La scuola di Atene

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mercoledì 2 maggio 2018

LA NARRATIVA IN ITALIA DALLO SPERIMENTALISMO DI GADDA AL NEOREALISMO

La deformazione linguistica in Gadda
http://www.raiscuola.rai.it/articoli/carlo-emilio-gadda-si-racconta/4087/default.aspx

Quer pasticciaccio brutto de via Merulana

Capitolo 1
Tutti oramai lo chiamavano don Ciccio. Era il dottor Francesco Ingravallo comandato alla mobile: uno dei più giovani e, non si sa perché, invidiati funzionari della sezione investigativa: ubiquo ai casi, onnipresente su gli affari tenebrosi. Di statura media, piuttosto rotondo della persona, o forse un po’ tozzo, di capelli neri e folti e cresputi che gli venivan fuori dalla metà della fronte quasi a riparargli i due bernoccoli metafisici dal bel sole d’Italia, aveva un’aria un po’ assonnata, un’andatura greve e
dinoccolata, un fare un po’ tonto come di persona che combatte con una laboriosa digestione: vestito come il magro onorario statale gli permetteva di vestirsi, e con una o due macchioline d’olio sul bavero, quasi impercettibili però, quasi un ricordo della collina molisana. Una certa prati- caccia del mondo, del nostro mondo detto «latino», benché giovine (trentacinquenne), doveva di certo avercela: una certa conoscenza degli uomini: e anche delle donne. La sua padrona di casa lo venerava, a non dire adorava: in ragione di e nonostante quell’arruffio strano d’ogni trillo e d’ogni busta gialla imprevista, e di chiamate notturne e d’ore senza pace, che formavano il tormentato contesto del di lui tempo. «Non ha orario, non ha orario! Ieri mi è tornato che faceva giorno! » Era, per lei, lo « statale distintissimo » lungamente sognato, preceduto da cinque A sulla inserzione del Messaggero, evocato, pompato fuori dall’assortimento infinito degli statali con quell’esca della «bella assolata affittasi» e nonostante la perentoria intimazione in chiusura: «Escluse donne»: che nel gergo delle inserzioni del Messaggero offre, com’è noto, una duplice possibilità d’interpretazione. E poi era riuscito a far chiudere un occhio alla questura su quella ridicola storia dell’ammenda... sì, della multa per la mancata richiesta della licenza di locazione.., che se la dividevano a metà, la multa, tra governatorato e questura. «Una signora come me! Vedova del commendatore Antonini! Che si può dire che tutta
Roma lo conosceva: e quanti lo conoscevano, lo portavano tutti in parma de mano, non dico perché fosse mio marito, bon’anima! E mo me prendono per un’affittacamere! Io affittacamere? Madonna santa, piuttosto me butto a fiume. 
 Nella sua saggezza e nella sua povertà molisana, il dottor Ingravallo, che pareva vivere di silenzio e di sonno sotto la giungla nera di quella parrucca, lucida come pece e riccioluta come d’agnello d’Astrakan, nella sua saggezza interrompeva talora codesto sonno e silenzio per enunciare qualche teoretica idea (idea generale s’intende) sui casi degli uomini: e delle donne. A prima vista, cioè al primo udirle, sembravano banalità. Non erano banalità. Così quei rapidi enunciati, che facevano sulla sua bocca il crepitio improvviso d’uno zolfanello illuminatore, rivivevano poi nei timpani della gente a distanza di ore, o di mesi, dalla enunciazione: come dopo un misterioso tempo incubatorio. « Già! » riconosceva l’interessato: « il dottor Ingravallo me l’aveva pur detto. » Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuoi dire gomitolo. Ma il termine giuridico « le causali, la causale » gli sfuggiva preferentemente di bocca: quasi contro sua voglia. L’opinione che bisognasse «riformare in noi il senso della categoria di causa » quale avevamo dai filosofi, da Aristotele o da Emmanuele Kant, e sostituire alla causa le cause era in lui una opinione centrale e persistente: una fissazione, quasi: che gli evaporava dalle labbra carnose, ma piuttosto bianche, dove un mozzicone di sigaretta spenta pareva, pencolando da un angolo, accompagnare la
sonnolenza dello sguardo e il quasi-ghigno, tra amaro e scettico, a cui per «vecchia» abitudine soleva atteggiare la metà inferiore della faccia, sotto quel sonno della fronte e delle palpebre e quel nero pìceo della parrucca. Così, proprio così, avveniva dei «suoi» delitti. «Quanno me chiammeno! ... Già. Si me chiammeno a me... può stà ssicure ch’è nu guaio: quacche gliuommero... de sberretà... » diceva, contaminando napolitano, molisano, e italiano.
La causale apparente, la causale principe, era sì, una. Ma il fattaccio era l’effetto di tutta una rosa di causali che gli eran soffiate addosso a molinello (come i sedici venti della rosa dei venti quando s’avviluppano a tromba in una depressione ciclonica) e avevano finito per strizzare nel vortice del delitto la debilitata «ragione del mondo». Come si storce il collo a un pollo. E poi soleva dire, ma questo un po’ stancamente, «ch’i femmene se retroveno addò n’i vuò truvà». Una tarda riedizione italica del vieto « cherchez la femme ». E poi pareva pentirsi, come d’aver calunniato ‘e femmene, e
voler mutare idea. Ma allora si sarebbe andati nel difficile. Sicché taceva pensieroso, come temendo d’aver detto troppo. Voleva significare che un certo movente affettivo, un tanto o, direste oggi, un quanto di affettività, un certo « quanto di erotia », si mescolava anche ai «casi d’interesse», ai delitti apparentemente più lontani dalle tempeste d’amore. Qualche collega un tantino invidioso delle sue trovate, qualche prete più edotto dei molti danni del secolo, alcuni subalterni, certi uscieri, i superiori,
sostenevano che leggesse dei libri strani: da cui cavava tutte quelle parole che non vogliono dir nulla, o quasi nulla, ma servono come non altre ad accileccare gli sprovveduti, gli ignari. Erano questioni un po’ da manicomio: una terminologia da medici dei matti. Per la pratica ci vuol altro! I fumi e le filosoficherie son da lasciare ai trattatisti: la pratica dei commissariati e della squadra mobile è tutt’un altro affare: ci vuole della gran pazienza, della gran carità: uno stomaco pur anche a posto: e, quando
non traballi tutta la baracca dei taliani, senso di responsabilità e decisione sicura, moderazione civile; già: già: e polso fermo. Di queste obiezioni così giuste lui, don Ciccio, non se ne dava per inteso: seguitava a dormire in piedi, a filosofare a stomaco vuoto, e a fingere di fumare la sua mezza sigheretta, regolarmente spenta. 

