La scuola di Atene

sabato 1 dicembre 2018
PLAUTO, PSEUDOLUS
Dopo che se ne è andato, tu resti qua da solo, Pseudolo. Ebbene, che farai adesso, dopo che generosamente hai elargito promesse al tuo padroncino?
Su che cosa si fondano quelle promesse? Non hai niente di pronto: neppure l'ombra di un piano sicuro, né un tantino di denaro...
Né ho un'idea di quel che devo fare! Non sai da dove cominciare a ordire la tua tela, né sai con certezza dove finirai di tesserla.
Ma come un poeta, prese le sue le tavolette, cerca ciò che non esiste da nessuna parte del mondo, e tuttavia lo trova, riuscendo a rendere verosimile quello che è invenzione (menzogna), così farò io: ora io diventerò poeta, e le venti mine, che adesso non esistono in nessuna parte del mondo, tuttavia le troverò.
(Pseudolus, atto I, scena 4, vv. 394-405)
http://www.edu.lascuola.it/edizioni-digitali/Cappelli/HortusApertus
IL SERVO-GENERALE
http://online.scuola.zanichelli.it/perutelliletteratura/files/2010/01/testi-it_plauto_t22.pdf/vol_1/Plauto/03_Contesti.pdf
giovedì 18 ottobre 2018
LA SOCIETÀ DELLO SPETTACOLO
noi lasceremo il cancan litografato sugli scatolini da fiammiferi. Non discutiamo nemmeno sulle proporzioni; l’arte allora era una civiltà, oggi è un lusso: anzi un lusso da scioperati.
In un’atmosfera di Banche e Imprese industriali - conclude Verga - non c’è più spazio per l’arte, ma solo per gli affari, per gli utili.
Il capitalismo nella sua forma ultima si presenta come una immensa accumulazione di spettacoli in cui tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione. […]
Lo spettacolo è un rapporto sociale fra persone, mediato attraverso le immagini. […]
Lo spettacolo è il capitale a un tale grado di accumulazione da divenire immagine. […]
Lo spettacolo si è mescolato a ogni realtà, permeandola. Com’era prevedibile in teoria, l’esperienza pratica del compimento sfrenato della volontà e della ragione mercantile mostra, rapidamente e senza eccezioni, che il diventar-mondo della falsificazione era anche un diventar-falsificazione del mondo.
Se si eccettua un’eredità ancora consistente, ma destinata a ridursi sempre più, di libri e edifici antichi che, del resto, sono sempre più spesso selezionati e messi in prospettiva secondo la convenienza dello spettacolo, non esiste più nulla, nella cultura e nel mondo, che non sia stato trasformato e inquinato secondo i mezzi e gli interessi dell’industria moderna.
(Guy Debord, La società dello spettacolo, 1967)
Debord, dopo aver proposto una serie di definizioni di “spettacolo”, mostra come esso domini la realtà e finisca per sostituirla (lo spettacolo si è mescolato a ogni realtà, permeandola), causando un diventar-falsificazione del mondo. Infatti contamina anche le relazioni umane, sempre più filtrate dalle immagini piuttosto che dagli incontri.
Secondo Debord, inoltre, nulla sopravvive nella cultura e nel mondo, che non sia stato trasformato e inquinato secondo i mezzi e gli interessi dell’industria moderna.
Il brano proposto è di tipo saggistico, procede per aforismi, brevi affermazioni, come una sorta di “manifesto”. Debord riprende una celebre frase di Marx, (il capitalismo nella sua forma ultima si presenta come un a immensa accumulazione di merci) e sostituisce alla parola merci, la parola spettacoli, lasciando per il resto inalterata la frase di Marx.
L’accumulazione del capitale e l’espansione delle tecnologie, secondo Debord della comunicazione hanno permesso di spingere il “feticismo delle merci” ad un grado prima impensabile. La spettacolarizzazione del proprio sé - oggi sui social - incrementa la struttura stessa del capitale.
Ne deriva, d’altra parte, un forte condizionamento delle relazioni umane nella società spettacolarizzata: lo spettacolo è un rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini.
E la società che poggia sull’industria moderna non è fortuitamente o superficialmente spettacolare, è fondamentalmente “spettacolista”, osserva G. Debord.
La sovraesposizione mediatica della dimensione intima viene, di conseguenza, spesso commercializzata (attraverso pubblicità sui siti, con la nascita di nuove professioni legate alla esposizione della vita privata: influencer, you tuber).
Nel contempo lo spettatore è oggi completamente dominato dal flusso delle immagini che si è ormai sostituito alla realtà, egli è immerso in un mondo virtuale nel quale la distinzione tra vero e falso ha perso ogni significato. L'uomo preferisce essere spettatore più che protagonista:
a un concerto non vive la musica, riprende lo spettacolo e lo vede dal filtro del suo smartphone. Nel flusso delle immagini selezionate dai media, poi, è vero ciò che lo spettacolo ha interesse a mostrare. Tutto ciò che non rientra nel flusso delle immagini selezionato dal potere, è falso, o non esiste.
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Situazione reale in Libia |
Come l’immagine si sostituisce alla realtà, la visione dello spettacolo si sostituisce alla vita. I consumatori piuttosto che fare esperienze dirette, si accontentano di osservare nello spettacolo tutto ciò che a loro manca. Per questo lo spettacolo è il contrario della vita. Debord descrive in questi termini tale alienazione del consumatore: più egli contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio. (La Società dello Spettacolo).
si tratta di format costruiti sulla spettacolarizzazione del privato, della vita e dei sentimenti, con una speculazione capitalistica in termini di ascolti e, dunque, di guadagni. È un processo che somiglia molto alla realtà distopica descritta da Ray Bradbury in Fahrenheit 451, dove case con pareti interattive creavano una confluenza costante tra spettacolo e vita reale.
L’acme di questo processo di sostituzione del virtuale al reale è raggiunto, nota Codeluppi, da una particolare forma di cura: ormai ci si preoccupa, dunque, più che essere attraenti dal vero, di risultare attraenti all’interno dei social, in una rappresentazione che non corrisponde alla realtà.
Recentemente Roberto Calasso e Maurizio Ferraris,
infine, hanno ampiamente dimostrato che una società dello spettacolo e della sovraesposizione del sé, contribuisce in modo esponenziale ai guadagni dei mercati, fornendo gratis al sistema dei Big Data quantità enormi di dati e informazioni che il mercato sfrutta.
La deriva attuale, osserva a tale proposito Vanni Codeluppi in Il tramonto della realtà, sta nel fatto che secondo un male inteso principio di trasparenza ("Io non ho niente da nascondere!"), oggi le persone ritengono di avere un valore nella società solamente quando sono connesse alle altre sul web e si sottopongono, perciò, in modo costante allo sguardo di altri occhi. E, va detto, c'è un intreccio diretto tra la spinta individuale ad esporsi e il condizionamento a farlo da parte dell'industria pubblicitaria, che fornisce un grande sostegno economico ai media in cambio di una conoscenza chiara e dettagliata di tutti i tratti del pubblico cui i media si rivolgono, in modo da indirizzare i messaggi pubblicitari con sempre maggiore precisione e definizione.
I dati che si accumulano e che lasciano tracce di noi, una volta raccolti ed elaborati da opportuni algoritmi, possono dare vita a dei "metadati". Producono, cioè ulteriori informazioni. Attraverso i nostri semplici "like" noi forniamo gratis informazioni sui nostri gusti, sulla nostra personalità, consentendo al sistema dei Big Data di comprendere e interpretare molti dei nostri desideri più profondi di cui noi stessi, forse, non siamo pienamente consapevoli.
