La scuola di Atene

La scuola di Atene

lunedì 18 aprile 2016

IL MITO DI ULISSE

DANTE E ULISSE
Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica;

indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori e disse: «Quando

mi diparti' da Circe, che sottrasse
me più d'un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enëa la nomasse,

né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né 'l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,

vincer potero dentro a me l'ardore
ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore;

ma misi me per l'alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.

L'un lito e l'altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l'isola d'i Sardi,
e l'altre che quel mare intorno bagna.

Io e ' compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov' Ercule segnò li suoi riguardi

acciò che l'uom più oltre non si metta;
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l'altra già m'avea lasciata Setta.

"O frati", dissi, "che per cento milia
perigli siete giunti a l'occidente,
a questa tanto picciola vigilia

d'i nostri sensi ch'è del rimanente
non vogliate negar l'esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza".

Li miei compagni fec' io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;

e volta nostra poppa nel mattino,
de' remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.

Tutte le stelle già de l'altro polo
vedea la notte, e 'l nostro tanto basso,
che non surgëa fuor del marin suolo.

Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che 'ntrati eravam ne l'alto passo,

quando n'apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avëa alcuna.

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.

Tre volte il fé girar con tutte l'acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com' altrui piacque,

infin che 'l mar fu sovra noi richiuso».
(Dante Alighieri, Inferno, XXVI)


R. Benigni presenta l'Ulisse dantesco

 


***

L’ISOLA DELLE SIRENE
                                                  
Quando ai suoi ospiti che domandavano,
Rainer Maria Rilke
alla fine del loro giorno,
dei suoi viaggi sul mare e dei pericoli,
tranquillo raccontava, non sapeva

mai come spaventarli e quali forti                            
parole usare perché come lui
nell'azzurro pacifico arcipelago
vedessero il dorato colore di quelle isole

la cui vista fa sì che muti volto
il pericolo, e non è più nel rombo,
non nel tumulto come sempre era;
ma senza suono assale i marinai

i quali sanno che là su quelle isole
dorate qualche volta s’ode un canto,
ed alla cieca premono sui remi,
come accerchiati

da quel silenzio che tutto lo spazio
immenso ha in sé e nelle orecchie spira,
quasi fosse la faccia opposta del silenzio
il canto cui nessun uomo resiste.

Rainer Maria Rilke, in Nuove poesie, 1907

***
F. KAFKA, IL SILENZIO DELLE SIRENE
Dimostrazione del fatto che anche mezzi inadeguati, persino puerili, possono servire alla salvezza.
Per difendersi dalle Sirene, Odisseo si tappò le orecchie con la cera e si lasciò incatenare all’albero maestro. Naturalmente tutti i viaggiatori avrebbero potuto fare da sempre qualcosa di simile, eccetto quelli che le Sirene avevano già sedotto da lontano, ma era risaputo in tutto il mondo che era impossibile che questo potesse servire. Il canto delle Sirene penetrava dappertutto e la passione dei sedotti avrebbe spezzato ben più che catene e albero. Odisseo non ci pensò, benché forse lo sapesse. Confidava pienamente in quel poco di cera e in quel fascio di catene, e, con innocente gioia per i suoi mezzucci, andò direttamente incontro alle Sirene.
Ora, le Sirene hanno un’arma ancora più terribile del canto, cioè il silenzio. Non è certamente accaduto, ma potrebbe essere che qualcuno si sia salvato dal loro canto, ma non certo dal loro silenzio. Al sentimento di averle sconfitte con la propria forza, al conseguente orgoglio che travolge ogni cosa, nessun mortale può resistere.

E, in effetti, quando Odisseo arrivò, le potenti cantatrici non cantarono, sia che credessero che solo il silenzio potesse vincere quell’avversario, sia che, alla vista della beatitudine nel volto di Odisseo, che non pensava ad altro che a cere e a catene, si dimenticassero proprio di cantare.
Ma Odisseo tuttavia, per così dire, non udì il loro silenzio, e credette che cantassero e di essere lui solo protetto dall’udirle. Di sfuggita vide sulle prime il movimento dei loro colli, il respiro profondo, gli occhi pieni di lacrime, le bocche socchiuse, ma credette che questo facesse parte delle arie che non udite risuonavano intorno a lui. Ma tutto ciò sfiorò appena il suo sguardo fisso nella lontananza, le Sirene sparirono davanti alla sua risolutezza e, proprio quando era più vicino a loro, non seppe più niente di loro.
Quelle – più belle che mai – si stirarono e si girarono, fecero agitare al vento i loro tremendi capelli sciolti e tesero le unghie sulle rocce. Non volevano più sedurre, volevano solo carpire il più a lungo possibile lo sguardo dei grandi occhi di Odisseo.
Se le Sirene avessero coscienza, quella volta sarebbero state annientate. Ma sopravvissero, e solo Odisseo sfuggì a loro.
A questo punto, si tramanda ancora un’appendice. Odisseo, si dice, era così astuto, era una tale volpe, che neppure la Parca del destino poteva penetrare nel suo intimo. Egli, benché questo non si possa capire con l’intelletto umano, forse si è realmente accorto che le Sirene tacevano e ha, per così dire, solo opposto come scudo a loro e agli dèi la suddetta finzione.
(F. Kafka, Il silenzio delle sirene)



***

KOSTANTINOS KAVAFIS, ITACA


KOSTANTINOS KAVAFIS
1863-1933
Se per Itaca volgi il tuo viaggio,               fa voti che ti sia lunga la via,
e colma di vicende e conoscenze.
Non temere i Lestrigoni e i Ciclopi
o Poseidone incollerito: mai
troverai tali mostri sulla via,
se resta il tuo pensiero alto e squisita
è l'emozione che ci tocca il cuore
e il corpo. Né Lestrigoni o Ciclopi
né Poseidone asprigno incontrerai,
se non li rechi dentro, nel tuo cuore,
se non li drizza il cuore innanzi a te.