Capitolo 2
I parenti furono «avvertiti» ufficialmente a sera tardi, ma Ingravallo, fin da la matina, aveva proibito de falli entrà. Rinnovate inchieste e puntuali contestazioni autoptiche, tanto der capoccione don Ciccio che der maresciallo Valiani, be’, se sa, non significarono gran che. Be’, cioè: qualche evidenza di furto. Nessun’arme fu rinvenuta. Ma diversi tiretti e cassetti, a guardacce dentro, se capì che quarche cosa aveveno da sapé. Non apparvero poi tanto ignari, quanto dal di fuori si davan l’aria. Armi, no. E nessuna indicazione, eccettoché le gocce rosse per terra, e quel sangue... trascinato dai tacchi. Presso lo sciacquatore, in cucina, il pavimento a mattonelle era bagnato d’acqua. Un coltello «affilatissimo» e del tutto assente era il più indiziato d’aver potuto lavorare a quel modo. Le gocce, anziché da mano assassina, parevano gocciolate giù da un coltello. Nere, ora. La inopinata lucentezza, il tagliente e la breve acuità d’una lama. In lei uno sgomento. Lui, di certo, aveva colpito all’improvviso: e insistito poi nella gola, nella trachea, con efferata sicurezza. La «colluttazione» se pure era da credervi, doveva essere stata nient’altro che un misero conato, da parte della vittima, uno sguardo atterrito e subitamente implorante, l’abbozzo di un gesto: una mano levata appena, bianca, a stornare l’orrore, a tentar di stringere il polso villoso, la mano implacabile e nera dell’omicida, la sinistra, che già le adunghiava il volto e le arrovesciava il capo a ottener la gola più libera, interamente nuda e indifesa contro il balenare d’una lama: che la destra aveva già estratto a voler ferire, ad uccidere.
Una cerea mano si allentava, ricadeva... quando Liliana aveva già il cortello dentro il respiro, che le lacerava, le straziava la trachea: e il sangue, a tirà er fiato, le annava giù ner polmone: e il fiato le gorgogliava fuora in quella tosse, in quello strazio, da paré tante bolle de sapone rosse: e la carotide, la jugulare, buttaveno come due pompe de pozzo, lùf, lùf, a mezzo metro de distanza. Il fiato, l’ultimo, de traverso, a bolle, in quella porpora atroce della sua vita: e si sentiva il sangue, nella bocca, e vedeva quegli occhi, non più d’uomo, sulla piaga: ch’era ancora da lavorare: un colpo ancora: gli occhi! della belva infinita. La insospettata ferocia delle cose... le si rivelava d’un subito... brevi anni! Ma lo spasimo le toglieva il senso, annichilava la memoria, la vita. Una dolciastra, una tepida sapidità della notte.
Le mani, bianchissime, con quelle tenere unghie, color pervinca, ora, non presentavano tagli: non aveva potuto, non aveva osato afferrare il tagliente, o fermare la determinazione del carnefice. Si era conceduta al carnefice. Il viso e il naso apparivano sgraffiati, qua e là, nella stanchezza e nel pallore della morte, come se l’odio avesse oltrepassato la morte. Le dita erano prive di anelli, la fede era sparita. Né veniva in mente, allora, di imputarne la sparizione alla patria. Il coltello aveva lavorato da par suo. Liliana! Liliana! A don Ciccio pareva che ogni forma del mondo si ottenebrasse, ogni gentilezza del mondo.
L’incaricato dell’ufficio criminologico escluse il rasoio, che dà tagli più netti, ma più superficiali, così opinò, e, in genere, multipli: non potendo venir adibito di punta, né con tanta violenza. Violenza? Sì, la ferita era profondissima, orribile: aveva resecato metà il collo, a momenti. In tutta la camera da pranzo, no, nessun indizio... all’infuori der sangue. In giro pe l’altre camere nemmeno. Salvoché ancora sangue: delle tracce palesi ne lo sciacquatore de cucina: diluito, da parer quello d’una rana: e molte gocce scarlatte, o già nere, sur pavimento, rotonde e radiate come ne fa il sangue a lassallo gocciolà per terra: come sezioni d’asteroidi. Quelle gocce, orribili, davano segno d’un itinerario evidente: dal superstite ingombro del corpo, dalla tepida testimonianza di lei, morta!... Liliana! fino a lo sciacquatore de cucina, al gelo e al lavacro: al gelo che d’ogni memoria ci assolve. Molte gocce, nella camera da pranzo, ecco, di cui cinque o pure più ereno finitime all’altro sangue, a tutto quer pasticcio, alle macchie e alla pozza più grossa, de dove l’aveveno preso pe strascinallo in giro co le scarpe, queli maledetti caprari. Molte ner corridore, un po’ più piccole, molte in cucina: e alcune sfregate via come pe cancellalle co la sòla da nun falle vede su le mattonelle bianche, ad esagono. Furono tentati i mobili: undici fra cassetti e sportelli, d’armadi e de credenze, non li poterono aprire. Giuliano, in salotto, era guardato a vista da due agenti. Cristoforo j’aveva portato du panini e du aranci. Tutti quegli omacci seguitavano a girare e a scalpicciare per la casa. Un urto de nervi. Don Ciccio sedette, affranto, in anticamera, in attesa del giudice. Poi riandò là: guardò, come per un commiato, la povera creatura sopra a cui stavano a disputà sottovoce li fotografi, badando non insudiciarsi pure loro o le loro trappole, con lampade, schermi, fili, treppiedi, macchinoni a soffietto. Aveveno già scovato due prese de dietro a du portrone, e aveveno già fatto sartà la varvola du o tre vorte, una de le tre varvole de l’appartamento. Si decisero per il magnesio. Aggeggiavano come du angeloni sinistri pieni de voja de falla franca, al di sopra di quella terrificante stanchezza: un freddo, un povero relitto, ora, della cattiveria del mondo. Le loro manovre de mosconi, queli fili, quelo strigne li diaframmi, quer mettese d’accordo sottovoce pe vedé de nun faje pijà foco a tutta la baracca... erano il primo ronzare dell’eternità sui sensi opachi di lei, de quer corpo de donna che nun ciaveva più pudore né memoria. Operavano sulla «vittima» senza riguardarne la pena, e senza poterne riscattare l’ignominia. La bellezza, l’indumento, la spenta carne di Liliana era là: il dolce corpo, rivestito ancora agli sguardi. Nella turpitudine di quell’atteggiamento involontario - della quale erano motivi, certo, e la gonna rilevata addietro dall’oltraggio e l’ostensione delle gambe, su su, e del rilievo e della solcatura di voluttà che incupidiva i più deboli: e gli occhi affossati, ma orribilmente aperti nel nulla, fermi a una meta inane sulla credenza - la morte gli apparve, a don Ciccio, una decombinazione estrema dei possibili, uno sfasarsi di idee interdipendenti, armonizzate già nella persona. Come il risolversi d’una unità che non ce la fa più ad essere e ad operare come tale, nella caduta improvvisa dei rapporti, d’ogni rapporto con la realtà sistematrice.
Il dolce pallore del di lei volto, così bianco nei sogni opalini della sera, aveva ceduto per modulazioni funebri a un tono cianotico, di stanca pervinca: quasicché l’odio e l’ingiuria fossero stati troppo acerbi al conoscere, al tenero fiore della persona e dell’anima. Dei brividi gli correvano la schiena. Cercò a riflettere. Sudava.
(Carlo Emilio Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, in Romanzi e racconti II, a cura di Giorgio Pinotti, Dante Isella, Raffaella Rodondi, edizione diretta da Dante Isella, Garzanti, Milano 1989, pp. 67-70)

 ***
LA NASCITA DEL NEOREALISMO
Nel primo numero della rivista (29 settembre 1945) Vittorini spiega perché ha scelto di dare alla rivista da lui fondata, "Il Politecnico"lo stesso nome di quella fondata nel 1839 Carlo Cattaneo, scrittore e patriota:

L'altro Politecnico si pubblicava a Milano dal 1839 al '45 … Aveva un ideale pratico la cultura di Cattaneo: Primo bisogno è quello di conservare la vita, affermava il Manifesto d'Associazione al primo anno del Politecnico. Ma completava: La Pittura, la Scultura, l'Architettura, la Musica, la Poesia … e le altre arti dell'immaginazione scaturiscono da un bisogno che nel senso della civiltà diviene non meno imperioso di quello della sussistenza.