Guy Debord, La società dello spettacolo, 1967
domenica 14 ottobre 2018
IPPOLITO NIEVO
http://www.treccani.it/enciclopedia/ippolito-nievo/
LE CONFESSIONI DI UN ITALIANO – Trama
Personaggio principale e narratore in prima persona è Carlo Altoviti (Carlino) che, ormai più che ottantenne, rievoca la sua vita dal 1755 al 1858 e, poiché le vicende personali del protagonista si intrecciano strettamente agli accadimenti politici italiani, il romanzo assume anche le caratteristiche di un vasto e movimentato affresco storico.
1) https://www.unive.it/media/allegato/Edizioni_cafoscari/ECF21x28.pdf
2) https://prometeo3.palumboeditore.it/biblioteca#modal-one
Ricezione critica
http://www.repubblica.it/speciale/2004/biblioteca/intro/nievo.html
domenica 30 settembre 2018
LA FAVOLA E LA FIABA
I più noti rappresentanti del genere favolistico in età antica furono Esopo in Grecia e Fedro a Roma.
Tratti caratteristici del genere:
- Brevità
- Personaggi zoomorfi con funzione allegorica
- Contesto realistico e quotidiano
- Morale esplicita o implicita
- Schema narrativo standardizzato (prologo - situazione iniziale; svolgimento; epilogo-conclusione)
Esempio: http://tuttoscuola.altervista.org/favole/favole-cervo.htm
FEDRO - TESTI LATINI
La favola moderna
Mentre la favola classica è impostata sul contrasto vizio/virtù, secondo uno schema esclusivamente moraleggiante e si basa su pochi personaggi, la favola moderna ha una maggiore ricchezza narrativa, presenta temi di impegno sociale e civile (amore per la natura, solidarietà, rispetto per gli altri, generosità disinteressata) e risulta propositiva, rispetto ai modelli di Esopo e Fedro, caratterizzati, invece, dall'etica della rassegnazione (prevale la legge del più forte, i prepotenti vincono sempre, sembra inutile ogni sforzo per modificare la realtà).
Luis Sepúlveda, La gabbianella e il gatto che le insegnò a volare
(…)
Seguendo le istruzioni dei gabbiani pilota, lo stormo del Faro della Sabbia
Rossa imboccò una corrente d'aria fredda e si lanciò in picchiata sul banco di
aringhe. Centoventi corpi bucarono l'acqua come frecce e, quando risalirono a
galla, ogni gabbiano stringeva un pesce nel becco. Aringhe saporite. Saporite e
grasse.
(…)
Kengah infilò la testa sott'acqua per acchiappare la quarta aringa, e così non
sentì il grido d'allarme che fece tremare l'aria: - Pericolo a dritta! Decollo
d'emergenza! Quando Kengah tirò di nuovo fuori la testa, si ritrovò sola
nell'immensità dell'oceano.
(…)
Kengah aprì le ali per spiccare il volo, ma l'onda densa fu più rapida e la
sommerse completamente. Quando tornò a galla la luce del giorno era scomparsa,
e dopo aver scosso il capo con energia capì che la maledizione dei mari le
stava oscurando la vista. Kengah, la gabbiana dalle piume d'argento, tuffò
varie volte la testa sott'acqua, sinché qualche filo di luce non raggiunse le
sue pupille coperte di petrolio. La macchia vischiosa, la peste nera, le
incollava le ali al corpo, così iniziò a muovere le zampe sperando di potersi
allontanare rapidamente a nuoto dal centro dell'onda scura. Con tutti i muscoli tormentati dai crampi per
lo sforzo, raggiunse finalmente il limite della macchia di petrolio e sentì il
fresco contatto dell'acqua pulita. Quando, a forza di sbattere le palpebre e di
tuffare la testa, riuscì a pulirsi gli occhi, guardò il cielo, ma vide solo
alcune nuvole che si frapponevano tra il mare e l'immensità della volta
celeste. I suoi compagni dello stormo del Faro della Sabbia Rossa dovevano
volare ormai lontano, molto lontano.
Era
la legge. Anche lei aveva visto altri gabbiani sorpresi dalle mortifere onde
nere, e nonostante il desiderio di scendere a offrire loro un aiuto tanto
inutile quanto impossibile, si era allontanata, rispettando la legge che
proibisce di assistere alla morte dei compagni. Con le ali immobilizzate,
incollate ai corpi, i gabbiani erano facile preda dei grandi pesci, o morivano
lentamente, asfissiati dal petrolio che penetrando fra le piume tappava loro
tutti i pori.
Era
questa la morte che la aspettava, e desiderò scomparire presto tra le fauci di
un grosso pesce.
La
macchia nera. La peste nera. Mentre aspettava la fine fatale, Kengah maledisse
gli umani. - Ma non tutti. Non devo essere ingiusta - stridette debolmente.
Spesso, dall'alto, aveva visto come grandi petroliere approfittavano delle
giornate di nebbia costiera per andare al largo a lavare le loro cisterne.
Rovesciavano in mare migliaia di litri di una sostanza densa e pestilenziale
che veniva trascinata via dalle onde. Ma a volte aveva visto anche delle
piccole imbarcazioni che si avvicinavano alle petroliere e impedivano loro di
svuotare le cisterne. Disgraziatamente quelle barche ornate dai colori
dell'arcobaleno non sempre arrivavano in tempo per impedire l'avvelenamento dei
mari. Kengah passò le ore più lunghe della sua vita posata sull'acqua,
chiedendosi atterrita se per caso non la aspettava la più terribile delle
morti: peggio che essere divorata da un pesce, peggio che patire l'angoscia
dell'asfissia, era morire di fame.
Disperata
all'idea di una fine lenta si agitò e con stupore si accorse che il petrolio
non le aveva incollato le ali al corpo. Aveva le piume impregnate di quella
sostanza densa, ma almeno poteva spiegarle. - Forse ho ancora una possibilità
di uscire da qui, e volando in alto, molto in alto, forse il sole scioglierà il
petrolio - stridette Kengah. 8 Le tornò alla mente una storia, raccontatale da
un vecchio gabbiano delle isole Frisoni, che parlava di un umano chiamato Icaro
che, per realizzare il sogno del volo, si era costruito delle ali con piume di
aquila ed era volato in alto, vicinissimo al sole, tanto che il calore aveva
sciolto la cera con cui aveva incollato le piume ed era precipitato. Kengah
batté energicamente le ali, ritirò le zampe, si innalzò di un paio di palmi, e
ricadde sulle onde. Prima di tentare ancora si immerse e agitò le ali
sott'acqua. Questa volta salì di un metro prima di cadere.
Quel
dannato petrolio le incollava le piume della coda, di modo che non riusciva a governare
il decollo. Si tuffò ancora una volta e con il becco cercò di tirar via lo
strato di sporco che le copriva la coda.
(…)
Al quinto tentativo Kengah riuscì a spiccare il volo. Batteva le ali con
disperazione perché il peso della cappa di petrolio non le permetteva di
planare. Un solo attimo di riposo e sarebbe precipitata. Per fortuna era una
gabbiana giovane e i suoi muscoli rispondevano adeguatamente. Guadagnò quota.
Senza mai smettere di battere le ali guardò giù e vide la costa profilarsi
appena come una linea bianca.
(…)
Kengah capì che le forze non le
sarebbero durate ancora a lungo e, cercando un posto per scendere, volò verso
l'entroterra, seguendo la serpeggiante linea verde dell'Elba. Il movimento
delle sue ali si fece sempre più lento e pesante. Perdeva vigore. Adesso non
volava più così in alto. In un disperato tentativo di riprendere quota chiuse
gli occhi e batté le ali con le ultime energie. Non sapeva per quanto tempo era
rimasta a occhi chiusi, ma quando li riaprì stava sorvolando un'alta torre
ornata da una banderuola d'oro. - San Michele! - stridette riconoscendo il
campanile della chiesa di Amburgo. Le sue ali si rifiutarono di continuare a
volare.