Fa voti che ti sia lunga la via.
E siano tanti i mattini d'estate
che ti vedano entrare (e con che gioia
allegra) in porti sconosciuti prima.
Fa scalo negli empori dei Fenici
per acquistare bella mercanzia,
madrepore e coralli, ebani e ambre,
voluttuosi aromi d'ogni sorta,
quanti più puoi voluttuosi aromi.
Recati in molte città dell'Egitto,
a imparare dai sapienti.

Itaca tieni sempre nella mente.
La tua sorte ti segna a quell'approdo.
Ma non precipitare il tuo viaggio.
Meglio che duri molti anni, che vecchio
tu finalmente attracchi all'isoletta,
ricco di quanto guadagnasti in via,
senza aspettare che ti dia ricchezze.

Itaca t'ha donato il bel viaggio.
Senza di lei non ti mettevi in via.
Nulla ha da darti più.

E se la ritrovi povera, Itaca non t'ha illuso.
Reduce così saggio, così esperto,
avrai capito che vuol dire un'Itaca.

ITACA di K. Kavafis

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L'ULISSE DANNUNZIANO
http://online.scuola.zanichelli.it/letterautori-files/volume-3/pdf-online/22-dannunzio.pdf

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L'ULISSE PASCOLIANO
http://online.scuola.zanichelli.it/letterautori-files/volume-3/pdf-online/20-pascoli.pdf

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SABA, ULISSE

Nella mia giovinezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d’onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d’alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l’alta
marea e la notte li annullava, vele 
sottovento sbandavano più al largo,
per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore.
(U. Saba, da Il Canzoniere)

***
Primo Levi,  Se questo è un uomo,  Il canto di Ulisse”, (cap. XI)
 In questo capitolo Levi si ritrova a raschiare una vecchia cisterna insieme ai suoi compagni del Kommando, un lavoro di lusso per i prigionieri del Lager. Presto però Levi viene chiamato da Jean, il Pikolo del Kommando, colui che svolgeva i compiti di fattorino-scritturale. Jean comunica a Levi che da quel giorno sarebbe stato il suo aiutante nelle corvée quotidiane del rancio. Era un lavoro faticoso, ma comportava una gradevole camminata di andata senza carico, e l’occasione sempre desiderabile di avvicinarsi alle cucine.
Già da una settimana Levi e Pikolo erano diventati amici, ma raramente avevano la possibilità di parlarsi, se non con un saluto di sfuggita. Questa poteva, invece, essere una grande possibilità per confrontarsi, ragionare, ma anche solo per parlare delle loro case, di Strasburgo e di Torino, delle letture, degli studi. 

 "Appeso alla scala con una mano oscillante mi indicò:
- Ajourd'hui c'est Primo qui viendra avec moi cercher la soupe.
Fino al giorno prima era stato Stern, il transilvano strabico; ora questi era caduto in disgrazia per non so che storia di scope rubate in magazzino e Pikolo era riuscito ad appoggiare la mia candidatura come aiuto nell'Essenholen, nella corvée quotidiana del rancio.
Si arrampicò fuori, ed io lo seguii, sbattendo le ciglia nello splendore del giorno. Faceva tiepido fuori, il sole sollevava dalla terra grassa un leggero odore di vernice e di catrame che mi ricordava una qualche spiaggia estiva della mia infanzia. Pikolo mi diede una delle due stanghe e ci incamminammo sotto un chiaro cielo di giugno.
Cominciavo a ringraziarlo, ma mi interruppe, non occorreva. Si vedevano i Carpazi coperti di neve. Respirai l'aria fresca, mi sentivo insolitamente leggero. (…)