 Nell'articolo programmatico del Politecnico intitolato – non a caso – Una nuova cultura, Vittorini denuncia le responsabilità degli intellettuali di fronte agli orrori della guerra e auspica la nascita di una cultura  diversa, che si ponga l'obiettivo non di consolare ma di eliminare la sofferenza e lo sfruttamento:

Per un pezzo sarà difficile dire se qualcuno o qualcosa abbia vinto in questa guerra. Ma certo vi è tanto che ha perduto, e che si vede come abbia perduto. I morti, se li contiamo, sono più di bambini che di soldati; le macerie sono di città che avevano venticinque secoli di vita... E se ora milioni di bambini sono stati uccisi, se tanto che era sacro è stato lo stesso colpito e distrutto, la sconfitta è anzitutto di questa 'cosa' che c'insegnava l'inviolabilità loro. Questa 'cosa' non è altro che la cultura: lei che è stata pensiero greco, ellenismo, romanesimo, cristianesimo latino, cristianesimo medioevale, umanesimo, riforma, illuminismo, liberalismo... E se il fascismo ha avuto modo di commettere tutti i delitti  che questa cultura aveva insegnato ad esecrare già da tempo, non dobbiamo chiedere proprio a questa cultura come e perché il fascismo ha potuto commetterli?... Essa ha predicato, ha insegnato, ha elaborato principi e valori, ha scoperto continenti e costruito macchine ma non si è identificata con la società, non ha governato con la società, non ha condotto eserciti per la società... L'uomo ha sofferto nella società, l'uomo soffre. E che cosa fa la cultura per l'uomo che soffre? Cerca di consolarlo. Per questo suo modo di consolatrice in cui si è manifestata fino ad oggi, la cultura non ha potuto impedire gli orrori del fascismo. Nessuna forza sociale era 'sua' in Italia o in Germania per impedire l'avvento al potere del fascismo... Potremo mai avere una cultura che sappia proteggere l'uomo dalle sofferenze invece di limitarsi a consolarlo? Una cultura che le impedisca, che le scongiuri, che aiuti a eliminare lo sfruttamento e la schiavitù, e a vincere il bisogno, questa è la cultura in cui occorre che si trasformi tutta la vecchia cultura... Io mi rivolgo a tutti gli intellettuali italiani che hanno conosciuto il fascismo. Non ai marxisti soltanto, ma anche agli idealisti, anche ai cattolici, anche ai mistici. Vi sono ragioni dell'idealismo o del cattolicesimo che si oppongono alla trasfor­mazione della cultura in una cultura capace di lottare contro la fame e le sofferenze?

Il 10 ottobre 1946 il segretario del PCI Palmiro Togliatti interviene su Rinascita, settimanale del PCI, affermando che le idee positive e costruttive espresse da Vittorini nel primo numero del Politecnico si erano oggi ridotte a una ricerca astratta del nuovo, del diverso e del sorprendente, incapace di dare un contributo serio e utile al rinnovamento della cultura italiana.

Nella risposta a Togliatti, pubblicata sul numero 35 del Politecnico nel 1947, Vittorini pone una domanda: chi è lo scrittore rivoluzionario? Colui che non asseconda la politica limitandosi a  suonare il piffero, a ripetere parole d'ordine; rivoluzionario è lo scrittore che, attraverso gli strumenti della letteratura - sa individuare e comprendere le vere esigenze dell'uomo:

Rivoluzionario è lo scrittore che riesce a porre attraverso la sua opera esigenze rivoluzionarie, ma 'diverse' da quelle che la politica pone: esigenze … dell'uomo ch'egli soltanto sa scorgere nell'uomo, che è proprio di lui scrittore scorgere, e che è proprio di lui scrittore rivoluzionario porre, e porre 'accanto' alle esigenze che pone la politica. Quando io parlo di sforzi in senso rivoluzionario da parte di noi scrittori, parlo di sforzi rivolti a porre simili esigenze. E se accuso il timore che i nostri sforzi in senso rivoluzionario non siano riconosciuti come tali è perché vedo la tendenza a riconoscere come rivoluzionaria la letteratura di chi suona il piffero per la rivoluzione piuttosto che la letteratura di cui simili esigenze sono poste, la letteratura detta oggi di crisi.

Anni dopo, in una lettera a Calvino [1], Vittorini spiega che per lui la vera cultura è quella capace di ricercare la verità, senza piegarsi a nessuna esigenza esterna. Questa idea è stata alla base della sua battaglia sul Politecnico:

Nel Politecnico ho tentato di convincere i politici a riconoscere che se una parte della cultura  lavora per la civiltà e può, come tale, piegarsi anche alle esigenze politiche, un'altra parte della cultura (la cultura nel suo senso maggiore, e specialmente la poesia, le arti) lavora principalmente per la verità, per la ricerca della verità, e non può dunque assecondare le esigenze immediate della politica senza il rischio di perdere ogni senso e ogni valore.

[1]Gli anni del Politecnico Lettere 1941-1951, a cura di Carlo Minoia, Torino, Einaudi, 1977.

I filoni del Neorealismo
a) denuncia sociale e tensione simbolica (Pavese e Vittorini;)
b) tendenza documentaria volta a documentare l'orrore (Primo Levi)
c) il "realismo socialista" (Vasco Pratolini)
d) filone che congiunge il romanzo di formazione e la narrazione epica (Fenoglio, Pavese)
e) il romanzo resistenziale (Pavese, Fenoglio, Calvino)
f) impegno civile e denuncia sociale dopo il boom economico (Moravia, Calvino, Pasolini)
g) filone meridionalista (Alvaro, Silone).

Il realismo mitico - simbolico
PAVESE, PAESITUOI
Paesi tuoi è il primo romanzo di Cesare Pavese; composto nel 1939, verrà pubblicato nel 1941 dalla casa editrice Einaudi. Il tema centrale del romanzo è quello della contrapposizione tra la città e la campagna, simboleggiata dalle due figure principali: il meccanico torinese Berto e il contadino Talino. Questa antitesi viene ulteriormente sottolineata dal fatto che la campagna, focalizzata attraverso lo sguardo di Berto, viene presentata come un mondo ancestrale e magico, dominato dalle leggi dell’eros e della violenza.