Il
gatto nero grande e grosso prendeva il sole sul balcone, facendo le fusa e
meditando su come si stava bene lì, a pancia all'aria sotto quei raggi tiepidi,
con tutte e quattro le zampe ben ritratte e la coda distesa. Nel preciso
istante in cui si girava pigramente per farsi scaldare la schiena dal sole,
sentì il sibilo provocato da un oggetto volante che non seppe identificare e
che si avvicinava a grande velocità. Vigile, balzò in piedi sulle zampe e fece
appena in tempo a scansarsi per schivare la gabbiana che cadde sul balcone. Era
un uccello molto sporco. Aveva tutto il corpo impregnato di una sostanza scura
e puzzolente.
Zorba
si avvicinò e la gabbiana tentò di alzarsi trascinando le ali.
-
Non è stato un atterraggio molto elegante - miagolò.
-
Mi dispiace. Non ho potuto evitarlo - ammise la gabbiana.
-
Senti, sembri ridotta malissimo. Cos'è quella roba che hai addosso? E come
puzzi! - miagolò Zorba. - Sono stata raggiunta da un'onda nera. Dalla peste
nera. La maledizione dei mari. Morirò - stridette accorata la gabbiana.
-
Morire? Non dire così. Sei solo stanca e sporca. Tutto qua. Perché non voli
fino allo zoo? Non è lontano e là hanno veterinari che potranno aiutarti -
miagolò Zorba.
-
Non ce la faccio. Questo è stato il mio ultimo volo - stridette la gabbiana con
voce quasi impercettibile e chiuse gli occhi.
-
Non morire! Riposati un po' e vedrai che ti riprendi. Hai fame? Ti porterò un
po' del mio cibo, ma non morire - pregò Zorba avvicinandosi alla gabbiana
esausta. Vincendo la ripugnanza, il gatto le leccò la testa. La sostanza di cui
era coperta aveva anche un sapore orribile. Mentre le passava la lingua sul
collo notò che la respirazione dell'uccello si faceva sempre più debole.
-
Senti, amica, io vogIio aiutarti, ma non so come. Cerca di riposare mentre vado
a chiedere cosa si fa con un gabbiano ammalato - miagolò Zorba prima di
arrampicarsi sul tetto. Si stava allontanando in direzione dell'ippocastano
quando sentì che la gabbiana lo chiamava.
-
Vuoi che ti lasci un po' del mio cibo? - suggerì, leggermente sollevato.
-
Voglio deporre un uovo. Con le ultime forze che mi restano voglio deporre un
uovo. Amico gatto, si vede che sei un animale buono e di nobili sentimenti. Per
questo ti chiedo di farmi tre promesse. Mi accontenterai? - stridette agitando
goffamente le zampe nel vano tentativo di alzarsi in piedi. Zorba pensò che la
povera gabbiana stava delirando e che con un uccello in uno stato così pietoso
si poteva solo essere generosi.
-
Ti prometto tutto quello che vuoi. Ma ora riposa - miagolò impietosito.
-
Non ho tempo di riposare. Promettimi che non ti mangerai l'uovo - stridette
aprendo gli occhi. - Prometto che non mi mangerò l'uovo - ripeté Zorba.
-
Promettimi che ne avrai cura finché non sarà nato il piccolo - stridette
sollevando il capo.
-
Prometto che avrò cura dell'uovo finché non sarà nato il piccolo.
-
E promettimi che gli insegnerai a volare - stridette guardando fisso negli
occhi il gatto. Allora Zorba si rese conto che quella sfortunata gabbiana non
solo delirava, ma era completamente pazza.
-
Prometto che gli insegnerò a volare. E ora riposa, io vado in cerca di aiuto -
miagolò Zorba balzando direttamente sul tetto.
Kengah
guardò il cielo, ringraziò tutti i buoni venti che l'avevano accompagnata e
proprio mentre esalava l'ultimo respiro, un ovetto bianco con delle macchioline
azzurre rotolò accanto al suo corpo impregnato di petrolio.
“Ho paura” stridette Fortunata.
“Ma vuoi volare, vero?” miagolò Zorba.
Dal campanile di San Michele si vedeva tutta la città. La pioggia avvolgeva la torre della televisione, e al porto le gru sembravano animali in riposo.
“Guarda si vede il bazar di Harry. I nostri amici sono laggiù” miagolò Zorba.
“Ho paura! Mamma! ” stridette Fortunata.
Zorba saltò sulla balaustra che girava attorno al campanile. In basso le auto sembravano insetti dagli occhi brillanti. L’umano prese la gabbiana tra le mani.
“No! Ho paura! Zorba! Zorba!” stridette Fortunata beccando le mani dell’umano.
“Aspetta. Posala sulla balaustra” miagolò Zorba.
“Non avevo intenzione di buttarla giù” disse l’umano.
“Ora volerai ,Fortunata. Respira. Senti la pioggia. E’ acqua. Nella tua vita avrai molti motivi per essere felice, uno di questi si chiama acqua, un altro si chiama vento, un altro ancora si chiama sole e arriva sempre come ricompensa dopo la pioggia. Senti la pioggia. Apri le ali.” Miagolò Zorba.
La gabbianella spiegò le ali. I riflettori la inondavano di luce e la pioggia le copriva di perle le piume. L’umano e il gatto la videro sollevare la testa con gli occhi chiusi.
“La pioggia. L’acqua. Mi piace!” stridette.
“Ora volerai” miagolò Zorba.
“Ti voglio bene. Sei un gatto molto buono” stridette Fortunata avvicinandosi al bordo della balaustra.
“Ora volerai. Il cielo sarà tutto tuo” miagolò Zorba.
“Non ti dimenticherò mai. E neppure gli altri gatti.” stridette lei già con metà delle zampe fuori dalla balaustra, perchè come dicevano i versi di Atxaga, il suo piccolo cuore era lo stesso degli equilibristi.
“Vola!” miagolò Zorba allungando una zampa e toccandola appena.
Fortunata scomparve alla vista , e l’umano e il gatto temettero il peggio. Era caduta giù come un sasso. Col fiato sospeso si affacciarono alla balaustra, e allora la videro che batteva le ali sorvolando il parcheggio, e poi seguirono il suo volo in alto, molto più in alto della banderuola dorata che corona la singolare bellezza di San Michele.
Fortunata volava solitaria nella notte amburghese. Si allontanava battendo le ali con energia fino a sorvolare le gru del porto, gli alberi delle barche, e subito dopo tornava indietro planando, girando più volte attorno al campanile della chiesa.
” Volo! Zorba! So volare!” strideva euforica dal vasto cielo grigio.
L’umano accarezzò il dorso del gatto.
“Bene, gatto. Ci siamo riusciti” disse sospirando.
” Sì, sull’orlo del baratro ha capito la cosa più importante” miagolò Zorba.
” Ah sì? E che cosa ha capito?” chiese l’umano.
” Che VOLA SOLO CHI OSA FARLO” miagolò Zorba.
“Immagino che adesso tu preferisca rimanere solo. Ti aspetto giù” lo salutò l’umano.
Zorba rimase a contemplarla finchè non seppe se erano gocce di pioggia o lacrime ad annebbiare i suoi occhi gialli di gatte nero grande e grosso, di gatto buono, di gatto nobile, di gatto del porto.