Il canto di Ulisse. Chissà come e perché mi è venuto in mente: ma non abbiamo tempo di scegliere, quest'ora già non è più un'ora. Se Jean è intelligente capirà. Capirà: oggi mi sento da tanto.
... Chi è Dante. Che cosa è la Commedia. Quale sensazione curiosa di novità si prova, se si cerca di spiegare in breve che cosa è la Divina Commedia. Come è distribuito l'Inferno, cosa è il contrappasso: Virgilio è la Ragione, Beatrice la Teologia.
Jean è attentissimo ed io comincio, lento e accurato:
Lo maggior corno della fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica.
Indi, la cima in qua e là menando
come fosse la lingua che parlasse
mise fuori la voce e disse: Quando…
Qui mi fermo e cerco di tradurre. Disastroso: povero Dante e povero francese! Tuttavia l'esperienza pare prometta bene: Jean ammira la bizzarra similitudine della lingua, e mi suggerisce il termine appropriato per rendere "antica".
E dopo "Quando"? Il nulla. Un buco nella memoria. "Prima che sì Enea lo nominasse". Altro buco. viene a galla qualche frammento non utilizzabile: "...la pièta del vecchio padre, né il debito amore che dovea Penelope far lieta......" sarà poi esatto?
... Ma misi me per l'alto mare aperto
Di questo sì, di questo son sicuro, sono in grado di spiegare a Pikolo, di distinguere perché "misi me" non è "je me mis" è molto più forte e più audace, è un vincolo infranto, è scagliare   se stessi al di là di una barriera, noi conosciamo bene questo impulso.
L'alto mare aperto: Pikolo ha viaggiato per mare e sa cosa vuol dire, è quando l'orizzonte si  chiude su se stesso, libero diritto e semplice, e non c'è ormai che odore di mare: dolci cose ferocemente lontane.
Siamo arrivati al Kraftwerk, dove lavora il Kommando dei posacavi. Ci deve essere l'ingegner Levi. Eccolo, si vede solo la testa fuori dalla trincea. Mi fa un cenno colla mano, è un uomo in gamba, non l'ho mai visto giù di morale, non parla mai di mangiare.
 "Mare aperto". "Mare aperto". So che rima con  "diserto";
"... quella compagnia picciola, dalla qual non fui diserto", ma non rammento più se viene prima o dopo. E anche il viaggio, il temerario viaggio al di là delle Colonne d'Ercole, che tristezza, sono costretto a raccontarlo in prosa: un sacrilegio. Non ho salvato che un verso, ma vale la pena di fermarcisi.

... Acciò che l'uom più oltre non si metta

"Si metta" dovevo venire in un Lager per accorgermi che è la stessa espressione di prima " e misi me". Ma non ne faccio parte a Jean, non sono sicuro che sia una osservazione importante. Quante altre cose ci sarebbero da dire, e il sole è già alto, mezzogiorno è vicino. Ho fretta, una fretta furibonda.
Ecco, attento Pikolo, apri gli occhi e la mente, ho bisogno che tu capisca:

Considerate la vostra semenza
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguire virtute e conoscenza.

Come se anch'io lo sentissi per la prima volta; come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento ho dimenticato chi sono e dove sono.
Pikolo mi pregava di ripetere. Come è buono Pikolo, si è accorto che mi sta facendo del bene. O forse è qualcosa di più: forse nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle.

… Li miei compagni feci sì acuti

... e mi sforzo, ma invano, di spiegare quante cose vuol dire "acuti". Qui ancora una lacuna, questa volta irreparabile "... Lo lume era di sotto della luna" o qualcosa di simile; ma prima?....Nessuna idea, "Keine Ahung" come si dice qui. Che Pikolo mi scusi, ho dimenticato almeno quattro terzine.
-         Ça ne fait rien, vas-y tout de même.

... Quando mi apparve una montagna bruna
per la distanza e parvemi alta tanto
che mai veduta non avevo alcuna.

Sì, sì "alta tanto", non " molto alta", proposizione consecutiva: e le montagne, quando si vedono di lontano... le montagne... oh Pikolo, Pikolo, dì qualcosa, parla, non lasciarmi pensare alle mie montagne che comparivano nel bruno della sera quando tornavo in treno da Milano a Torino!
Basta, bisogna proseguire, queste sono cose che si pensano ma non si dicono. Pikolo attende e mi guarda.
Darei la zuppa di oggi per saper saldare " non avevo alcuna” col finale. Mi sforzo di ricostruire per mezzo delle rime, chiudo gli occhi, mi mordo le dita, ma non serve, il resto è silenzio. Mi danzano per il capo altri versi "... la terra lagrimosa diede vento..." no, è un'altra cosa. È tardi, è tardi, siamo arrivati alla cucina, bisogna concludere:

Tre volte il fè girar con tutte l'acque,
alla quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, come altrui piacque...

Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda questo "come altrui piacque", prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti, o non vederci mai più, devo dirgli, spiegargli del Medioevo, del così umano e necessario e pure inaspettato anacronismo, e altro ancora, qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell'intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui...
Siamo ormai alla fila per la zuppa, in mezzo alla folla sordida e sbrindellata dei porta-zuppa degli altri Kommandos. I nuovi giunti ci si accalcano alle spalle.

-Kraut und Rüben? -Kraut und Rüben-. Si annunzia che la zuppa è di cavoli e rape. 
- Choux et navets. - Kaposzta es repak.

infin che 'l mar fu sovra noi richiuso."