Trama
 Berto e Talino, i due protagonisti, si conoscono in carcere, dove occupano la stessa cella: Berto si trova lì per aver investito un ciclista e Talino perché accusato d’incendio doloso ad una cascina nella campagna piemontese, dove vive. Trascorsa la reclusione e scontata la pena, Talino insiste affinché Berto lo segua a Monticello, suo paesino d’origine, per occuparsi della trebbiatrice e delle altre macchine della famiglia in vista dell’imminente mietitura, e guadagnarsi così il pane. Tuttavia, il vero intento di Talino è quello di avere qualcuno che lo possa difendere dalla probabile vendetta del compaesano a cui aveva incendiato la cascina per motivi di gelosia nei confronti della sorella Gisella. Berto, inizialmente molto scettico nei confronti del compagno di sventura e poco attirato dalla vita di campagna, rifiuta la proposta. In seguito però, cambia idea e decide di seguire Talino nelle Langhe. Il meccanico torinese rimane stupefatto davanti al paesaggio che gli si staglia davanti: è particolarmente impressionato dagli odori che regnano in campagna, tanto più forti e decisi rispetto a quelli cui è abituato. Anche il primo impatto con la vita rurale e con la famiglia di Talino non si rivelano per Berto così scontati: convinto della superiorità dei cittadini sui campagnoli, Berto fatica ad abituarsi al contesto e alla routine del luogo, e rimane basito davanti alla rudezza dei parenti di Talino, dal padre-padrone Vinverra alla madre e alle sorelle, rozze e sottomesse alla legge patriarcale dei campi. L’unica persona con cui Berto sente una certa sintonia e affinità è proprio Gisella, la sorella minore di Talino, una bella ragazza dalla sensualità prorompente.
Il meccanico torinese comincia a corteggiare la ragazza, pur avvertendo continuamente una profonda distanza tra sé e il mondo rurale in cui si trova. In segutio si scopre che Gisella in passato è stata violentata dal fratello Talino, colpevole di una passione incestuosa nei confronti della sorella. Quando Gisella inizia a manifestare un certo interesse per Berto, la gelosia brutale e la passione animalesca di Talino hanno il sopravvento: un giorno, mentre lui e Berto lavorano nei campi, davanti ad un gesto di gentilezza della sorella che offre da bere all’amico, Talino perde la testa e ferisce a morte la sorella con il suo tridente. Talino inizialmente fugge e si nasconde nel fienile, ma il giorno successivo fa ritorno a casa, dove Gisella è ormai agonizzante. Nonostante la drammaticità della situazione, Vinverra obbliga la famiglia a tornare al lavoro, e la ragazza viene lasciata a morire. Talino viene arrestato dai carabinieri e Berto di lì a poco torna in città.

Analisi
 Paesi tuoi è la prima opera narrativa lunga di Cesare Pavese e si inserisce in un punto specifico della sua carriera dello scrittore. Pavese infatti arriva alla scrittura in prosa dopo l’esperienza poetica assai particolare di Lavorare stanca (dove è già rilevante la componente narrativa, come emerge dall’uso del verso lungo) e durante il lavoro, nel periodo tra il 1936 e il 1946, a brevi racconti che confluiranno poi nelle edizioni postume di Notte di festa (1953), dei Racconti (1960) e di Ciau Masino (1968). Di quegli stessi anni poi è Il carcere, testo autobiografico sull’esperienza del confino a Brancaleone Calabro, che poi vedrà la luce solo nel 1949, insieme con La casa in collina. Paesi tuoi riassume così alcune caratteristiche della prima ricerca poetica e narrativa di Pavese: da un lato, le suggestioni della letteratura americana (la trama è chiaramente ispirata al romanzo Il postino suona sempre due volte, pubblicato nel 1936 dallo scrittore James Cain) che fanno di Paesi tuoi un antesignano della corrente del Neorealismo.
È significativo infatti che lo stesso Pavese, in una pagina de Il mestiere di vivere del novembre del 1949, etichetti Paesi tuoi (insieme con Il carcere, La bella estate e La spiaggia) sotto la categoria di “naturalismo”, come a sottolinearne la componente realistica, che emerge dalla rappresentazione del mondo rurale di Monticello e dalla riproduzione della parlata dei contadini. A questo livello si aggiunge però la componente mitico-ancestrale della narrazione, che è evidente dalla forte carica simbolica di molte pagine del romanzo, come quelle in cui si palesa il contrasto tra città e campagna o quelle in cui si fa ricorso a immagini metaforiche per esplicitare la carica sessuale di Gisella (come nel caso delle mele). Il simbolismo della vicenda rimanda infatti ad una tipica struttura tragica: le tensioni latenti (la passione animalesca di Talino per la sorella, l’attrazione fatale tra quest’ultima e Berto) esplodono nel dramma finale dell’omicidio della donna, che può essere trasparentemente inteso come una catarsi del tabù dell’incesto.

Questo sdoppiamento tra realtà e simbolo - che fece sì che all’epoca Paesi tuoi venne letto dalla critica come un’opera fortemente anticonformista e contenutisticamente scandalosa - si riflette anche sul piano stilistico: la sintassi è infatti modellata sull’oralità, secondo quella che sarà una tendenza tipica di altre opere neorealistiche, con frequente ricorso al discorso diretto e alle scene dialogate. La lingua prende la forma e le movenze dell’italiano regionale piemontese, e numerosi sono i calchi di espressioni dialettali con cui Pavese connota la parlata dei suoi personaggi. La vicenda viene così descritta attraverso il punto di vista e la focalizzazione di Berto, da cui dipendono i vari inserti di discorso indiretto libero. Spesso tuttavia nei suoi pensieri e nelle sue espressioni è ravvisabile l’intervento dell’autore, soprattutto là dove lo stile si innalza e dove aumentano i rimandi simbolici.

