, di cristalli, d'agate, di lapislazari e d'altre gioie, e finalmente ripiena di cose rare, preziose, maravigliose, e di tutta eccellenza.
(Galileo Galilei, Considerazioni al Tasso, 1589-1595 ca.)


LEOPARDI VISITA IL SEPOLCRO DI TASSO  


Venerdì 15 febbraio 1823 fui a visitare il sepolcro del Tasso e ci piansi. Questo è il primo e l'unico piacere che ho provato in Roma. La strada per andarvi è lunga, e non si va a quel luogo se non per vedere questo sepolcro;- ma non si potrebbe anche venire dall'America per gustare il piacere delle lagrime lo spazio di due minuti? E' pur certissimo che le immense spese che qui vedo fare non per altro che per proccurarsi uno o un altro piacere, sono tutte quante gettate all'aria, perché in luogo del piacere non s'ottiene altro che noia. Molti provano un sentimento d'indignazione vedendo il cenere del Tasso, coperto e indicato non da altro che da una pietra larga e lunga circa un palmo e mezzo, e posta in un cantoncino d'una chiesuccia. Io non vorrei in nessun modo trovar questo cenere sotto un mausoleo. Tu comprendi la gran folla di affetti che nasce dal considerare il contrasto fra la grandezza del Tasso e l'umiltà della sua sepoltura.

Ma tu non puoi avere idea d'un altro contrasto cioè di quello che prova un occhio avvezzo all'infinita magnificenza e vastità de' monumenti romani, paragonandoli alla piccolezza e nudità di questo sepolcro. Si sente una trista e fremebonda consolazione pensando che questa povertà è sufficiente ad interessar e animar la posterità, laddove i superbissimi mausolei, che Roma racchiude, si osservano con perfetta indifferenza per la persona a cui furono innalzati, della quale o non si domanda neppur il nome, o si domanda non come nome della persona ma del monumento. Vicino al sepolcro del Tasso è quello del poeta Guidi, che volle giacere prope magnos Torquati cineres, come dice l'iscrizione. Fece molto male. Non mi restò per lui nemmeno un sospiro. Appena soffrii di guardare il suo monumento temendo di soffocare le sensazioni che avevo provate alla tomba del Tasso.

Anche la strada che conduce a quel luogo prepara lo spirito alle impressioni del sentimento. E' tutta costeggiata di case destinate alle manifatture, e risuona dello strepito de' telai e d'altri tali istrumenti, e del canto delle donne e degli operai occupati al lavoro. In una città oziosa, dissipata, senza metodo, come sono le capitali, è pur bello il considerare l'immagine della vita raccolta, ordinata e occupata in professioni utili. Anche le fisionomie e le maniere della gente che s'incontra per quella via, hanno un non so che di più semplice e di più umano che quelle degli altri; e dimostrano i costumi e il carattere di persone, la cui vita si fonda sul vero e non sul falso, cioè che vivono di travaglio e non d'intrigo, d'impostura e d'inganno, come la massima parte di questa popolazione. Lo spazio mi manca: t'abbraccio. Addio addio.
da Lettere 1823

TASSO
http://www.raiplay.it/video/2016/04/Il-tempo-e-la-Storia-Torquato-Tasso-e-la-Gerusalemme-liberata-Con-il-Prof-Lucio-Villari-del-04042016-9f084562-12e0-4549-9750-c8fde73d7404.html

AMINTA
La violenza nei rapporti umani: monologo del Satiro
Non sono io brutto, no, né tu mi sprezzi
Perché sì fatto io sia, ma solamente,
Perché povero sono, ahi, ché le ville
Seguon l’essempio de le gran cittadi;
E veramente il secol d’oro è questo,
Poiché sol vince l’oro, e regna l’oro.

(Atto II, scena I, vv. 776-781)

Ma, perche in van mi lagno? Usa ciascuno
Quell’armi, che gli hà date la natura
Per sua salute: il Cervo adopra il corso,
Il Leone gli artigli, et il bavoso
Cinghiale il dente: e son potenza, et armi
De la donna, Bellezza, e Leggiadria.
Io, perche non per mia salute adopro
La violenza, se mi fè Natura
Atto à far violenza, et à rapire?
(...)
Qual contrasto col corso, ò con le braccia
Potrà fare una tenera fanciulla
Contra me, sì veloce, e si possente?
Pianga, e sospiri pure, usi ogni sforzo
Di pietà, di bellezza: che, s’io posso
Questa mano ravvoglierle nel crine,
Indi non partirà, ch’io pria non tinga
L’armi mie per vendetta nel suo sangue.

(Atto II, scena I, vv, 795-820)


LA POETICA DI TASSO
DISCORSI DELL'ARTE POETICA
Non era per aventura cosí necessaria questa varieta a' tempi di Virgilio e d'Omero, essendo gli uomini di quel secolo di gusto non cosí isvogliato: però non tanto v'attesero, benché maggiore nondimeno in Virgilio che in Omero si ritrovi. Necessariissima era a' nostri tempi; e perciò dovea il Trissino co' sapori di questa varietà condire il suo poema; se voleva che da questi gusti sí delicati non fosse schivato: e se non tentò d'introdurlavi, o non conobbe il bisogno, o il disperò come impossibile. Io, per me, e necessaria nel poema eroico la stimo, e possibile a conseguire. Però che, sí come in questo mirabile magisterio di Dio, che mondo si chiama, e 'l cielo si vede sparso o distinto di tanta varietà di stelle; e discendendo poi giuso di mano in mano, l’aria e il mare pieni d'uccelli e di pesci; e la terra albergatrice di tanti animali cosí feroci come mansueti, ne la quale e ruscelli e fonti e laghi e prati e campagne e selve e monti si trovano; e qui frutti e fiori, là ghiacci e nevi, qui abitazioni e culture, là solitudini ed orrori; con tutto ciò, uno è il mondo che tante e sí diverse cose nel suo grembo rinchiode, una la forma e l'essenza sua, uno il modo, dal quale sono le sue parti con discorde concordia insieme congiunte e collegate; e non mancando nulla in lui, nulla però vi è di soverchio o di non necessario: cosí parimente giudico, che da eccellente poeta (il quale non per altro divino è detto, se non perché al supremo artefice no le sue operazioni assomigliandosi, de la sua divinità viene a partecipare) un poema formar si possa, nel quale, quasi in un picciolo mondo, qui si leggano ordinanze d'eserciti, qui battaglie terrestri e navali, qui espugnazioni di città, scaramucce e duelli, qui giostre, qui descrizioni di fame e di sete, qui tempeste, qui incendi, qui prodigi; là si trovino concili celesti ed infernali, là si veggiano sedizioni, là discordie, là errori, là venture, là incanti, là opere di crudeltà, di audacia, di cortesia, di generosità; là avvenimenti d'amore, or felici, or infelici, or lieti, or compassionevoli; ma che nondimeno uno sia il poema, che tanta varietà di materie contegna, una la forma e la favola sua, e che tutte queste cose siano di maniera composte che l'una l'altra riguardi, l'una a l'altra corrisponda, l'una da l'altra o necessariamente o verisimilmente dependa; sí che una sola parte o tolta via o mutata di sito, il tutto ruini.
(Dal Discorso secondo)


Tancredi nella selva incantata (Canto XIII, 32-46)
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