P. Levi e “Il canto di Ulisse” 
Introduzione
Nel passo, tratto dall’XI capitolo del libro, Jean, un compagno di prigionia di Levi che ricopre la carica di “Pikolo”, ovvero di responsabile del “Kommando Chimico” del campo, tra le altre incombenze (pulizia della baracca, consegna degli attrezzi da lavoro, contabilità ecc.) ha anche quella di prelevare il rancio per il proprio gruppo di internati. Poiché il trasporto della marmitta piena di zuppa richiede la collaborazione di un’altra persona, egli ha facoltà di scegliersi, di volta in volta, un accompagnatore. Un giorno tocca a Primo Levi seguirlo fino alla baracca delle cucine. 
Sintesi del passo
Nel non lungo tragitto che va dalla “cisterna interrata”, dove Primo Levi sta lavorando quando viene chiamato da Jean alle cucine dove i due si recano a riempire la marmitta di zuppa per il rancio dei deportati, si svolge una lezione dal profilo molto speciale. Il giovane Jean, che essendo di origini alsaziane, parla perfettamente il francese e il tedesco, esprime al proprio compagno di prigionia il desiderio di apprendere la lingua italiana. Levi vuole subito accontentarlo, ma compie una scelta metodologicamente curiosa: assume come testo di partenza il canto XXVI dell’Inferno dantesco, quello di Ulisse. Una scelta istintiva, la cui ragione profonda si chiarisce solo dopo, quando la lezione assume una piega imprevista: i versi danteschi si rivelano poco produttivi dal punto di vista linguistico, ma incredibilmente attuali e incisivi riguardo ai contenuti, capaci di far luce in maniera sorprendente sulla situazione dei deportati. 
Aspetti fondamentali
1) La memoria di Dante e la memoria della propria identità
La memoria di Dante, così faticosamente recuperata, fa affiorare, in un intreccio inestricabile, anche la memoria del vissuto dei due personaggi, Jean e Primo (le montagne, il mare), ferocemente annullata dalla logica industriale dello sterminio nazista in virtù della quale l’identità dell’internato è ridotta a un numero di matricola stampato sul braccio. E’ un numero che serve a inventariare oggetti o meglio strumenti di lavoro destinati alla soluzione finale. Ebbene, proprio in questo contesto di annientamento totale, di naufragio della propria dignità, il ricordo del XXVI canto dell’Inferno, che Levi sceglie inconsapevolmente per la sua lezione di italiano, fa affiorare, salvandola dalla brutalità del campo, l’identità profonda dell’io. Dante non viene solo citato, ma arriva a contaminare il racconto: «avrei dato la zuppa di oggi per saldare “non ne avevo alcuna” con il finale», afferma infatti l’autore verso la fine del passo. Il senso di tale dichiarazione è che egli sarebbe stato disposto a sacrificare un bene essenziale nel campo – il misero rancio – pur di salvare quei ricordi dall’oblio, perché gli consentivano di ristabilire un legame con il passato, salvandolo dall’oblio e fortificando la sua identità. Ricordare Dante è un modo per ritrovare se stessi nell’abisso del nulla, ma è anche uno strumento per recuperare la propria umanità, la propria capacità di “far funzionare la mente” nell’inferno della bestialità e della barbarie, dove l’umanità è messa in discussione. 
Attraverso Dante, attraverso i ricordi, Primo e Jean fanno risorgere dentro il Lager il mondo di fuori, il mondo di prima, il mondo in cui gli uomini sono “fatti per seguir virtute e canoscenza”. 
2) Virtute e conoscenza contro la disumanità del Lager: il volo di Ulisse non è folle.
Perché Levi abbia scelto di partire proprio dal XXVI canto dell’Inferno, lo si capisce alla fine, proprio quando egli arriva alla celebre esortazione che Ulisse rivolge ai compagni prima di sprofondare oltre l’abisso delle Colonne d’Ercole davanti alla montagna del Purgatorio: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza. Ed è qui che si colloca, non a caso, il fulcro tematico del passo che abbiamo letto: ricordando il fatti non foste a viver come bruti, Levi condanna la cinica malvagità del sistema dei campi di concentramento che miravano proprio a ridurre gli uomini allo stato animale e rilancia uno scopo più nobile e più degno per la creatura eletta (l’uomo): inseguire virtute e canoscenza. Ed è proprio qui che cogliamo una delle maggiori differenze tra l’Ulisse dantesco e l’Ulisse di Primo Levi che si spiega anche alla luce della diversa concezione del mondo:
a) per Dante, la razionalità di Ulisse non illuminata dalla grazia di Dio , anzi che prescinde proprio dal volere divino e si spinge oltre in un atto estremo di superbia, è un “folle volo”; questo si spiega alla luce di una visione trascendente del mondo, per cui ogni azione e ogni evento ha la sua ragion d’essere e la sua sussistenza nel piano provvidenziale di Dio; l’esplorazione di Ulisse oltre le colonne d’Ercole non rientra in tale piano, anzi ne sono la violazione e dunque costituisce un folle volo, un atto di empietà; per questo Dante contrappone al viaggio orizzontale di Ulisse (un viaggio geografico, spaziale) il proprio viaggio, che è invece verticale (come verticale è tutta la struttura della Commedia, cioè tesa verso il vertice ultimo che è Dio); 
b) per Levi, al contrario, il volo di Ulisse non è empio, non è folle, bensì un appello alla dignità operativa (cioè attiva, pratica) della ragione umana anche in condizioni estreme. Recuperando virtù e conoscenza, cioè la propria dimensione razionale, la propria capacità innata di spingersi oltre il limite, i deportati, costretti a vivere come bruti, riacquistano, anche se per un solo attimo, la loro dignità umana. Tutto ciò si spiega alla luce della visione immanente del mondo propria di Primo Levi, una visione laica e materialista che esclude ogni provvidenzialismo. 
Il naufragio finale
Il naufragio di Ulisse in vista della montagna del Purgatorio – a cui rimanda la citazione finale “Infin che ‘l mar fu sopra noi richiuso” – riflette il naufragio di Primo: anch’egli, proprio grazie alla memoria di Dante,ha momentaneamente riconquistato la propria identità che tuttavia, subito dopo, viene nuovamente sommersa dalla realtà di Auschwitz che torna a dominare con la sua Babele di lingue (il tedesco, il polacco, il francese), con le sue necessità fisiche primarie (il rancio) e con tutto il suo dolore. 