Tornato Vinverra, cominciano a scaricare. Il grassone aveva disfatto le corde che tenevano fermi i covoni, poi s’erano messi col tridente, lui e Talino, sopra il carro, e piantavano delle forcate là dentro, come due facchini. Sotto, Ernesto e le ragazze prendevano in spalla i covoni e li gettavano sotto il portico.
– Su e giù, su e giù, – gridava quello grasso, in mezzo alla polvere e al sole, – domani ballate per l’ultima volta.
A vedere Ernesto che s’era tolto la giacca e faceva il contadino, e la schiena piegata di quelle ragazze, e l’Adele che dalla finestra della sua stanza guardava e pareva che ridesse, mi viene vergogna e do mano a un tridente per aiutare anch’io. – Forza, – grida Talino, – si mette anche il macchinista -. Parlava sghignazzando, il sudore e le vene del collo lo eccitavano. I covoni pesavano e Talino me li gettava sulla testa come fossero dei cuscini. Ma tenevo duro; dopo cinque o sei viaggi vedevo solo come un incendio e avevo in bocca un sapore di grano, di polvere e sangue. E sudavo.
Poi mi fermo, arrivando sotto il portico. Quelle erano le gambe di Gisella. Il covone mi bruciava il collo come un disinfettante. E sento Talino che dice: – Gisella è venuta a vederti, forza! – Getto il covone sul mucchio e la vedo che passa ridendo, col secchio, fresca e arrabbiata. Mi asciugo il sudore, e Gisella era già contro il pozzo, che agganciava. Tanto io che Ernesto le lasciamo tirare su l’acqua, e poi corriamo insieme a bere. – Uno per volta, – diceva Gisella, e gli altri due si fermano lassù coi tridenti piantati.
– Quando abbiamo finito, porta qui la bottiglia, – dice Vinverra traversando il portico.
Mi ricordo che Gisella guardava dritto nel grano, mentre bevevo. Guardava tenendomi il secchio a mani giunte, con fatica, come aveva fatto per Ernesto ma lui lo guardava, e con me stava invece come se godesse facendosi baciare. Quando ci penso, mi sembra così. O magari era soltanto lo sforzo, e il capriccio di avercene due intorno che bevevano. Non gliel’ho più potuto chiedere.
Ecco che saltano dal carro Talino e Gallea. Vengono avanti come due ubriachi, Talino il primo, con le paglie in testa e il tridente in pugno.
– Là si lavora e qui si veglia, – fa con la voce di suo padre.
– C’è chi veglia di notte e chi veglia di giorno, – gli risponde Gisella. Ma lui dice: – Fa’ bere, – e si butta sul secchio e ci ficca la faccia. Gisella glielo strappa indietro e gli grida: – No, così sporchi l’acqua -. Dietro, vedo la faccia sudata dell’altro. – Talino, – fa Ernesto, – non attaccarti alle donne.
Forse Gisella cadeva; forse in tre potevamo ancora fermarlo; queste cose si pensano dopo. Talino aveva fatto due occhi da bestia e, dando indietro un salto, le aveva piantato il tridente nel collo. Sento un grosso respiro di tutti; Miliota dal cortile che grida «Aspettatemi»; e poi Gisella lascia andare il secchio che m’inonda le scarpe. Credevo fosse il sangue e faccio un salto e anche Talino fa un salto, e sentiamo Gisella che Gorgoglia: – Madonna! – e tossisce e le cade il tridente dal collo.
Mi ricordo che tutto il sudore mi era gelato addoso e che anch’io mi tenevo la mano sul collo, e che Ernesto l’aveva già presa alla vita e Gisella pendeva, tutta sporca di sangue, e Talino era sparito. Vinverra diceva «d’un cristo, d’un cristo» e corre addosso ai due nel trambusto la lasciano andar giù come un sacco, a testa prima nel fango. – Non è niente, – diceva Vinverra, – è una goffa, àlzati su -. Ma Gisella tossiva e vomitava sangue, e quel fango era nero. Allora la prendiamo, io per le gambe, e la portiamo contro il grano e non potevo guardarle la faccia che pendeva, e la gola saltava perdendo di continuo. Non si vedeva più la ferita.
Poi arrivano le sorelle, arrivano i bambini e la vecchia, e cominciano a gridare, e Vinverra ci dice di stare indietro, di lasciar fare alle donne perché bisogna levarle la camicetta. – Ma qui ci vuole un medico, – dico, – non vedete che soffoca? – Anche Ernesto si mette a gridare e per poco col vecchio non si battono. Finalmente parte Nando e gli grido dietro di far presto, e Nando corre corre come un matto.
– Altro che medico, – dice Gallea che ci guardava dal pilastro – ci vuole il prete.
– E Talino? – fa Ernesto, con gli occhi fuori.
In quel momento l’Adele tornava col catino correndo e si fa largo e s’inginocchia. Mi sporgo anch’io e sento piangere e vedo la vecchia che le tiene la testa, e Miliota che piange e l’Adele le tira uno schiaffo. Gisella era come morta, le avevano strappata la camicetta, le mammelle scoperte, dove non era insanguinata era nuda. Poi la vecchia ci grida di non guardare. Mi sento prendere il braccio. – Dov’è Talino? – chiede ancora Ernesto.
Si fa avanti Gallea. – È scappato sul fienile, – ci dice tutto scuro, – gli ho levata la scala.
Ernesto voleva salire. Gallea lo tiene e lo tengo anch’io. Batto i piedi in un manico. Era il tridente di Gisella, tutto sporco sul manico ma non sulle punte. – Teniamo questo, – gli dico, – senz’un’arma Talino è un vigliacco.
Poi sentiamo di nuovo tossire. Meno male, era viva. Il fango dov’era caduta col secchio faceva spavento, così nero; e la strada fino al grano era sempre più rossa, più fresca. Vinverra ricomincia a bestemmiare coi bambini, e si guardava intorno: cercava Talino. Si alza l’Adele e dice a Pina: – tu va’ avanti -. Poi chiamano Ernesto che venga a aiutare. Io no, perché ero nuovo, e da quel momento mi cessò il sopraffiato e cominciarono a tremarmi i denti. La prendono Ernesto e Vinverra; e Miliota le teneva un braccio. La vecchia mandava via i bambini. Attraversano adagio il cortile, le avevano coperto le mammelle, entrano in cucina. Le vedo l’ultima volta i capelli che pendevano e una gamba scoperta. Poi la portano su.
(C. Pavese, Paesi tuoi, 1941)

Il romanzo resistenziale
PAVESE, LA CASA IN COLLINA

Cesare Pavese pubblica il romanzo La casa in collina nel 1949 insieme con Il carcere nel volume unico Prima che il gallo canti. Se Il carcere risale al periodo tra il 1938 e il 1939 e rievoca l’esperienza del confino dell’autore a Brancaleone Calabro tra il 1935 e il 1936, La casa in collina indaga le conseguenze psicologiche e sociali del secondo conflitto mondiale e della Resistenza, cui Pavese stesso non partecipa, rifugiandosi, come il protagonista, in campagna. In entrambe le opere la narrazione è dunque fortemente intrisa di elementi autobiografici, che fanno trasparire alcune costanti della poetica di Pavese: il legame disarmonico tra l’intellettuale e la realtà, il rapporto complesso con il mondo rurale delle Langhe contrapposto a quello della città, il ruolo della memoria individuale.


Trama
Protagonista e narratore delle vicende è Corrado, un docente torinese che per sfuggire ai bombardamenti che imperversano nella città si è trasferito in collina presso una donna, Elvira, e la madre di lei. Le colline torinesi sono abitate da schietta gente del luogo e da persone di città che, come lui, hanno bisogno di un rifugio. Così, malgrado Corrado prediliga la solitudine e l’isolamento, si unisce ai frequentatori di un’osteria, le Fontane,che scopre essere gestita da un suo amore del passato, Cate, che ha un figlio, Corrado (chiamato da tutti Dino), che, per motivi anagrafici, potrebbe essere addirittura suo figlio. Corrado infatti anni addietro aveva interrotto la relazione con Cate per scansare le responsabilità di un rapporto maturo ed anche adesso, di fronte alla tragedia della guerra, vive con apparente indifferenza le vicende storiche che accadono intorno a lui.
Corrado si unisce al gruppo dell’osteria e, pur non scoprendo mai la verità circa la paternità di Dino, inizia a trascorrere molto tempo con lui (in maniera simile a quanto accadrà tra Anguilla e Cinto ne La luna e i falò). Nel frattempo il protagonista si interroga anche sul suo amore per Cate, che forse non si è del tutto estinto, e sul suo impegno storico e civile in un drammatico frangente storico, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Tuttavia Corrado non esterna mai le proprie idee e non si risolve mai all’azione, osservando da spettatore la barbarie della guerra, che devasta il mondo delle Langhe, strettamente legato ai ricordi infantili di Corrado.
La situazione è sconvolta da una retata dei nazisti, che all’osteria arrestano Cate e gli altri amici di Corrado, che, di ritorno da Torino, riesce fortunosamente a salvarsi assieme a Dino. Rifugiatosi prima da Elvira, innamorata di lui, e poi in un collegio a Chieri (nei pressi di Torino), Corrado affida Dino alle cure delle due donne. Il ragazzo in seguito raggiungerà il protagonista al collegio ma presto sceglie di arruolarsi nelle fila partigiane. Corrado, insicuro e incapace di affrontare l’impegno di una scelta, decide di tornare al paese natale e alla sua “casa in collina”. Durante il viaggio di ritorno, incappa in un’imboscata partigiana e la vista dei cadaveri dei fascisti gli suggerisce amare e disilluse riflessioni sul senso della guerra, dell’esistenza umana e della sua crisi esistenziale che, nella conclusione del romanzo, non è destinata a risolversi.