(Luis Sepùlveda, La gabbianella e il gatto che le insegnò a volare, Salani, Firenze, 1997)
CARATTERISTICHE DELLA FIABA
Il valore delle fiabe:
l'interpretazione dell'antropologa Laura Marchetti
https://www.cooperazione.tv/video/leversivo-universo-delle-fiabe-incontro-con-laura-marchetti
LA FIABA MODERNA
La ragazza mela (da I. Calvino, Fiabe italiane)
Il palazzo delle scimmie (da I. Calvino, Fiabe italiane)
Il cavaliere del secchio ( F.Kafka, da Tutti i racconti, a cura di E. Porcar, Mondadori, Milano)
Commento di I. Calvino al racconto di Kafka, Il cavaliere del secchio
venerdì 14 settembre 2018
DINO BUZZATI
Racconto breve
I GIORNI PERDUTI
Poetica di Buzzati
Con un tono narrativo fiabesco, Buzzati affronta temi e sentimenti quali l'angoscia, la paura della morte, la magia e il mistero, la ricerca dell'assoluto e del trascendente, la disperata attesa di un'occasione di riscatto da un'esistenza mediocre, l'ineluttabilità del destino, spesso accompagnata dall'illusione.
Il grande protagonista dell'opera buzzatiana è il destino, onnipotente e imperscrutabile, spesso beffardo (come ne Il deserto dei Tartari). Perfino i rapporti amorosi sono letti con quest'ottica di imperscrutabilità (Un amore). La letteratura di Buzzati appartiene al genere fantastico con molteplici spunti, talvolta con vicinanze al surrealismo, l'orrore e alla fantascienza (Il grande ritratto).
(https://it.wikipedia.org/wiki/Dino_Buzzati#Carriera_letteraria)
Racconto breve
Una goccia
http://www.icbriatico.it/images/pdf/Biblioteca_Digitale/Letteratura_per_Ragazzi/La_Boutique_del_mistero.pdf
Il valore dell'allegoria nella narrativa di Buzzati
http://www.lafrusta.net/riv_buzzati_allegoria.html
Racconto breve
La notizia
domenica 20 maggio 2018
IL ROMANZO POSTMODERNO
http://www.treccani.it/enciclopedia/postmoderno/
IL POSTMODERNO (da Cataldi-Angioloni-Panichi, Letteratura Mondo, ed rossa, Palumbo)
ITALO CALVINO, Le città invisibili (1972)
http://www.p4lmedia.net/pdf/lup_rossa/v6/Parte_XIV/OnLine_NeRossa_PXIV_cap_CALVINO_PP_vol_6.pdf
Quello che sta a cuore al mio Marco Polo è scoprire le ragioni segrete che hanno portato gli uomini a vivere nella città, ragioni che potranno valere al di là di tutte le crisi. Le città sono un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni d’un linguaggio; le città sono luoghi di scambio, come spiegano i libri di storia dell’economia, ma questo scambi non sono soltanto scambi di merci, sono scambi diparole, di desideri, di ricordi. Il mio libro s’apre e si chiude su immagini di città felici che continuamente prendono forma e svaniscono,nascoste nelle città infelici.
da I. Calvino, Presentazione, in Le città invisibili, Mondadori, Milano 1999, pp. VII-X.
L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.
Italo Calvino, Le città invisibili, conclusione
Dalla sezione Le città continue
Leonia
http://www.lacooltura.com/2017/04/leonia-la-citta-del-consumismo-calvino/
Dalla sezione Le città sottili
Ottavia
Se volete credermi, bene. Ora dirò come è fatta Ottavia, città - ragnatela. C'è un precipizio in mezzo a due montagne scoscese: la città è sul vuoto, legata alle due creste con funi e catene e passerelle. Si cammina sulle traversine di legno, attenti a non mettere il piede negli intervalli, o ci si aggrappa alle maglie di canapa. Sotto non c'è niente per centinaia e centinaia di metri: qualche nuvola scorre; s'intravede più in basso il fondo del burrone. Questa è la base della città: una rete che serve da passaggio e da sostegno.
Tutto il resto, invece d'elevarsi sopra, sta appeso sotto: scale di corda, amache, case fatte a sacco, attaccapanni, terrazzi come navicelle, otri d'acqua, becchi del gas, girarrosti, cesti appesi a spaghi, montacarichi, docce, trapezi e anelli per i giochi, teleferiche, lampadari, vasi con piante dal fogliame pendulo.
Sospesa sull'abisso, la vita degli abitanti d'Ottavia è meno incerta che in altre città.
Sanno che più di tanto la rete non regge.
UMBERTO ECO, Il nome della rosa (1980)
Conclusione
Il rogo della Biblioteca
Guida alla lettura
http://www.cogitoetvolo.it/files/materiali%20libri/Guida%20alla%20lettura%20de%20Il%20nome%20della%20rosa(1).pdf
mercoledì 2 maggio 2018
LA NARRATIVA IN ITALIA DALLO SPERIMENTALISMO DI GADDA AL NEOREALISMO
http://www.raiscuola.rai.it/articoli/carlo-emilio-gadda-si-racconta/4087/default.aspx
Quer pasticciaccio brutto de via Merulana
Capitolo 1
Capitolo 2
I parenti furono «avvertiti» ufficialmente a sera tardi, ma Ingravallo, fin da la matina, aveva proibito de falli entrà. Rinnovate inchieste e puntuali contestazioni autoptiche, tanto der capoccione don Ciccio che der maresciallo Valiani, be’, se sa, non significarono gran che. Be’, cioè: qualche evidenza di furto. Nessun’arme fu rinvenuta. Ma diversi tiretti e cassetti, a guardacce dentro, se capì che quarche cosa aveveno da sapé. Non apparvero poi tanto ignari, quanto dal di fuori si davan l’aria. Armi, no. E nessuna indicazione, eccettoché le gocce rosse per terra, e quel sangue... trascinato dai tacchi. Presso lo sciacquatore, in cucina, il pavimento a mattonelle era bagnato d’acqua. Un coltello «affilatissimo» e del tutto assente era il più indiziato d’aver potuto lavorare a quel modo. Le gocce, anziché da mano assassina, parevano gocciolate giù da un coltello. Nere, ora. La inopinata lucentezza, il tagliente e la breve acuità d’una lama. In lei uno sgomento. Lui, di certo, aveva colpito all’improvviso: e insistito poi nella gola, nella trachea, con efferata sicurezza. La «colluttazione» se pure era da credervi, doveva essere stata nient’altro che un misero conato, da parte della vittima, uno sguardo atterrito e subitamente implorante, l’abbozzo di un gesto: una mano levata appena, bianca, a stornare l’orrore, a tentar di stringere il polso villoso, la mano implacabile e nera dell’omicida, la sinistra, che già le adunghiava il volto e le arrovesciava il capo a ottener la gola più libera, interamente nuda e indifesa contro il balenare d’una lama: che la destra aveva già estratto a voler ferire, ad uccidere.
Una cerea mano si allentava, ricadeva... quando Liliana aveva già il cortello dentro il respiro, che le lacerava, le straziava la trachea: e il sangue, a tirà er fiato, le annava giù ner polmone: e il fiato le gorgogliava fuora in quella tosse, in quello strazio, da paré tante bolle de sapone rosse: e la carotide, la jugulare, buttaveno come due pompe de pozzo, lùf, lùf, a mezzo metro de distanza. Il fiato, l’ultimo, de traverso, a bolle, in quella porpora atroce della sua vita: e si sentiva il sangue, nella bocca, e vedeva quegli occhi, non più d’uomo, sulla piaga: ch’era ancora da lavorare: un colpo ancora: gli occhi! della belva infinita. La insospettata ferocia delle cose... le si rivelava d’un subito... brevi anni! Ma lo spasimo le toglieva il senso, annichilava la memoria, la vita. Una dolciastra, una tepida sapidità della notte.