CESARE PAVESE, L'ISOLA
ODISSEO Saprò almeno che devo fermarmi.
CALIPSO Non vale la pena, Odisseo. Chi non si ferma adesso, subito, non si ferma mai più. Quello che fai, lo farai sempre. Devi rompere una volta il destino, devi uscire di strada e lasciarti affondare nel tempo…
ODISSEO Non sono immortale.
CALIPSO Lo sarai, se mi ascolti. Che cos’è vita eterna se non questo accettare l’istante che viene e l’istante che va? L’ebbrezza, il piacere, la morte non hanno altro scopo. Cos’è stato finora il tuo errare inquieto?
ODISSEO Se lo sapessi avrei già smesso. Ma tu dimentichi qualcosa.
CALIPSO Dimmi.
ODISSEO Quello che cerco l’ho nel cuore, come te.


Da "L'isola" in "Dialoghi con Leucò"



ULISSE  E IL PENSIERO FILOSOFICO
In un racconto omerico è custodito il nesso di mito, dominio e lavoro. Il dodicesimo canto dell'Odissea narra del passaggio davanti alle Sirene. (...)
La sua via fu quella dell'obbedienza e del lavoro, su cui la soddisfazione brilla eternamente come pura apparenza, come bellezza impotente. Il pensiero di Odisseo, ugualmente ostile alla propia morte e alla propria felicità, sa di tutto questo. Egli conosce due sole possibilità di scampo.
Una è quella che prescrive ai compagni. Egli tappa loro le orecchie con la cera, e ordina loro di remare a tutta forza. Chi vuole durare e sussitere, non deve porgere ascolto al richiamo dell'irrevocabile, e può farlo solo in quanto non è in grado di ascoltare. È ciò a cui la società ha provveduto da sempre. Freschi e concentrati, i lavoratori devono guardare in avanti, e lasciare stare tutto ciò che è a lato. L'impulso che li indurrebbe a deviare va sublimato - con rabbiosa amarezza - in ulteriore sforzo. Essi diventano pratici.
L'altra possibilità è quella che sceglie Odisseo, il signore terriero, che fa lavorare gli altri per sé. Egli ode, ma è impotente, legato all'albero della nave, e più la tentazione diventa forte, e più strettamente si fa legare, così come, più tardi, anche i borghesi si negheranno più tenacemente la felicità quanto più - crescendo la loro potenza - l'avranno a portata di mano.
Ciò che ha udito resta per lui senza seguito: egli non può che accennare col capo di slegarlo, ma è ormai troppo tardi: i compagni, che non odono nulla, sanno solo del pericolo del canto, e non della sua bellezza, e lo lasciano legato all'albero, per salvarlo e per salvare sé con lui.
Essi riproducono, con la propria vita, la vita dell'oppressore, che non può più uscire dal suo ruolo  sociale. Gli stessi vincoli con cui si è legato irrevocabilmente alla prassi, tengono le Sirene lontano dalla prassi: la loro tentazione è neutralizzata a puro oggetto di contemplazione, ad arte.

L'incatenato assiste ad un concerto, immobile come i futuri ascoltatori, e il suo grido appassionato, la sua richiesta di liberazione, muore già in applauso. Così il godimento artistico e il lavoro manuale si separano all'uscita dalla preistoria. L'epos contiene già la teoria giusta. Il patrimonio culturale sta in esatto rapporto col lavoro comandato, e l'uno e l'altro hanno il loro fondamento nell'obbligo ineluttabile del dominio sociale sulla natura.
(Horkeimer - Adorno, Dialettica dell'Illuminismo, 1947)




LUIGI MALERBA, ITACA PER SEMPRE

Ho raccontato tante menzogne che ora io stesso  non riesco più a districarmi nel groviglio che ho creato con le parole intorno alla mia persona. Non ho resistito alla tentazione di mentire anche a me stesso e mi sono commosso fino alle lacrime ogni volta che ho raccontato quelle storie false e infelici.
I poeti cantano le vicende degli eroi, ma io non sono un poeta e dubito di essere un eroe, anche se ho compiuto imprese che tutti dicono memorabili ma che svaniranno nel nulla della dimenticanza come tutte le imprese degli uomini se non troveranno un poeta che le racconta.

Dove sono i poeti? Non c'erano poeti sotto le mura di Troia e nemmeno sulle navi con le quali ho solcato i mari. Se uno ha combattuto un solo giorno può raccontare mille storie di guerra. Se uno ha amato anche una sola donna può raccontare mille storie d'amore. Ma chi non è vissuto con amore e con dolore non può inventare nulla se non parole vuote e aride come la cenere.
(L. Malerba, Itaca per sempre)



ITACA, L. DALLA

Capitano che hai negli occhi
il tuo nobile destino
pensi mai al marinaio
a cui manca pane e vino
capitano che hai trovato
principesse in ogni porto
pensi mai al rematore
che sua moglie crede morto.