Analisi
Nella Casa in collina Pavese tratta una volta ancora quel dissidio tra la solitudine contemplativa dell’intellettuale e la presa di posizione storica ed ideologica che gli eventi storici richiederebbero. Pavese avverte profondamente questo dissidio per motivi autobiografici e lo traspone, attraverso la scelta della narrazione in prima persona, nella figura di Corrado. Il protagonista, debole e irresoluto, è preso all’interno di una serie di antitesi tra cui non sa decidersi. La prima di queste è quella tra la città e la collina: se Torino è devastata dai bombardamenti, inizialmente la campagna delle Langhe si presenta come un luogo sicuro e protetto, in cui Corrado può rivivere i ricordi dell’infanzia o l’amore passato con Cate. Tuttavia, ben presto la Storia nullifica questa opposizione: dopo l’8 settembre, con lo scoppio della guerra civile tra nazifascisti e partigiani, anche il mondo della campagna è attraversato dalla violenza e tutti sono chiamati a scelte drastiche e radicali. In questo senso, è significativa l’assenza di Corrado nel momento cruciale della retata e il suo successivo disimpegno, con la scelta di rimanere nascosto da Elvira prima e nel collegio poi.
La seconda antitesi è appunto quella tra chi si impegna (mostrando un legame attivo tra sé e il mondo esterno) e chi, come Corrado, è vittima del dubbio e dell’incertezza. Bisogna notare che questa crisi riguarda sia la vita privata che quella pubblica di Corrado. Se egli infatti non sa decidersi ad aderire alla lotta partigiana contro i repubblichini, sul piano personale è succube di tormenti analoghi. Corrado infatti non sa se Dino è davvero figlio suo, ma prova ad identificarsi in lui e a svolgere un ruolo paterno nei suoi confronti. Assai significativa in questo caso la decisione finale di Dino di abbandonare la sicurezza del collegio per entrare tra i partigiani, abbandonando Corrado nella sua incapacità di agire. In secondo luogo, quando rivede Cate il protagonista si domanda se il loro amore sia davvero finito, ma non fa nulla per riallacciare davvero il loro legame; dopo la retata, Corrado non saprà più nulla del destino della donna. In terzo luogo, Corrado preferisce quasi sempre la solitudine al rapporto con gli altri e con il mondo: prova ne è prima il suo rifugio nel microcosmo familiare della casa di Elvira e della madre e poi la scelta di autoescludersi da tutto ritornando alla “casa in collina”.
Ultima e più profonda antitesi è quella tra l’uomo e la Storia, di cui la guerra è una metafora assai evidente ed esplicita. Qui la crisi interiore di Corrado diventa una più ampia riflessione dell’autore sul significato dell’esistenza umana, in relazione con il valore della nostra vita e il senso della morte, specie quella di natura violenta. Corrado non riesce e non sa risolvere questo enigma, come testimoniano le ultime righe del romanzo:
Ci sono dei giorni in questa nuda campagna che camminando ho un soprassalto: un tronco secco, un nodo d'erba, una schiena di roccia, mi paiono corpi distesi... Io non credo che possa finire. Ora che ho visto cos'è la guerra, cos'è la guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: - E dei caduti che facciamo? Perché sono morti? - Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero.

La conclusione del romanzo
Le riflessioni di Corrado e il senso che esse danno a tutta La casa in collina diventano particolarmente significative nell’ultimo capitolo, quando Corrado è ormai solo e ha perduto gran parte dei propri punti di riferimento nelle altre figure della narrazione. I pensieri del protagonista vanno con insistenza al significato della violenza e della guerra:
È qui che la guerra mi ha preso, e mi prende ogni giorno. [...] non è che non veda come la guerra non è un gioco, quella guerra che è giunta fin qui, che prende alla gola anche il nostro passato. [...] Ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura di scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce, giustificare chi l’ha sparso.
La conclusione appare così un esame di coscienza del protagonista, che, da intellettuale e letterato, osserva l’insensata sofferenza della guerra, senza prenderne parte attivamente e senza trovare una giustificazione alle morti che il conflitto sta causando. Corrado da un lato comprende la dolorosa condizione umana, ma dall’altro si rammarica della propria impotenza e dell’impossibilità di fermare la sofferenza collettiva. Ed è qui che si realizza il paradosso della riflessione: forse, quando tutti avranno preso parte alla lotta e non ci saranno più differenze tra chi ha combattuto e chi no, allora si riuscirà a trovare la pace agognata. Corrado riflette anche sulla sua continua fuga da un conflitto inevitabile e il suo tentativo di vivere una vita tranquilla:
E se non fosse che la guerra ce la siamo covata nel cuore noialtri, noi non più giovani, noi che abbiamo detto “Venga dunque se deve venire”, - anche la guerra, questa guerra, sembrerebbe una cosa pulita. Del resto chi sa. Questa guerra ci brucia le case. Ci semina di morti fucilati le piazze e strade. Ci caccia come lepri di rifugio in rifugio. Finirà per costringerci a combattere anche noi, per strapparci un consenso attivo. E verrà il giorno che nessuno sarà fuori della guerra.
Il personaggio di Corrado appare, soprattutto in queste ultime pagine, come l’alter ego dello scrittore, che, attraverso La casa in collina, analizza se stesso, i propri incubi e le proprie paure. Ma il destino del protagonista può essere interpretato anche in chiave universale:diventa simbolo dell’uomo moderno e dell’insensatezza della morte, emblematizzata dai cadaveri sulla strada, che diventano per Corrado simboli della colpa e della vergogna.
https://library.weschool.com/lezione/cesare-pavese-romanzo-la-casa-in-collina-guerra-suicidio-5938.html