Le mani, bianchissime, con quelle tenere unghie, color pervinca, ora, non presentavano tagli: non aveva potuto, non aveva osato afferrare il tagliente, o fermare la determinazione del carnefice. Si era conceduta al carnefice. Il viso e il naso apparivano sgraffiati, qua e là, nella stanchezza e nel pallore della morte, come se l’odio avesse oltrepassato la morte. Le dita erano prive di anelli, la fede era sparita. Né veniva in mente, allora, di imputarne la sparizione alla patria. Il coltello aveva lavorato da par suo. Liliana! Liliana! A don Ciccio pareva che ogni forma del mondo si ottenebrasse, ogni gentilezza del mondo.
L’incaricato dell’ufficio criminologico escluse il rasoio, che dà tagli più netti, ma più superficiali, così opinò, e, in genere, multipli: non potendo venir adibito di punta, né con tanta violenza. Violenza? Sì, la ferita era profondissima, orribile: aveva resecato metà il collo, a momenti. In tutta la camera da pranzo, no, nessun indizio... all’infuori der sangue. In giro pe l’altre camere nemmeno. Salvoché ancora sangue: delle tracce palesi ne lo sciacquatore de cucina: diluito, da parer quello d’una rana: e molte gocce scarlatte, o già nere, sur pavimento, rotonde e radiate come ne fa il sangue a lassallo gocciolà per terra: come sezioni d’asteroidi. Quelle gocce, orribili, davano segno d’un itinerario evidente: dal superstite ingombro del corpo, dalla tepida testimonianza di lei, morta!... Liliana! fino a lo sciacquatore de cucina, al gelo e al lavacro: al gelo che d’ogni memoria ci assolve. Molte gocce, nella camera da pranzo, ecco, di cui cinque o pure più ereno finitime all’altro sangue, a tutto quer pasticcio, alle macchie e alla pozza più grossa, de dove l’aveveno preso pe strascinallo in giro co le scarpe, queli maledetti caprari. Molte ner corridore, un po’ più piccole, molte in cucina: e alcune sfregate via come pe cancellalle co la sòla da nun falle vede su le mattonelle bianche, ad esagono. Furono tentati i mobili: undici fra cassetti e sportelli, d’armadi e de credenze, non li poterono aprire. Giuliano, in salotto, era guardato a vista da due agenti. Cristoforo j’aveva portato du panini e du aranci. Tutti quegli omacci seguitavano a girare e a scalpicciare per la casa. Un urto de nervi. Don Ciccio sedette, affranto, in anticamera, in attesa del giudice. Poi riandò là: guardò, come per un commiato, la povera creatura sopra a cui stavano a disputà sottovoce li fotografi, badando non insudiciarsi pure loro o le loro trappole, con lampade, schermi, fili, treppiedi, macchinoni a soffietto. Aveveno già scovato due prese de dietro a du portrone, e aveveno già fatto sartà la varvola du o tre vorte, una de le tre varvole de l’appartamento. Si decisero per il magnesio. Aggeggiavano come du angeloni sinistri pieni de voja de falla franca, al di sopra di quella terrificante stanchezza: un freddo, un povero relitto, ora, della cattiveria del mondo. Le loro manovre de mosconi, queli fili, quelo strigne li diaframmi, quer mettese d’accordo sottovoce pe vedé de nun faje pijà foco a tutta la baracca... erano il primo ronzare dell’eternità sui sensi opachi di lei, de quer corpo de donna che nun ciaveva più pudore né memoria. Operavano sulla «vittima» senza riguardarne la pena, e senza poterne riscattare l’ignominia. La bellezza, l’indumento, la spenta carne di Liliana era là: il dolce corpo, rivestito ancora agli sguardi. Nella turpitudine di quell’atteggiamento involontario - della quale erano motivi, certo, e la gonna rilevata addietro dall’oltraggio e l’ostensione delle gambe, su su, e del rilievo e della solcatura di voluttà che incupidiva i più deboli: e gli occhi affossati, ma orribilmente aperti nel nulla, fermi a una meta inane sulla credenza - la morte gli apparve, a don Ciccio, una decombinazione estrema dei possibili, uno sfasarsi di idee interdipendenti, armonizzate già nella persona. Come il risolversi d’una unità che non ce la fa più ad essere e ad operare come tale, nella caduta improvvisa dei rapporti, d’ogni rapporto con la realtà sistematrice.
Il dolce pallore del di lei volto, così bianco nei sogni opalini della sera, aveva ceduto per modulazioni funebri a un tono cianotico, di stanca pervinca: quasicché l’odio e l’ingiuria fossero stati troppo acerbi al conoscere, al tenero fiore della persona e dell’anima. Dei brividi gli correvano la schiena. Cercò a riflettere. Sudava.
(Carlo Emilio Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, in Romanzi e racconti II, a cura di Giorgio Pinotti, Dante Isella, Raffaella Rodondi, edizione diretta da Dante Isella, Garzanti, Milano 1989, pp. 67-70)
Nel primo numero della rivista (29 settembre 1945) Vittorini spiega perché ha scelto di dare alla rivista da lui fondata, "Il Politecnico"lo stesso nome di quella fondata nel 1839 Carlo Cattaneo, scrittore e patriota:
L'altro Politecnico si pubblicava a Milano dal 1839 al '45 … Aveva un ideale pratico la cultura di Cattaneo: Primo bisogno è quello di conservare la vita, affermava il Manifesto d'Associazione al primo anno del Politecnico. Ma completava: La Pittura, la Scultura, l'Architettura, la Musica, la Poesia … e le altre arti dell'immaginazione scaturiscono da un bisogno che nel senso della civiltà diviene non meno imperioso di quello della sussistenza.
Nell'articolo programmatico del Politecnico intitolato – non a caso – Una nuova cultura, Vittorini denuncia le responsabilità degli intellettuali di fronte agli orrori della guerra e auspica la nascita di una cultura diversa, che si ponga l'obiettivo non di consolare ma di eliminare la sofferenza e lo sfruttamento:
Per un pezzo sarà difficile dire se qualcuno o qualcosa abbia vinto in questa guerra. Ma certo vi è tanto che ha perduto, e che si vede come abbia perduto. I morti, se li contiamo, sono più di bambini che di soldati; le macerie sono di città che avevano venticinque secoli di vita... E se ora milioni di bambini sono stati uccisi, se tanto che era sacro è stato lo stesso colpito e distrutto, la sconfitta è anzitutto di questa 'cosa' che c'insegnava l'inviolabilità loro. Questa 'cosa' non è altro che la cultura: lei che è stata pensiero greco, ellenismo, romanesimo, cristianesimo latino, cristianesimo medioevale, umanesimo, riforma, illuminismo, liberalismo... E se il fascismo ha avuto modo di commettere tutti i delitti che questa cultura aveva insegnato ad esecrare già da tempo, non dobbiamo chiedere proprio a questa cultura come e perché il fascismo ha potuto commetterli?... Essa ha predicato, ha insegnato, ha elaborato principi e valori, ha scoperto continenti e costruito macchine ma non si è identificata con la società, non ha governato con la società, non ha condotto eserciti per la società... L'uomo ha sofferto nella società, l'uomo soffre. E che cosa fa la cultura per l'uomo che soffre? Cerca di consolarlo. Per questo suo modo di consolatrice in cui si è manifestata fino ad oggi, la cultura non ha potuto impedire gli orrori del fascismo. Nessuna forza sociale era 'sua' in Italia o in Germania per impedire l'avvento al potere del fascismo... Potremo mai avere una cultura che sappia proteggere l'uomo dalle sofferenze invece di limitarsi a consolarlo? Una cultura che le impedisca, che le scongiuri, che aiuti a eliminare lo sfruttamento e la schiavitù, e a vincere il bisogno, questa è la cultura in cui occorre che si trasformi tutta la vecchia cultura... Io mi rivolgo a tutti gli intellettuali italiani che hanno conosciuto il fascismo. Non ai marxisti soltanto, ma anche agli idealisti, anche ai cattolici, anche ai mistici. Vi sono ragioni dell'idealismo o del cattolicesimo che si oppongono alla trasformazione della cultura in una cultura capace di lottare contro la fame e le sofferenze?