Itaca, Itaca, Itaca
la mia casa ce l'ho solo là
Itaca, Itaca, Itaca
ed a casa io voglio tornare
dal mare, dal mare, dal mare

Capitano le tue colpe
pago anch'io coi giorni miei
mentre il mio più' gran peccato
fa sorridere gli dei
e se muori è un re che muore
la tua casa avrà un erede
quando io non torno a casa
entran dentro fame e sete

Itaca, Itaca, Itaca
la mia casa ce l'ho solo là
Itaca, Itaca, Itaca
ed a casa io voglio tornare
dal mare, dal mare, dal mare

Capitano che risolvi
con l'astuzia ogni avventura
ti ricordi di un soldato
che ogni volta ha più paura
ma anche la paura in fondo
mi dà sempre un gusto strano
se ci fosse ancora mondo
sono pronto: dove andiamo?

Itaca, Itaca, Itaca
la mia casa ce l'ho solo là
Itaca, Itaca, Itaca
ed a casa io voglio tornare
dal mare, dal mare, dal mare

Itaca Itaca Itaca
la mia casa ce l'ho solo la'
Itaca, Itaca, Itaca

ed a casa io voglio tornare...





venerdì 8 aprile 2016

SCRIPTORIA


Le attività nello Scriptorium
Lo scriptorium era una vasta sala adibita alle attività di studio.
I monaci lavoravano vicino ai punti più adatti a ricevere la luce.
Gli strumenti di lavoro erano penne, inchiostro e temperini, righelli, punteruoli (per praticare minuscoli fori, utilizzati come riferimenti per tracciare linee dritte sul foglio) e, infine, il leggio.
Tutto il materiale era fornito dall'armarius (il bibliotecario del monastero), vero regista dell'operazione di copiatura. L'armarius poteva avere anche altri incarichi. In una stessa stanza potevano lavorare fino a trenta amanuensi.

L'attività di copiatura propriamente detta comprendeva tutte le fasi della lavorazione del libro. Poiché il papiro non era più disponibile dopo la conquista araba dell'Egitto, il supporto di scrittura più usato, in attesa della diffusione della carta, era la pergamena, i cui fogli erano ricavati dal trattamento delle pelli degli animali domestici (mucche, pecore e capre); la pergamena più pregiata si ricavava dalla pelle di vitello e prendeva il nome di vellum. Varie erano le fasi della preparazione della pergamena per la scrittura (taglio dei fogli, foratura, rigatura, levigazione).

Una volta posto sul leggio, la prima operazione consisteva nel tracciare righe orizzontali (generalmente in numero di 26) sul foglio vuoto, indispensabili affinché la scrittura fosse diritta, e definire gli spazi da lasciare disponibili per le miniature. L'amanuense copiava quindi il testo sulla pagina rigata; ovviamente il lavoro riguardava la copia di testi classici e religiosi, bibbie e commenti ai testi sacri.

Tria digita scribunt, totum corpus laborat
S. Agostino

All'interno dello scriptorium vi era una specifica suddivisione dei compiti.
I copisti  si occupavano delle riproduzione dei testi in bella grafia, lavorando su piani inclinati. Il manoscritto da copiare era poggiato su di un leggio fissato ad un supporto.

Gli amanuensi scrivevano o meglio trascrivevano il testo, avendo cura della fedeltà dello scritto e della qualità del carattere, sui fogli di pergamena cioè pelle di agnello, pecora, montone o capra lavorata in modo da divenire liscia e chiamata pergamena in quanto entrata nell'uso comune per la prima volta a Pèrgamo, città dell' Asia Minore.

La decorazione spettava invece ai miniaturisti i quali avevano un compito certamente secondario rispetto al fatto di riprodurre e tramandare un testo, ma sicuramente più appariscente, più artistico e di forte impatto visivo.
Le loro meravigliose creazioni danno inizio, nei testi medievali, ai paragrafi e ai capitoli e molto spesso, nell'immaginario collettivo, s'identificano con lo stesso Medioevo. I miniaturisti realizzavano spesso autentiche opere d'arte miniate che volevano riflettere la grandezza e la gloria di Dio e venivano create in oro applicato su una base in gesso, per esaltarne la spazialità e poi lucidato con un brunitoio in pietra d'agata.

La parola 'miniatura' deriva dal latino minium, il colore usato per riquadrare le pagine e per scrivere i titoli e le lettere iniziali dei manoscritti. Gli amanuensi infatti lasciavano appositamente in bianco la lettera iniziale di ogni capitolo affinché venisse poi
' miniata' dai miniaturisti 
In qualche libro, i margini di ciascuna pagina venivano decorati con ghirlande di fiori e di foglie e spesso, in mezzo a questi bordi infiorati venivano dipinti anche figure animali.

Le miniature, col passare del tempo, divennero piccoli capolavori contenuti nello spazio di pochi centimetri quadrati all'interno degli Evangelari ( raccolta di testi sacri, messali), nei Salteri (raccolta di salmi) e nelle Bibbie che ebbero, grazie all'uso dell'oro e della porpora, un aspetto molto elegante.