M'accorgo adesso che in tutto quest'anno, e anche prima, anche ai tempi delle magre follie, dell'Anna Maria, di Gallo, di Cate, quand'eravamo ancora giovani e la guerra una nube lontana, mi accorgo che ho vissuto un solo lungo isolamento, una futile vacanza, come un ragazzo che giocando a nascondersi entra dentro un cespuglio e ci sta bene, guarda il cielo da sotto le foglie, e si dimentica di uscire mai più.
E' qui che la guerra mi ha preso, e mi prende ogni giorno. Se passeggio nei boschi, se a ogni sospetto di rastrellatori mi rifugio nelle forre, se a volte discuto coi partigiani di passaggio (anche Giorgi c'è stato, coi suoi: drizzava il capo e mi diceva: "Avremo tempo le sere di neve a riparlarne"), non è che non veda come la guerra non è un gioco, questa guerra che è giunta fin qui, che prende alla gola anche il nostro passato. Non so se Cate, Fonso, Dino, e tutti gli altri, torneranno. Certe volte lo spero, e mi fa paura. Ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placano, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l'ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l'impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce - si tocca con gli occhi - che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione.
Ci sono giorni in questa nuda campagna che camminando ho un soprassalto: un tronco secco, un nodo d'erba, una schiena di roccia, mi paiono corpi distesi. Può sempre succedere. Rimpiango che Belbo sia rimasto a Torino. Parte del giorno la passo in cucina, nell'enorme cucina dal battuto di terra, dove mia madre, mia sorella, le donne di casa, preparano conserve. Mio padre va e viene in cantina, col passo del vecchio Gregorio. A volte penso se una rappresaglia, un capriccio, un destino folgorasse la casa e ne facesse quattro muri diroccati e anneriti. A molta gente è già toccato. Che farebbe mio padre, che cosa direbbero le donne? Il loro tono è " La smettessero un po'", e per loro la guerriglia, tutta quanta questa guerra, sono risse di ragazzi, di quelle che seguivano un tempo alle feste del santo patrono. Se i partigiani requisiscono farina o bestiame, mio padre dice: - Non è giusto. Non hanno il diritto. La chiedano piuttosto in regalo. - Chi ha il diritto? - gli faccio. - Lascia che tutto sia finito e si vedrà, - dice lui.
Io non credo che possa finire. Ora che ho visto cos'è guerra, cos'è guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: - E dei caduti che facciamo? perché sono morti? - Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero.
(C. Pavese, La casa in collina, 1948)

FENOGLIO
http://www.manzoni.gov.it/2017/files/fenoglio_una_questione_privata_luperini.pdf

IL PARTIGIANO JOHNNY
Il partigiano Johnny è l’opera più nota di Beppe Fenoglio. A partire dalla sua pubblicazione postuma, nel 1968, grazie all’edizione curata da Lorenzo Mondo, che scelse il titolo del romanzo 1, è cominciata la riscoperta di questo autore, che viene considerato oggi uno dei più importanti del secondo Novecento italiano. Nel Partigiano Johnny il racconto della Resistenza nelle Langhe, che in Una questione privata si sviluppava attraverso l’orizzonte intimo ed esistenziale del protagonista Milton, viene trasceso ed elevato a livello epico. Nutrita fortemente dalla memoria diretta dell’autore (che fu partigiano in quei luoghi, ovvero le colline attorno alla città piemontese di Alba), quella di Johnny diventa l’epopea individuale e al tempo stesso universale dell’eroe partigiano.

Trama
La storia di Johnny assomiglia a quella del protagonista di Una questione privata: un giovane studente con la passione per la poesia inglese, sbandato dopo l’8 settembre 1943, riesce a ritornare dai genitori ad Alba, che è occupata dai tedeschi, e tuttavia decide di “andare in montagna” con i partigiani per assecondare la propria utopia di lotta per la libertà contro i nazifascisti. Quella di Johnny è la storia di una formazione: prima, in città, nelle discussioni con il professor Chiodi e i suoi allievi sul senso di diventare partigiano, poi, “sul campo”, dove emerge il problema di appartenere a una collettività fatta di uomini diversi per estrazione sociale, provenienza geografica e convinzioni ideologiche.

Fin da subito, Johnny si mostra a suo agio nelle privazioni della vita partigiana e molto abile nelle azioni militari; tuttavia matura in lui una forte insofferenza verso il ricorso ingiustificato alla violenza a cui tanti compagni si abbandonano, verso la disorganizzazione dei gruppi combattenti e, soprattutto, verso i tentativi d’imporre alla lotta partigiana un connotato politico specifico. A farlo sono in particolare i comunisti del commissario Némega, tra i quali Johnny si arruola inizialmente e dai quali, per questo motivo, si allontana presto, complice anche la morte di Tito, giovane siciliano, con cui Johnny, nonostante le differenze di provenienza e cultura, aveva sentito di condividere il senso dell’azione partigiana.

Johnny passa cosi alle brigate “azzurre” dei badogliani, comandate dal partigiano Nord, che per il suo nobile portamento esercita un notevole fascino su di lui. Qui Johnny ritrova l’amico Ettore e incontra il tenente Pierre: a loro rimarrà legato fino alla fine. La presa di Alba da parte dei partigiani, il 10 ottobre 1944, e la sua perdita 23 giorni dopo 2, però, segnano l’inizio di un lunghissimo inverno, mitigato solo dalla breve frequentazione con Elda, ragazza graziosa e un po’ sfacciata, che però si dimostra capace di sacrificarsi per amore di Johnny. I rastrellamenti nazifascisti costringono il protagonista a nascondersi, prima insieme a Pierre ed Ettore, poi, dopo il ferimento del primo e la cattura del secondo, in completa solitudine. Johnny tenta di riscattare Ettore procurandosi un prigioniero fascista, come il Milton di Una questione privata; lo scambio però non riesce e Johnny è costretto a riprendere il vagabondaggio, esposto al freddo, alla fame e agli sguardi indiscreti delle spie, ma forte della calma datagli dalla convinzione di soffrire per una giusta causa.

Il 31 gennaio 1945 Nord convoca tutti i partigiani superstiti per annunciare la ripresa della lotta, e Johnny si accorge di non sopportare più le difficoltà e i compromessi della vita collettiva. Tuttavia, durante il primo scontro con i nazifascisti, all’ingresso del paese di Valdivilla, Johnny avverte un’euforia per il ritorno all’azione, che si esprime in un senso di distanza rispetto ai compagni. Così, nonostante la chiamata della ritirata, Johnny prende il fucile e si lancia nella battaglia: “Due mesi dopo la guerra era finita” , ma della sua sorte non si sa nulla.

La lingua del Partigiano Johnny
Il carattere più rilevante di questo romanzo è rappresentato dalla lingua elaborata da Fenoglio per raccontare la storia di Johnny. Si tratta di uno stile unico, che trova origine nella passione dell’autore, e del suo personaggio, per la lingua inglese, ritenuta espressione di una cultura pura e nobile (quella del teatro di Shakespeare e dell’amato Marlowe, o della poesia di Donne, Coleridge e Hopkins 4). Sulla base di un italiano colto e ricchissimo a livello lessicale, grazie anche ai numerosi neologismi, si innestano continui inserti in lingua inglese, che variano dalla singola parola (“la panica stilness delle alte colline”) all’intera frase (“Ma Johnny fell in abstraction”), fino a due pagine scritte interamente in inglese per riportare il colloquio di Johnny con due prigionieri sudafricani. Anche a livello sintattico, la ricerca fenogliano si volge verso una soluzione “alta” e nobile, che si faccia simbolo e metafora dell’universo di valori e di tensioni che animano il protagonista.