Il 10 ottobre 1946 il segretario del PCI Palmiro Togliatti interviene su Rinascita, settimanale del PCI, affermando che le idee positive e costruttive espresse da Vittorini nel primo numero del Politecnico si erano oggi ridotte a una ricerca astratta del nuovo, del diverso e del sorprendente, incapace di dare un contributo serio e utile al rinnovamento della cultura italiana.
Nella risposta a Togliatti, pubblicata sul numero 35 del Politecnico nel 1947, Vittorini pone una domanda: chi è lo scrittore rivoluzionario? Colui che non asseconda la politica limitandosi a suonare il piffero, a ripetere parole d'ordine; rivoluzionario è lo scrittore che, attraverso gli strumenti della letteratura - sa individuare e comprendere le vere esigenze dell'uomo:
Rivoluzionario è lo scrittore che riesce a porre attraverso la sua opera esigenze rivoluzionarie, ma 'diverse' da quelle che la politica pone: esigenze … dell'uomo ch'egli soltanto sa scorgere nell'uomo, che è proprio di lui scrittore scorgere, e che è proprio di lui scrittore rivoluzionario porre, e porre 'accanto' alle esigenze che pone la politica. Quando io parlo di sforzi in senso rivoluzionario da parte di noi scrittori, parlo di sforzi rivolti a porre simili esigenze. E se accuso il timore che i nostri sforzi in senso rivoluzionario non siano riconosciuti come tali è perché vedo la tendenza a riconoscere come rivoluzionaria la letteratura di chi suona il piffero per la rivoluzione piuttosto che la letteratura di cui simili esigenze sono poste, la letteratura detta oggi di crisi.
Anni dopo, in una lettera a Calvino [1], Vittorini spiega che per lui la vera cultura è quella capace di ricercare la verità, senza piegarsi a nessuna esigenza esterna. Questa idea è stata alla base della sua battaglia sul Politecnico:
Nel Politecnico ho tentato di convincere i politici a riconoscere che se una parte della cultura lavora per la civiltà e può, come tale, piegarsi anche alle esigenze politiche, un'altra parte della cultura (la cultura nel suo senso maggiore, e specialmente la poesia, le arti) lavora principalmente per la verità, per la ricerca della verità, e non può dunque assecondare le esigenze immediate della politica senza il rischio di perdere ogni senso e ogni valore.
[1]Gli anni del Politecnico Lettere 1941-1951, a cura di Carlo Minoia, Torino, Einaudi, 1977.
I filoni del Neorealismo
a) denuncia sociale e tensione simbolica (Pavese e Vittorini;)
b) tendenza documentaria volta a documentare l'orrore (Primo Levi)
c) il "realismo socialista" (Vasco Pratolini)
d) filone che congiunge il romanzo di formazione e la narrazione epica (Fenoglio, Pavese)
e) il romanzo resistenziale (Pavese, Fenoglio, Calvino)
f) impegno civile e denuncia sociale dopo il boom economico (Moravia, Calvino, Pasolini)
g) filone meridionalista (Alvaro, Silone).
Il realismo mitico - simbolico
PAVESE, PAESITUOI
Trama
Protagonista e narratore delle vicende è Corrado, un docente torinese che per sfuggire ai bombardamenti che imperversano nella città si è trasferito in collina presso una donna, Elvira, e la madre di lei. Le colline torinesi sono abitate da schietta gente del luogo e da persone di città che, come lui, hanno bisogno di un rifugio. Così, malgrado Corrado prediliga la solitudine e l’isolamento, si unisce ai frequentatori di un’osteria, le Fontane,che scopre essere gestita da un suo amore del passato, Cate, che ha un figlio, Corrado (chiamato da tutti Dino), che, per motivi anagrafici, potrebbe essere addirittura suo figlio. Corrado infatti anni addietro aveva interrotto la relazione con Cate per scansare le responsabilità di un rapporto maturo ed anche adesso, di fronte alla tragedia della guerra, vive con apparente indifferenza le vicende storiche che accadono intorno a lui.
Corrado si unisce al gruppo dell’osteria e, pur non scoprendo mai la verità circa la paternità di Dino, inizia a trascorrere molto tempo con lui (in maniera simile a quanto accadrà tra Anguilla e Cinto ne La luna e i falò). Nel frattempo il protagonista si interroga anche sul suo amore per Cate, che forse non si è del tutto estinto, e sul suo impegno storico e civile in un drammatico frangente storico, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Tuttavia Corrado non esterna mai le proprie idee e non si risolve mai all’azione, osservando da spettatore la barbarie della guerra, che devasta il mondo delle Langhe, strettamente legato ai ricordi infantili di Corrado.
La situazione è sconvolta da una retata dei nazisti, che all’osteria arrestano Cate e gli altri amici di Corrado, che, di ritorno da Torino, riesce fortunosamente a salvarsi assieme a Dino. Rifugiatosi prima da Elvira, innamorata di lui, e poi in un collegio a Chieri (nei pressi di Torino), Corrado affida Dino alle cure delle due donne. Il ragazzo in seguito raggiungerà il protagonista al collegio ma presto sceglie di arruolarsi nelle fila partigiane. Corrado, insicuro e incapace di affrontare l’impegno di una scelta, decide di tornare al paese natale e alla sua “casa in collina”. Durante il viaggio di ritorno, incappa in un’imboscata partigiana e la vista dei cadaveri dei fascisti gli suggerisce amare e disilluse riflessioni sul senso della guerra, dell’esistenza umana e della sua crisi esistenziale che, nella conclusione del romanzo, non è destinata a risolversi.
Analisi
Nella Casa in collina Pavese tratta una volta ancora quel dissidio tra la solitudine contemplativa dell’intellettuale e la presa di posizione storica ed ideologica che gli eventi storici richiederebbero. Pavese avverte profondamente questo dissidio per motivi autobiografici e lo traspone, attraverso la scelta della narrazione in prima persona, nella figura di Corrado. Il protagonista, debole e irresoluto, è preso all’interno di una serie di antitesi tra cui non sa decidersi. La prima di queste è quella tra la città e la collina: se Torino è devastata dai bombardamenti, inizialmente la campagna delle Langhe si presenta come un luogo sicuro e protetto, in cui Corrado può rivivere i ricordi dell’infanzia o l’amore passato con Cate. Tuttavia, ben presto la Storia nullifica questa opposizione: dopo l’8 settembre, con lo scoppio della guerra civile tra nazifascisti e partigiani, anche il mondo della campagna è attraversato dalla violenza e tutti sono chiamati a scelte drastiche e radicali. In questo senso, è significativa l’assenza di Corrado nel momento cruciale della retata e il suo successivo disimpegno, con la scelta di rimanere nascosto da Elvira prima e nel collegio poi.
La seconda antitesi è appunto quella tra chi si impegna (mostrando un legame attivo tra sé e il mondo esterno) e chi, come Corrado, è vittima del dubbio e dell’incertezza. Bisogna notare che questa crisi riguarda sia la vita privata che quella pubblica di Corrado. Se egli infatti non sa decidersi ad aderire alla lotta partigiana contro i repubblichini, sul piano personale è succube di tormenti analoghi. Corrado infatti non sa se Dino è davvero figlio suo, ma prova ad identificarsi in lui e a svolgere un ruolo paterno nei suoi confronti. Assai significativa in questo caso la decisione finale di Dino di abbandonare la sicurezza del collegio per entrare tra i partigiani, abbandonando Corrado nella sua incapacità di agire. In secondo luogo, quando rivede Cate il protagonista si domanda se il loro amore sia davvero finito, ma non fa nulla per riallacciare davvero il loro legame; dopo la retata, Corrado non saprà più nulla del destino della donna. In terzo luogo, Corrado preferisce quasi sempre la solitudine al rapporto con gli altri e con il mondo: prova ne è prima il suo rifugio nel microcosmo familiare della casa di Elvira e della madre e poi la scelta di autoescludersi da tutto ritornando alla “casa in collina”.