Infine la rilegatura spettava ai rilegatori, che spesso traducevano il loro lavoro in realizzazioni artigianali ed artistiche di altissimo livello in quanto spesso la rilegatura era in cuoio ed i volumi venivano abbelliti con massicci angoli d'argento lavorato a mano e con grossi fermagli. Alcuni libri venivano invece ricoperti di velluto o con una tavoletta d'avorio scolpito in basso rilievo. Qualche esemplare era perfino rivestito con una lamina d'oro battuto e riposto negli scrigni insieme con perle ed altri gioielli.


























lunedì 4 aprile 2016

LONGOBARDI E FRANCHI

« Ab intactae ferro barbae longitudine [...] ita postmodum appellatos. Nam iuxta illorum linguam "lang" longam, "bart" barbam significat. »

« Furono chiamati così [...] in un secondo tempo per la lunghezza della barba mai toccata dal rasoio. Infatti nella loro lingua lang significa lunga e bart barba. »
(Paolo Diacono, Historia Langobardorum, I, 9)

TRAGITTO MIGRATORIO DEI LONGOBARDI
Tappe fondamentali: Scandinavia, Pannonia (Ungheria), Italia.

























Figlia di Cunimondo, che era il re dei Gepidi, nacque quando il suo popolo era stanziato in Pannonia, in conflitto con i Longobardi. Nel 567 Cunimondo venne sconfitto e ucciso in battaglia da Alboino, re dei Longobardi. Dopo la sconfitta dei Gepidi, Alboino sposò Rosmunda, probabilmente per legare a sé i guerrieri superstiti di quel popolo. La nuova regina seguì Alboino in Italia, nel 568.
Narra Paolo Diacono, nel secondo libro della sua Historia Langobardorum, che Rosmunda organizzò la congiura che uccise Alboino, nel 572, in collaborazione con il nobile del seguito regale e suo amante, Elmichi.


Secondo la leggenda, dopo una notte di gozzoviglie a Verona, nella reggia che era stata di Teodorico, Alboino bevve vino in una coppa ottenuta dal cranio del padre di Rosmunda, Cunimondo, e costrinse perfino la moglie a imitarlo. Per vendicarsi, quest'ultima legò al suo fodero la spada del marito, che all'arrivo dei congiurati guidati da Elmichi , non poté difendersi..

Più prosaicamente, dietro alla leggenda Jörg Jarnut legge l'episodio come un tentativo di usurpazione da parte di Elmichi, appoggiato dalla regina, da alcuni guerrieri longobardi e gepidi aggregati all'esercito e appoggiato da Bisanzio. Infatti, secondo l'uso praticato dai longobardi, la regina vedova poteva scegliere il nuovo re, legittimandolo con un nuovo matrimonio: così fece Rosmunda con Elmichi.

La scelta, ovviamente, avveniva su indicazione dell'assemblea dei guerrieri. Rosmunda trasmise il potere a Elmichi, appoggiato da una parte del popolo longobardo. La maggioranza, però, non gradì la scelta e un'altra assemblea dei guerrieri, convocata a Pavia, elesse Clefi. Rosmunda fuggì, allora, a Ravenna, con Elmichi e con il tesoro longobardo.

A Ravenna i due regicidi si sposarono, ma presto vennero divisi dall'odio (forse anche a causa di una relazione di Rosmunda con il prefetto bizantino, Longino). Rosmunda tentò di avvelenare Elmichi ma questi, bevuto un sorso dalla coppa avvelenata, si rese conto dell'inganno e obbligò Rosmunda a bere a sua volta. Anche questa parte del racconto è di derivazione leggendaria. I fuggitivi potrebbero non aver neanche raggiunto Ravenna: Gregorio di Tours, contemporaneo degli avvenimenti, scrive infatti (Storie, IV, 41) che furono raggiunti e uccisi durante la fuga.

Paolo Diacono (Cividale del Friuli, 720 – Montecassino, 799) è stato un monaco, storico, poeta e scrittore longobardo di espressione latina.
Nel 774 visse il crollo del regno longobardo ad opera di Carlo Magno. Per ottenere la liberazione del fratello, catturato dai Franchi, scrisse in onore di Carlo Magno un'epistola metrica: Ad regem. Ottenne ciò che chiedeva, ma come condizione entrò al servizio del re Carlo Magno, presso la corte di Aquisgrana,dove fu fra i protagonisti della "rinascita carolingia" con Alcuino, monaco inglese
Paolo Diacono riuscì a scappare e si fece monaco a Montecassino, dove scrisse l'Historia Langobardorum, in cui narra, fra mito e storia, le vicende del suo popolo, dalla partenza dalla Scandinavia all'arrivo in Italia. 

Gregorio di Tours (Clermont-Ferrand, 538 circa – Tours, 17 novembre 594) fu un cronista ed agiografo gallo-romano, nonché vescovo di Tours.
Il suo lavoro principale fu l' Historia Francorum, in dieci libri, ma è anche conosciuto per i suoi resoconti sui miracoli dei Santi.