Un simile mélange, che produce un effetto di spaesamento nel lettore, dimostra la grande maturità stilistica di Fenoglio, che, per aggirare la convenzionalità dell’italiano “scolastico”, i modelli “realistici” del Neorealismo e le rigidità del dialetto (già usato nella Malora), crea una lingua irregolare, in cui l’inglese interviene a esprimere la voce dell’autentica identità del personaggio. E d’altronde è in inglese una delle frasi più emblematiche del romanzo:

I’m in the wrong sector of the right side .

Pronunciata da Johnny al suo arrivo nella brigata comunista, questa frase vale in realtà come sua massima esistenziale, poiché egli continuerà ad avvertire questo senso di estraneità anche quando sarà tra i badogliani. Pochi sono i compagni con cui riesce a sentire una vera vicinanza (Ettore, Pierre, Tito); nei confronti di tutti gli altri matura un orgoglioso senso di diversità, nutrito dall’insofferenza, poiché ai suoi occhi l’impreparazione, la violenza gratuita e l’ortodossia ideologica sono tanti modi di fraintendere il vero senso della lotta partigiana.

Per Johnny “partigiano, come poeta, è parola assoluta, rigettante ogni gradualità”, come Fenoglio fa dire a un personaggio, peraltro comunista. Questa dimensione assoluta, però, appare raggiungibile solo al di fuori dei compromessi dell’azione collettiva. Solo nella solitudine l’uomo può compiere le proprie scelte secondo un senso di giustizia che non si misura sull’esito di un singolo evento, ma su quello della causa superiore, come l’onore individuale e la Liberazione finale.
Cfr.:https://library.weschool.com/lezione/il-partigiano-johnny-beppe-fenoglio-riassunto-trama-analisi-personaggi-11218.html

La parola "partigiano"
E Cocito proseguì: - Tutto sta nell’ intendersi sul vero significato della parola partigiano, sbirciando Chiodi così sideways che la sua pupilla occhieggiò netta fuori dalla lente. E Chiodi disse con forza sospirosa: - Partigiano è, sarà chiunque combatterà i fascisti-. Cocito lampeggiò uno sguardo circolare su tutti quelli che avevano istantaneamente accettata la versione di Chiodi. Poi disse:- Ognuno di voi è infallantemente sicuro di riuscire un partigiano. Non dico un buon partigiano, perché partigiano, come poeta, è parola assoluta, rigettante ogni gradualità-. Johnny sbirciava Chiodi, finiva di bere il suo aperitivo con heavy repugnance. 
E Cocito:- Facciamo un piccolo esamino di tipo scolastico, se volete, sul partigiano. Possiamo accettare la definizione di Chiodi per cui partigiano è colui che spara con buona mira, con mira definitiva, sui fascisti?
Tu, Johnny: avvisti un fascista od un tedesco e ti appresti a sparargli, sempre in onore e fulfilment della definizione. Però, si presenta un però: sparandogli ed uccidendolo, può accadere che dopo un paio d’ore appaia nella località o nei paraggi una colonna tedesca o fascista e per rappresaglia la metta a ferro e fuoco, uccidendo dieci, venti, tutti gli abitanti di essa località. A conoscenza di una simile possibilità, tu Johnny spareresti ugualmente?
-No,- disse Johnny d’ impeto e Cocito rise dietro gli occhiali -.
 Continuiamo per questa strada irta ma istruttiva, converrete.. Johnny se tuo padre fosse fascista, e fascista attivo, al punto da poter compromettere la sicurezza tua e della tua formazione partigiana, tu ti sentiresti di ucciderlo?- Johnny chinò la testa, ma un altro disse con una certa foga stammering:- Ma professore , lei fa soltanto casi estremi.- La vita del partigiano è tutta e solo fatta di casi estremi. Procediamo. 
Johnny, se tu avessi una sorella, useresti questa tua sorella, impiegheresti il sesso di questa sorella per accalappiare un ufficiale tedesco o fascista e farlo portare al fatto in luogo ragionevolemente comodo; dove tu già sei appostato per farlo fuori?- Nessuno pronunciò quel no che del resto già urlava da solo nel desertico silenzio, e allora Cocito agitò le mani come a sbriciolare qualcosa. Ma Chiodi si eresse faticosamente sulla sua sedia: - Il professore intende dire che non si può essere partigiani senza un preciso substrato ideologico: La libertà in sé non gli pare più sufficiente struttura ideologica. In ultima istanza, il professore vuol dire che non si sarà partigiani se non si sarà comunisti. 
[…]
E Chiodi si voltò un’ultima volta e disse, con la faccia stanca, aggravata dalla barba trascurata: - Ragazzi, teniamo di vista la libertà. 
(B. Fenoglio, Il partigiano Johnny", cap. II, pp. 23- 25)

UNA QUESTIONE PRIVATA
https://docs.google.com/file/d/0B88KqbtvDKdHYlFnb09tUDJWTFE/edit


CALVINO (Il sentiero dei nidi di ragno)
Prefazione a Il sentierodei nidi di ragno
http://online.scuola.zanichelli.it/testiescenari/files/2009/05/pp1832-1834.pdf

Pin
http://www.schule.suedtirol.it/pi/faecher/italienisch/documents/Prova14.pdf



La memorialistica e il romanzo neorealista di impronta documentaria

PRIMO LEVI, Se questo è un uomo

Shemà
Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un si o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi, alzandovi.
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.
(P. Levi, esergo di Se questo è un un uomo)

L'apostrofe e la memoria: Shemà (trad.: "Ascolta")
http://aulalettere.scuola.zanichelli.it/le-figure-retoriche/lapostrofe-e-la-memoria-come-maledizione/

Da Se questo è un uomo, L'inizio del viaggio
http://www.mondadorieducation.it/risorse/media/secondaria_primo/italiano/giallo_rosso_blu3_lett/testi_audio/inizio_viaggio/inizio_del_viaggio_1.pdf

Da Se questo è un uomo, Il canto di Ulisse
https://it.pearson.com/content/dam/region-core/italy/pearson-italy/pdf/italiano/dante-primo-levi.pdf



Il romanzo neorealista di impegno sociale
CALVINO, La giornata di uno scrutatore
Riflessioni sul romanzo La giornata di uno scrutatore
http://digilander.libero.it/uniboFilocalia/ITALO%20CALVINO,%20l'umano%20arriva%20dove%20arriva%20l'amore.pdf

PASOLINI, Una vita violenta, pp. 343-448
http://www.bdf.hu/btk/flli/romanisztika/OKTATSARS%20DOCENDI/TANANYAGOK%20%28OKTAT%C3%93%20SZERINT%29/ANTONIO%20SCIACOVELLI/LETTERATURA/NOVECENTO/Pasolini%20una%20vita%20violenta.pdf

Pasolini, da Scritti corsari, "Contro la televisione"
http://www.filosofico.net/Antologia_file/AntologiaP/Pasolini_01.htm

Pasolini, le ceneri di Gramsci
Testo: http://web.tiscali.it/minores/Ceneri_di_Gramsci.pdf
Commento di Alessandro Banda:
Trascrizione dell'intervista di Enzo Biagi a Pasolini



La tv e l'omologazione


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