Ultima e più profonda antitesi è quella tra l’uomo e la Storia, di cui la guerra è una metafora assai evidente ed esplicita. Qui la crisi interiore di Corrado diventa una più ampia riflessione dell’autore sul significato dell’esistenza umana, in relazione con il valore della nostra vita e il senso della morte, specie quella di natura violenta. Corrado non riesce e non sa risolvere questo enigma, come testimoniano le ultime righe del romanzo:
Ci sono dei giorni in questa nuda campagna che camminando ho un soprassalto: un tronco secco, un nodo d'erba, una schiena di roccia, mi paiono corpi distesi... Io non credo che possa finire. Ora che ho visto cos'è la guerra, cos'è la guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: - E dei caduti che facciamo? Perché sono morti? - Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero.
La conclusione del romanzo
Le riflessioni di Corrado e il senso che esse danno a tutta La casa in collina diventano particolarmente significative nell’ultimo capitolo, quando Corrado è ormai solo e ha perduto gran parte dei propri punti di riferimento nelle altre figure della narrazione. I pensieri del protagonista vanno con insistenza al significato della violenza e della guerra:
È qui che la guerra mi ha preso, e mi prende ogni giorno. [...] non è che non veda come la guerra non è un gioco, quella guerra che è giunta fin qui, che prende alla gola anche il nostro passato. [...] Ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura di scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce, giustificare chi l’ha sparso.
La conclusione appare così un esame di coscienza del protagonista, che, da intellettuale e letterato, osserva l’insensata sofferenza della guerra, senza prenderne parte attivamente e senza trovare una giustificazione alle morti che il conflitto sta causando. Corrado da un lato comprende la dolorosa condizione umana, ma dall’altro si rammarica della propria impotenza e dell’impossibilità di fermare la sofferenza collettiva. Ed è qui che si realizza il paradosso della riflessione: forse, quando tutti avranno preso parte alla lotta e non ci saranno più differenze tra chi ha combattuto e chi no, allora si riuscirà a trovare la pace agognata. Corrado riflette anche sulla sua continua fuga da un conflitto inevitabile e il suo tentativo di vivere una vita tranquilla:
E se non fosse che la guerra ce la siamo covata nel cuore noialtri, noi non più giovani, noi che abbiamo detto “Venga dunque se deve venire”, - anche la guerra, questa guerra, sembrerebbe una cosa pulita. Del resto chi sa. Questa guerra ci brucia le case. Ci semina di morti fucilati le piazze e strade. Ci caccia come lepri di rifugio in rifugio. Finirà per costringerci a combattere anche noi, per strapparci un consenso attivo. E verrà il giorno che nessuno sarà fuori della guerra.
Il personaggio di Corrado appare, soprattutto in queste ultime pagine, come l’alter ego dello scrittore, che, attraverso La casa in collina, analizza se stesso, i propri incubi e le proprie paure. Ma il destino del protagonista può essere interpretato anche in chiave universale:diventa simbolo dell’uomo moderno e dell’insensatezza della morte, emblematizzata dai cadaveri sulla strada, che diventano per Corrado simboli della colpa e della vergogna.
https://library.weschool.com/lezione/cesare-pavese-romanzo-la-casa-in-collina-guerra-suicidio-5938.html
http://www.manzoni.gov.it/2017/files/fenoglio_una_questione_privata_luperini.pdf
IL PARTIGIANO JOHNNY
Il partigiano Johnny è l’opera più nota di Beppe Fenoglio. A partire dalla sua pubblicazione postuma, nel 1968, grazie all’edizione curata da Lorenzo Mondo, che scelse il titolo del romanzo 1, è cominciata la riscoperta di questo autore, che viene considerato oggi uno dei più importanti del secondo Novecento italiano. Nel Partigiano Johnny il racconto della Resistenza nelle Langhe, che in Una questione privata si sviluppava attraverso l’orizzonte intimo ed esistenziale del protagonista Milton, viene trasceso ed elevato a livello epico. Nutrita fortemente dalla memoria diretta dell’autore (che fu partigiano in quei luoghi, ovvero le colline attorno alla città piemontese di Alba), quella di Johnny diventa l’epopea individuale e al tempo stesso universale dell’eroe partigiano.
Trama
La storia di Johnny assomiglia a quella del protagonista di Una questione privata: un giovane studente con la passione per la poesia inglese, sbandato dopo l’8 settembre 1943, riesce a ritornare dai genitori ad Alba, che è occupata dai tedeschi, e tuttavia decide di “andare in montagna” con i partigiani per assecondare la propria utopia di lotta per la libertà contro i nazifascisti. Quella di Johnny è la storia di una formazione: prima, in città, nelle discussioni con il professor Chiodi e i suoi allievi sul senso di diventare partigiano, poi, “sul campo”, dove emerge il problema di appartenere a una collettività fatta di uomini diversi per estrazione sociale, provenienza geografica e convinzioni ideologiche.
Fin da subito, Johnny si mostra a suo agio nelle privazioni della vita partigiana e molto abile nelle azioni militari; tuttavia matura in lui una forte insofferenza verso il ricorso ingiustificato alla violenza a cui tanti compagni si abbandonano, verso la disorganizzazione dei gruppi combattenti e, soprattutto, verso i tentativi d’imporre alla lotta partigiana un connotato politico specifico. A farlo sono in particolare i comunisti del commissario Némega, tra i quali Johnny si arruola inizialmente e dai quali, per questo motivo, si allontana presto, complice anche la morte di Tito, giovane siciliano, con cui Johnny, nonostante le differenze di provenienza e cultura, aveva sentito di condividere il senso dell’azione partigiana.
Johnny passa cosi alle brigate “azzurre” dei badogliani, comandate dal partigiano Nord, che per il suo nobile portamento esercita un notevole fascino su di lui. Qui Johnny ritrova l’amico Ettore e incontra il tenente Pierre: a loro rimarrà legato fino alla fine. La presa di Alba da parte dei partigiani, il 10 ottobre 1944, e la sua perdita 23 giorni dopo 2, però, segnano l’inizio di un lunghissimo inverno, mitigato solo dalla breve frequentazione con Elda, ragazza graziosa e un po’ sfacciata, che però si dimostra capace di sacrificarsi per amore di Johnny. I rastrellamenti nazifascisti costringono il protagonista a nascondersi, prima insieme a Pierre ed Ettore, poi, dopo il ferimento del primo e la cattura del secondo, in completa solitudine. Johnny tenta di riscattare Ettore procurandosi un prigioniero fascista, come il Milton di Una questione privata; lo scambio però non riesce e Johnny è costretto a riprendere il vagabondaggio, esposto al freddo, alla fame e agli sguardi indiscreti delle spie, ma forte della calma datagli dalla convinzione di soffrire per una giusta causa.
Il 31 gennaio 1945 Nord convoca tutti i partigiani superstiti per annunciare la ripresa della lotta, e Johnny si accorge di non sopportare più le difficoltà e i compromessi della vita collettiva. Tuttavia, durante il primo scontro con i nazifascisti, all’ingresso del paese di Valdivilla, Johnny avverte un’euforia per il ritorno all’azione, che si esprime in un senso di distanza rispetto ai compagni. Così, nonostante la chiamata della ritirata, Johnny prende il fucile e si lancia nella battaglia: “Due mesi dopo la guerra era finita” , ma della sua sorte non si sa nulla.