LA FINE DEL REGNO LONGOBARDO


EGINARDO, Vita di Carlo Magno

22. Di corpo era grande e robusto, alto di statura, senza essere sproporzionato – a quanto risulta, la sua altezza corrispondeva a sette volte la lunghezza del suo piede –; aveva testa rotonda, occhi molto grandi e vivaci, naso un po’ più lungo del normale, bei capelli bianchi, uno sguardo allegro e cordiale. Era un aspetto che gli conferiva grande autorevolezza, sia quando stava in piedi, sia quando sedeva; e i suoi difetti (il collo appariva grosso e corto, e il ventre troppo sporgente) li nascondeva l’armonia dell’insieme. Aveva passo fermo e portamento virile; la voce era acuta, ma poco adatta a un uomo della sua corporatura. 
Godeva di buona salute, tranne negli ultimi quattro anni prima della morte, quando era spesso colto di febbri; alla fine zoppicava anche da un piede . Anche allora, però, preferiva fare di testa sua che seguire i consigli dei medici: li detestava perché volevano convincerlo a rinunciare agli arrosti, cui era abituato, e a passare ai lessi.
Andava spesso a cavallo e a caccia, attività che gli erano congeniali, perché sulla terra sarebbe difficile trovare un popolo che in questo campo possa uguagliare i Franchi. Gli piacevano anche le acque termali calde, dove praticava spesso il nuoto; e a nuotare era così abile che nessuno potrebbe essergli a buon diritto considerato superiore. Anche per questo fu ad Aquisgrana che fece costruire la reggia, e lì passò costantemente gli ultimi anni di vita, fino alla morte. Alle terme invitava non solo i figli, ma anche i maggiorenti e gli amici, e talvolta anche una quantità di suoi uomini e guardie del corpo, tanto che capitava che cento e più persone facessero il bagno insieme.   

25. Aveva un’eloquenza ricca e prorompente, ed era in grado di esprimere con la massima chiarezza tutto ciò che voleva. Non si accontentò di conoscere la sua lingua materna, ma si impegnò anche nello studio delle lingue straniere: il latino lo imparò così bene che lo usava nei discorsi come la sua propria lingua, il greco riusciva a capirlo meglio che a parlarlo. Aveva parola così sciolta che poteva apparire anche mordace. 
Studiò con grande diligenza le arti liberali; ne venerava i maestri, (…) ebbe come maestro Albino, detto anche Alcuino, anch’egli diacono, un sassone della Britannia dottissimo in ogni campo. Con lui passava molto tempo, impegnandosi nell’apprendimento della retorica, della dialettica e soprattutto dell’astronomia: studiava l’arte del computo, e indagava con grande passione e acuto interesse le leggi del movimento degli astri.
Si sforzava anche di scrivere, e per questo teneva tutto intorno al letto, sotto i cuscini, tavolette e quaderni, per esercitarsi a tracciare l’alfabeto quando aveva del tempo libero. Ma iniziò al momento sbagliato, quando ormai era troppo tardi, e la fatica servì a poco.  


26. La religione cristiana, che gli era stata inculcata fin dall’infanzia, la praticò e la sostenne con sommo rispetto e devozione. Per questo costruì ad Aquisgrana una basilica di grande e varia bellezza, che impreziosì con oro e argento, con lampadari, con balaustre e porte di bronzo massiccio. Poiché non poteva procurarsi altrove le colonne e i marmi per costruirla, li fece trasportar via da Roma e Ravenna. Alla chiesa si recava assiduamente, al mattino e alla sera, e anche per le funzioni notturne e per la messa, almeno fino a quando la salute glielo permise. Si preoccupava molto che tutte le funzioni si svolgessero con il massimo decoro, e raccomandava in continuazione ai custodi di non far entrare o tenere nella chiesa nessun oggetto di brutto aspetto o di cattiva qualità. (…)

LA MINUSCOLA CAROLINA

LA FINE DELL'IMPERO CAROLINGIO E NASCITA DEL FEUDALESIMO

domenica 3 aprile 2016

UMANESIMO E RINASCIMENTO


Fra i concetti di Umanesimo e Rinascimento esiste una stretta relazione e per molti versi una sovrapposizione di significati.
Tuttavia il primo sottolinea in modo particolare il momento ideologico-culturale, la consapevolezza che di sé ebbe il nuovo periodo storico, mentre il secondo si riferisce soprattutto alle manifestazioni artistiche e ai fenomeni di costume, alla civiltà nel suo complesso.







L'ANTROPOCENTRISMO
Pico della Mirandola, "Oratio de hominis dignitate"



L'ESALTAZIONE DELLA VITA
Lorenzo de' Medici, "Il trionfo di Bacco e Arianna"


A. Carracci, Il trionfo di Bacco e Arianna




LA FORTUNA


Albrecht Dürer, Nemesis (La grande fortuna), acquaforte su rame, 1502-1503


L'OCCASIONE



      Bottega di A. Mantegna, Occasio e Paenitentia, 1500-1505

PROLOGO DELLA MANDRAGOLA
http://www.p4lmedia.net/pdf/lup_rossa/v1/PDF/Parte_V/OnLine_NeRossa_T_023_vol_2.pdf

Cacciari: Machiavelli e il suo tempo
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Perché la bontà non è sempre una virtù, spiega Machiavelli



Rileggere Machiavelli oggi
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2017/06/18/machiavelli-per-principianti44.html