La lingua del Partigiano Johnny
Il carattere più rilevante di questo romanzo è rappresentato dalla lingua elaborata da Fenoglio per raccontare la storia di Johnny. Si tratta di uno stile unico, che trova origine nella passione dell’autore, e del suo personaggio, per la lingua inglese, ritenuta espressione di una cultura pura e nobile (quella del teatro di Shakespeare e dell’amato Marlowe, o della poesia di Donne, Coleridge e Hopkins 4). Sulla base di un italiano colto e ricchissimo a livello lessicale, grazie anche ai numerosi neologismi, si innestano continui inserti in lingua inglese, che variano dalla singola parola (“la panica stilness delle alte colline”) all’intera frase (“Ma Johnny fell in abstraction”), fino a due pagine scritte interamente in inglese per riportare il colloquio di Johnny con due prigionieri sudafricani. Anche a livello sintattico, la ricerca fenogliano si volge verso una soluzione “alta” e nobile, che si faccia simbolo e metafora dell’universo di valori e di tensioni che animano il protagonista.
Un simile mélange, che produce un effetto di spaesamento nel lettore, dimostra la grande maturità stilistica di Fenoglio, che, per aggirare la convenzionalità dell’italiano “scolastico”, i modelli “realistici” del Neorealismo e le rigidità del dialetto (già usato nella Malora), crea una lingua irregolare, in cui l’inglese interviene a esprimere la voce dell’autentica identità del personaggio. E d’altronde è in inglese una delle frasi più emblematiche del romanzo:
I’m in the wrong sector of the right side .
Pronunciata da Johnny al suo arrivo nella brigata comunista, questa frase vale in realtà come sua massima esistenziale, poiché egli continuerà ad avvertire questo senso di estraneità anche quando sarà tra i badogliani. Pochi sono i compagni con cui riesce a sentire una vera vicinanza (Ettore, Pierre, Tito); nei confronti di tutti gli altri matura un orgoglioso senso di diversità, nutrito dall’insofferenza, poiché ai suoi occhi l’impreparazione, la violenza gratuita e l’ortodossia ideologica sono tanti modi di fraintendere il vero senso della lotta partigiana.
Per Johnny “partigiano, come poeta, è parola assoluta, rigettante ogni gradualità”, come Fenoglio fa dire a un personaggio, peraltro comunista. Questa dimensione assoluta, però, appare raggiungibile solo al di fuori dei compromessi dell’azione collettiva. Solo nella solitudine l’uomo può compiere le proprie scelte secondo un senso di giustizia che non si misura sull’esito di un singolo evento, ma su quello della causa superiore, come l’onore individuale e la Liberazione finale.
Cfr.:https://library.weschool.com/lezione/il-partigiano-johnny-beppe-fenoglio-riassunto-trama-analisi-personaggi-11218.html
La parola "partigiano"
E Cocito proseguì: - Tutto sta nell’ intendersi sul vero significato della parola partigiano, sbirciando Chiodi così sideways che la sua pupilla occhieggiò netta fuori dalla lente. E Chiodi disse con forza sospirosa: - Partigiano è, sarà chiunque combatterà i fascisti-. Cocito lampeggiò uno sguardo circolare su tutti quelli che avevano istantaneamente accettata la versione di Chiodi. Poi disse:- Ognuno di voi è infallantemente sicuro di riuscire un partigiano. Non dico un buon partigiano, perché partigiano, come poeta, è parola assoluta, rigettante ogni gradualità-. Johnny sbirciava Chiodi, finiva di bere il suo aperitivo con heavy repugnance.
E Cocito:- Facciamo un piccolo esamino di tipo scolastico, se volete, sul partigiano. Possiamo accettare la definizione di Chiodi per cui partigiano è colui che spara con buona mira, con mira definitiva, sui fascisti?
Tu, Johnny: avvisti un fascista od un tedesco e ti appresti a sparargli, sempre in onore e fulfilment della definizione. Però, si presenta un però: sparandogli ed uccidendolo, può accadere che dopo un paio d’ore appaia nella località o nei paraggi una colonna tedesca o fascista e per rappresaglia la metta a ferro e fuoco, uccidendo dieci, venti, tutti gli abitanti di essa località. A conoscenza di una simile possibilità, tu Johnny spareresti ugualmente?
-No,- disse Johnny d’ impeto e Cocito rise dietro gli occhiali -.
Continuiamo per questa strada irta ma istruttiva, converrete.. Johnny se tuo padre fosse fascista, e fascista attivo, al punto da poter compromettere la sicurezza tua e della tua formazione partigiana, tu ti sentiresti di ucciderlo?- Johnny chinò la testa, ma un altro disse con una certa foga stammering:- Ma professore , lei fa soltanto casi estremi.- La vita del partigiano è tutta e solo fatta di casi estremi. Procediamo.
Johnny, se tu avessi una sorella, useresti questa tua sorella, impiegheresti il sesso di questa sorella per accalappiare un ufficiale tedesco o fascista e farlo portare al fatto in luogo ragionevolemente comodo; dove tu già sei appostato per farlo fuori?- Nessuno pronunciò quel no che del resto già urlava da solo nel desertico silenzio, e allora Cocito agitò le mani come a sbriciolare qualcosa. Ma Chiodi si eresse faticosamente sulla sua sedia: - Il professore intende dire che non si può essere partigiani senza un preciso substrato ideologico: La libertà in sé non gli pare più sufficiente struttura ideologica. In ultima istanza, il professore vuol dire che non si sarà partigiani se non si sarà comunisti.
[…]
E Chiodi si voltò un’ultima volta e disse, con la faccia stanca, aggravata dalla barba trascurata: - Ragazzi, teniamo di vista la libertà.
(B. Fenoglio, Il partigiano Johnny", cap. II, pp. 23- 25)
UNA QUESTIONE PRIVATA
https://docs.google.com/file/d/0B88KqbtvDKdHYlFnb09tUDJWTFE/edit
http://online.scuola.zanichelli.it/testiescenari/files/2009/05/pp1832-1834.pdf
Pin
http://www.schule.suedtirol.it/pi/faecher/italienisch/documents/Prova14.pdf
La memorialistica e il romanzo neorealista di impronta documentaria
PRIMO LEVI, Se questo è un uomo
Shemà
Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un si o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi, alzandovi.
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.
(P. Levi, esergo di Se questo è un un uomo)
L'apostrofe e la memoria: Shemà (trad.: "Ascolta")
http://aulalettere.scuola.zanichelli.it/le-figure-retoriche/lapostrofe-e-la-memoria-come-maledizione/
Da Se questo è un uomo, L'inizio del viaggio
http://www.mondadorieducation.it/risorse/media/secondaria_primo/italiano/giallo_rosso_blu3_lett/testi_audio/inizio_viaggio/inizio_del_viaggio_1.pdf
Da Se questo è un uomo, Il canto di Ulisse
https://it.pearson.com/content/dam/region-core/italy/pearson-italy/pdf/italiano/dante-primo-levi.pdf
Riflessioni sul romanzo La giornata di uno scrutatore
http://digilander.libero.it/uniboFilocalia/ITALO%20CALVINO,%20l'umano%20arriva%20dove%20arriva%20l'amore.pdf
PASOLINI, Una vita violenta, pp. 343-448
http://www.bdf.hu/btk/flli/romanisztika/OKTATSARS%20DOCENDI/TANANYAGOK%20%28OKTAT%C3%93%20SZERINT%29/ANTONIO%20SCIACOVELLI/LETTERATURA/NOVECENTO/Pasolini%20una%20vita%20violenta.pdf
Pasolini, da Scritti corsari, "Contro la televisione"
http://www.filosofico.net/Antologia_file/AntologiaP/Pasolini_01.htm
Pasolini, le ceneri di Gramsci
Testo: http://web.tiscali.it/minores/Ceneri_di_Gramsci.pdf